5.1. Almeno una possibilità
«Sfuggire alla meccanica»: dopo la condanna a morte, è questa l’unica cosa che interessa a Meursault. Se esista una possibilità, almeno una possibilità di evasione, un «balzo fuori dal rito implacabile», una «folle corsa» che offra la «possibilità della speranza». Speranza non di ritrovare la libertà e la vita, no, ma «di essere abbattuti all’angolo della strada, in piena corsa, e con un colpo secco» [1].
Perché la cosa più terribile non è la morte in sé, ma l’agonia cerebrale che la precede, l’impossibilità di pensare ad altro, di distogliere l’attenzione da quell’idea fissa, che divora tutto e, come uno «spettro di piombo», impedisce di «voltare la testa dall’altra parte o chiudere gli occhi», come scrive Hugo nell’Ultimo giorno di un condannato a morte, la più grandiosa delle opere dedicate al tema della pena capitale:
Qualunque cosa faccia, è sempre lì, quel pensiero infernale, come uno spettro di piombo che mi sta a fianco, solitario e geloso, scacciando ogni distrazione, a tu per tu con me, miserabile, scrollandomi con le sue mani gelide quando voglio voltare la testa dall’altra parte o chiudere gli occhi. Si insinua in tutte le forme ovunque la mia mente provi a sfuggirgli, si intromette come un ritornello orribile in tutte le frasi che mi vengono rivolte, si aggrappa insieme a me alle squallide sbarre della mia cella; mi ossessiona da sveglio, spia il mio sonno convulso e riappare nei miei sogni sotto forma di lama [2].
5.2. Una sproporzione ridicola
Meursault ci mette tutta la sua buona volontà, ma proprio non può accettare quella «certezza insolente». La certezza, per dirla con Dostoevskij, «che fra un’ora, poi fra dieci minuti, poi fra mezzo minuto, poi ora, subito, […] tu, uomo, cesserai irrevocabilmente di essere un uomo» [3].
Perché c’è una sproporzione «ridicola» tra «il verdetto su cui quella certezza si basava e il suo imperturbabile decorso dal momento in cui tale verdetto era stato pronunciato» (ibidem). Insomma, ci sono tanti elementi che riducono di molto, se non addirittura annullano del tutto, la serietà di una simile decisione, tra i quali, per esempio, il fatto «che fosse stata determinata da uomini soggetti a cambiare biancheria», i cui effetti sono tuttavia «certi e seri» tanto quanto il muro contro il quale Meursault schiaccia il proprio corpo.
Cogliere il ridicolo nel dramma contribuisce a rivelarne l’assurdità, a rivelare, nella fattispecie, l’assurdità dell’umana giustizia e delle sue pene capitali. Come può un uomo, un uomo come tutti, ridicolo e mortale come tutti, ergersi a giudice supremo e arrogarsi il diritto di condannare a morte un suo simile? È la stessa condizione di uomo a delegittimare e screditare colui che giudica e condanna, e non basta un abito maestoso, una parrucca, un tono di voce fermo, deciso e un atteggiamento teatrale a cancellare il ridicolo. Anzi, semmai lo accrescono.
5.3. Niente di più importante
Meursault si rimprovera per non essersi mai reso conto che non c’è niente di più importante di un’esecuzione capitale, l’unica cosa davvero interessante per un uomo.
E proprio all’esecuzione capitale è legato l’unico ricordo che Meursault ha del padre, mai conosciuto. Era andato a vederne una, di esecuzione, il padre di Meursault, nonostante la nausea. Poi, al ritorno, aveva vomitato per tutta la mattina. Meursault, che quando la madre gli aveva raccontato questa storia aveva provato «disgusto» per il padre, ora lo capisce. Capisce che quella nausea è una «cosa naturale», e un «vortice di gioia avvelenata» gli sale al cuore immaginandosi spettatore di un’esecuzione. Ma si tratta, evidentemente, di una cosa «irragionevole», perché dopo appena un istante Meursault ha così «atrocemente freddo» da doversi rannicchiare sotto le coperte.
5.4. Senza scampo
La ghigliottina non lascia scampo, sancisce la morte del «paziente», come Meursault chiama il condannato, una volta per tutte. Non c’è scampo. È un punto importante questo, perché dare una possibilità al condannato, anche una su mille, risolverebbe un «mucchio di problemi». Se c’è una differenza tra l’omicidio illegale e l’omicidio legale, sta proprio qui, come spiega Dostoevskij nell’Idiota:
Uccidere chi ha ucciso è, secondo me, un castigo non proporzionato al delitto. L’assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpetrato da un brigante. La vittima del brigante è assalita di notte, in un bosco, con questa o quell’arma; e spera sempre, fino all’ultimo, di potersi salvare. Ci sono stati casi in cui l’assalito, anche con la gola tagliata, è riuscito a fuggire, e casi in cui l’assalito, supplicando, ha ottenuto la grazia dei suoi assalitori. Ma con la legalità, quest’ultima speranza, la speranza che attenua lo spavento della morte, vi viene tolta con una certezza matematica, spietata. Attaccate un soldato alla bocca di un cannone e accostatevi con la miccia: chi sa! Penserà il disgraziato, tutto è possibile… Ma leggetegli la sentenza di morte e lo vedrete piangere o impazzire. Chi ha mai detto che la natura umana può sopportare un colpo simile senza impazzire? [4].
5.5. Allo stesso livello
E il condannato non può neppure contare sul conforto del patibolo, perché non è più come nel 1789, e la ghigliottina è collocata direttamente a terra, «allo stesso livello dell’uomo», che avanza verso di essa «come se andasse incontro a qualcuno»:
La salita verso il patibolo, l’ascesa verso il cielo, elementi ai quali l’immaginazione poteva aggrapparsi. Invece, ancora una volta, la meccanica annientava tutto: si veniva uccisi in modo discreto, con un po’ di vergogna e molta precisione (145).
5.6. L’alba
Vorrebbe lasciarsi andare Meursault, abituarsi all’idea della fine, accettarla, rassegnarsi ad essa, ma non ci riesce. Il corpo rivendica i propri diritti, e come scrive Camus nel Mito di Sisifo, il suo giudizio «vale quanto quello dello spirito, e il corpo indietreggia davanti all’annientamento» [5]. Così, per quanto si sforzi di non pensare al ricorso e all’alba, Meursault finisce sempre per pensarci.
È all’alba che verranno a prenderlo, Meursault lo sa, e per questo motivo passa le notti ad attenderla, l’alba. Non dorme più la notte. Dovrà esserci in quel momento. Sua mamma «diceva spesso che non si è mai del tutto infelici» ed è vero, anche nel caso di un condannato a morte:
Le davo ragione tra quelle mura, quando il cielo si coloriva e un nuovo giorno scivolava nella mia cella. Perché allo stesso modo avrei potuto udire i passi, e il mio cuore avrebbe potuto scoppiare (147).
C’è un frammento, nei Quaderni di Camus, del 1938, che, in poche parole, lo racconta, questo momento, il momento terribile in cui Meursault li sente arrivare:
…Sono loro. Ma no, è ancora completamente buio. Sono arrivati prima. È un furto. Vi dico che è un furto…
…Fuggire. Fracassare tutto. Ma no, rimango. Una sigaretta? Perché no? Un po’ di tempo. Ma intanto mi taglia il colletto della camicia… Intanto. Contemporaneamente. Non guadagno tempo. È un furto, vi dico [6].
In fondo è un bene che al condannato non comunichino il giorno dell’esecuzione. L’attesa mantiene in vita la speranza.
5.7. Il ricorso
La notte Meursault pensa all’alba, il giorno al ricorso. Parte sempre dalla peggiore delle ipotesi: il ricorso viene respinto. Allora si sforza di accettare l’idea della fine, perché in fondo «tutti sanno che la vita non vale la pena di essere vissuta», «che morire a trent’anni o a settanta importa poco, giacché in entrambi i casi, naturalmente, altri uomini e altre donne continueranno a vivere, e questo per migliaia di anni» (ibidem). Che sia ora o tra vent’anni, è sempre lui, Meursault, a morire.
Accettata la fine e superato il «tremendo sussulto» legato al pensiero di quei possibili vent’anni in più, Meursault si concede il conforto della migliore delle ipotesi: la grazia. E questo pensiero provoca in lui un’incontenibile esplosione di gioia che rivela come la propedeutica accettazione della fine sia soltanto una postura, diciamo così, e non una convinzione:
E lì il problema era che dovevo frenare lo slancio di sangue e di corpo che m’infiammava gli occhi di una gioia insensata. Dovevo sforzarmi di calmare quel grido, di farlo ragionare. Dovevo essere naturale anche in quell’ipotesi, per rendere plausibile la mia rassegnazione nell’altra. Se ci riuscivo, avevo guadagnato un’ora di calma (148).
Rassegnarsi alla morte è un po’ come uccidersi. Per questo motivo Meursault non ci riesce. Vuole vivere, Meursault, e forse non gli è mai stato così chiaro come ora.
5.8. La verità
Durante il colloquio con il cappellano, dentro Meursault scoppia qualcosa. Afferra il sacerdote per il bavero della tonaca e gli rovescia addosso tutto quello che ha nel cuore. È il momento decisivo dello Straniero, il «solo momento», scrive Camus nei Quaderni, in cui Meursault «parla di sé e confida al lettore qualcosa del proprio segreto», il «luogo privilegiato» in cui finalmente si riunisce un uomo finora «disperso» [7].
Meursault, che fino a questo momento si è limitato a «rispondere alle domande» e non ha mai affermato nulla, come uniformandosi al «cliché negativo» che la società ha di lui, finalmente prende la parola senza essere interrogato e grida in faccia al cappellano la propria verità. Non si giustifica, Meursault, ma si arrabbia, «che è una cosa molto diversa», e giunge «al solo grande problema» [8].
Grida al cappellano che nessuna delle sue certezze vale il capello di una donna. Grida di essere sicuro di sé, «sicuro di tutto», della sua vita e della morte che lo aspetta. Grida di non avere altro, ma di possedere quella verità quanto lei possiede lui. Grida di avere ragione, Meursault, di aver avuto sempre ragione, che niente ha importanza e che sa bene il perché, come lo sa anche il cappellano. Perché la vita non ha alcun senso, ecco perché:
Che m’importava della morte degli altri, dell’amore di una madre, che m’importava del suo Dio, delle vite che si scelgono, dei destini che si eleggono, se poi era un unico destino a eleggere me e con me miliardi di privilegiati che, come lui, si dicevano miei fratelli? Capiva, lo capiva adesso? Tutti erano privilegiati. C’erano solo privilegiati. Un giorno anche gli altri sarebbero stati condannati. Anche lui sarebbe stato condannato. Che importava se, accusato di omicidio, sarebbe stato giustiziato per non aver pianto al funerale della madre? Il cane di Salamano valeva quanto sua moglie. La donnetta meccanica era colpevole quanto la parigina che Masson aveva sposato o Marie che voleva che la sposassi. Che importava se Raymond era mio amico quanto Céleste che valeva più di lui? Che importava se oggi Marie dava la propria bocca a un nuovo Meursault? (155)
«Alla luce del destino mortale», scrive Camus nel Mito di Sisifo, «appare l’inutilità», e non c’è «morale», non c’è «sforzo» che siano «giustificabili a priori davanti alla sanguinante matematica che regola la nostra condizione» [9]. È questa la terribile verità che Meursault grida in faccia al cappellano e che illumina di colpo, come un improvviso e abbacinante bagno di luce, la sua vicenda esistenziale. Ecco la ragione della sua inconcepibile «insensibilità». A differenza di tutti gli altri, Meursault è perfettamente consapevole, nello spirito e nel corpo, dell’assurdità della vita. Se nulla ha senso, e dunque importanza, che differenza fa se Meursault ami Marie oppure no? Se un figlio pianga al funerale della madre oppure no? E così per ogni altra cosa della vita.
Nei Quaderni Camus spiega che la negazione non è un «abbandono», ma una «scelta», l’unica scelta:
Non è possibile altra vita per un uomo privato di Dio, e tutti gli uomini lo sono [10].
La fede è soltanto un’illusione, una delle tante. Il destino del cappellano è lo stesso di Meursault, lo stesso di tutti gli uomini: la morte. Non c’è via d’uscita da questa «sanguinante matematica». In fondo, l’unica differenza è tra chi ne è consapevole e chi no. Una differenza tutt’altro che irrilevante, e non soltanto dal punto di vista metafisico, ma anche, per certi aspetti soprattutto, dal punto di vista sociale, come mostra il processo a Meursault. In un mondo dominato dagli uomini quotidiani, che basano la propria vita su un’illusione, dandole un senso che non può in alcun modo avere, l’uomo assurdo, libero dalle regole comuni, dai pregiudizi del proprio ambiente e tornato alla coscienza, è condannato alla solitudine, all’incomprensione, all’emarginazione, alla morte. E tornare indietro, per lui, non è possibile, perché l’«uomo divenuto cosciente dell’assurdo», scrive Camus nel Mito di Sisifo, «è legato a questo per sempre» [11].
5.9. Meursault felice
I secondini strappano il cappellano dalle mani di Meursault e Meursault, rimasto solo, ritrova la calma. Sfinito, si getta sulla branda e, forse, s’addormenta. Quando riapre gli occhi, la pace dell’estate assopita gli entra dentro come una «marea». L’urlo delle sirene annuncia partenze per un mondo che ora gli è «indifferente per sempre».
Pensa alla mamma, Meursault, dopo tanto tempo, e capisce perché, alla fine della sua vita, «si fosse presa un “fidanzato”», il vecchio Thomas Pérez, perché «avesse giocato a ricominciare». Anche laggiù, a Marengo, intorno all’ospizio dove le vite si spengono, la sera è una «tregua malinconica», e lì «doveva sentirsi liberata», la mamma di Meursault, «e pronta a rivivere tutto». Nessuno ha il diritto di «piangere su di lei», neppure lui, Meursault, il figlio.
Quasi che quella «grande rabbia» gridata, riversata addosso al cappellano, lo abbia «purgato del male» e «svuotato della speranza», per la prima volta Meursault si apre alla «tenera indifferenza del mondo», e riconoscendolo così simile a sé, «finalmente così fraterno», sente di essere stato, e di essere ancora, «felice» (156-157).
«La felicità e l’assurdo», scrive Camus nel Mito di Sisifo, «sono figli della stessa terra e sono inseparabili» [12].
Persino nella disperazione più pura, perché c’è «un solo caso», spiega Camus nei Quaderni, in cui la disperazione sia davvero «pura», ed è il caso del condannato a morte [13], l’uomo assurdo può essere felice. Ecco perché l’assurdo è un’opportunità che nessuno di noi dovrebbe lasciarsi sfuggire [14].
NOTE
[1] Albert Camus, Lo straniero, traduzione di Sergio Claudio Perroni, Bompiani, Milano 2017, p. 142. D’ora in avanti il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[2] Victor Hugo, L’ultimo giorno di un condannato, traduzione di Donata Feroldi, Feltrinelli, Milano 2021, pp. 51-52. Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Victor Hugo, «L’ultimo giorno di un condannato a morte»: il «pensiero agonizzante».
[3] Fëdor Dostoevskij, L’idiota, traduzione di Federigo Verdinois, in Id., Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 598.
[4] Ibidem.
[5] Albert Camus, Il mito di Sisifo, traduzione di Attilio Borelli, Bompiani, Milano 2020, p. 9.
[6] Albert Camus, Taccuini, traduzione di Ettore Capriolo, Bompiani, Milano 2018, p. 92.
[7] Ivi, p. 168.
[8] Ivi, p. 166.
[9] Albert Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 17.
[10] Albert Camus, Taccuini, cit., p. 167.
[11] Albert Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 31.
[12] Ivi, p. 120.
[13] Albert Camus, Taccuini, cit., p. 91.
Tutti gli uomini, come scrive Hugo nell’Ultimo giorno, sono condannati a morte, ma con «rinvii definitivi» (Victor Hugo, L’ultimo giorno di un condannato a morte, cit., p. 57). L’orrore del condannato a morte legale, definiamolo così, nasce «dalla certezza» di morire, «o meglio da quell’elemento matematico che entra in tale certezza» (Albert Camus, Taccuini, cit., p. 91). È ciò che sottolinea anche Dostoevskij, come abbiamo visto in precedenza.
[14] Per un approfondimento sull’assurdo come opportunità rimando al contributo Albert Camus, «Il mito di Sisifo»: la grande opportunità dell’assurdo. Prima parte, Seconda parte.