Anch’io quella sera fui mortale. Ebbi un nome: Penelope. Quella fu l’unica volta che senza sorridere fissai in faccia la mia sorte e abbassai gli occhi.
Circe in Le streghe
Introduzione. Ritorno alle origini
I. Non è per insensibilità, o disinteresse, o qualunque altra ragione di questo genere – semmai per orrore e vergogna, vergogna d’appartenere a una razza capace di simili atrocità -, che Pavese, nel secondo dopoguerra, mentre l’intera letteratura italiana è concentrata sul dramma bellico, scrive un’opera apparentemente disimpegnata, distante e inattuale come Dialoghi con Leucò. Sono i suoi «quarti di luna», il suo «capriccio», la sua «musa nascosta», propri di ogni «scrittore autentico», a indurlo a «farsi eremita» [1], come si legge nella nota scritta, in terza persona, per la prima edizione dell’opera, del 1947, lo stesso anno di pubblicazione del Compagno, a sfilarsi, almeno per un momento di tempo, dal presente, e tornare alle origini, a quella cultura greco-latina «ostaggio della retorica fascista» [2]. Contribuisce a liberarla, Pavese, questa cultura, restituendola «in una lingua più viva e intensa», anche attraverso la preziosa attività di traduttore (Pavese traduce la Teogonia di Esiodo, gli inni omerici e l’evocazione dei morti dell’XI libro dell’Odissea), e giungendo «alle radici del “sacro” in cui pulsa ancora, lontanissimo ma distinto, il cuore del mito» [3].
I Dialoghi con Leucò non sono un mero esercizio letterario, una bella prova d’erudizione classica, e neppure un semplice «capriccio», riprendendo l’espressione di Pavese. Scrivere del mito è scrivere dell’uomo, perché dell’uomo, l’uomo universale, sostanziale, e della sua drammatica condizione, immutata e immutabile nei secoli, il mito è specchio. Per questo motivo il disimpegno, la distanza e l’inattualità dei Dialoghi con Leucò sono soltanto apparenti. Il destino dell’uomo «non si gioca nei termini circoscritti di un secolo», per quanto terribile, «ma s’inserisce in un giro d’orizzonte più esteso, trans-storico» [4]. E dell’umano destino il mito è la prima, grande, archetipica rappresentazione.
Nella prefazione Pavese lo definisce, il mito, un «linguaggio», un «mezzo espressivo», un «vivaio di simboli cui appartiene, come a tutti i linguaggi, una particolare sostanza di significati che null’altro potrebbe rendere» [5]. E basta ripetere un «nome proprio» – Orfeo -, un «gesto» – il suo voltarsi verso Euridice -, un «prodigio mitico» – il suo canto che rapisce l’Ade -, per esprimere «in mezza riga, in poche sillabe, un fatto sintetico e comprensivo, un midollo di realtà che vivifica e nutre tutto un organismo di passione, di stato umano, tutto un complesso concettuale» [6]. Nel linguaggio mitico è riflesso l’uomo, d’ogni tempo e luogo, ed è superfluo ricordare che su questo stesso linguaggio, dalla validità universale, Joyce fonda una delle opere narrative più straordinarie, se non la più straordinaria in assoluto, del Novecento, l’Ulisse, e Camus uno dei saggi filosofici più importanti del periodo, Il mito di Sisifo.
Scrivendo i Dialoghi con Leucò Pavese non distoglie lo sguardo dal proprio presente [7], ma lo amplia, fino ad abbracciare le origini della nostra cultura, in cui i problemi affrontati sono gli stessi del secondo dopoguerra (in questo senso, come scrive Renato Serra nel suo celebre Esame di coscienza, davvero la guerra «non cambia nulla» [8]) e gli stessi di oggi, quei problemi fondamentali, esistenziali, metafisici che sembrano convergere tutti verso un’unica, terribile verità: essere uomini è un dramma. Variano le rappresentazioni, le storie, i nomi, ma alla fine, nel vuoto che inevitabilmente resta, quel vuoto che è il nostro tragico destino e cancella in un colpo solo tutto ciò che è stato, sono sempre le parole del saggio Sileno a riecheggiare sinistre e beffarde:
L’antico mito racconta di come il re Mida abbia dato la caccia per molto tempo al saggio Sileno, il seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando infine gli cadde tra le mani, il re chiese quale fosse la cosa in assoluto migliore e maggiormente desiderabile per gli uomini. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal sovrano, con un riso stridulo erompe in queste parole: Miserabile stirpe d’un giorno, figli del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te sarebbe vantaggiosissimo non sentire? La cosa in assoluto migliore per te è del tutto irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la seconda cosa migliore per te è – morire presto [9].
II. Va «nella direzione di un “umanesimo” nuovo, attivo, consapevole» [10] il discorso mitico di Pavese, e in questo senso la scelta del genere, il dialogo, appare come la più naturale. Nella tradizione filosofico-letteraria italiana infatti, il dialogo s’impone come il «genere umanistico per eccellenza», dal Secretum di Petrarca al Dialogo della salute, e non solo, di Michelstaedter [11], passando per i dialoghi di Tasso e, naturalmente, le Operette morali di Leopardi, «senz’altro il modello di riferimento principale per Pavese» [12], a livello filosofico oltreché stilistico [13], con i Dialoghi di Luciano sullo sfondo.
Il genere rivela l’impostazione dialettica dell’opera di Pavese, incentrata sul confronto incessante e serrato tra opposizioni come mortalità e immortalità, destino e libertà, ricordo e attimo, maschile e femminile, ordine titanico e ordine olimpico, che, a conferma del carattere tragico dei Dialoghi con Leucò, non giungono mai a una vera sintesi, ma, al massimo, a un incontro.
III. Nel dialogo Le streghe, Circe spiega a Leucò che gli uomini, mortali, hanno soltanto una cosa d’immortale: il ricordo. Ed è proprio su questo concetto chiave, completamente sconosciuto agli dei, gli immortali, concentrati tutti nella dimensione eterna dell’attimo, che si fonda l’opera di Pavese. È questo il mito, ricordo individuale e collettivo, come scrive Pavese nella già citata nota spiegando la genesi dei Dialoghi con Leucò:
Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialoghi [14].
È quasi con sguardo da etnologo che Pavese osserva il mito, frutto, come ogni manifestazione culturale, della speranza e del dolore dell’uomo, ma un uomo dotato di una ricchezza spirituale profondissima, vertiginosa, persino abissale di cui, più che ridere, dovremmo, noi uomini moderni, fatti di materia e sangue versato, rim-piangere la perdita. Ed è proprio all’insegna di questo rim-pianto che si concludono i Dialoghi con Leucò:
“E credi ai mostri, credi ai corpi imbestiati, ai sassi vivi, ai sorrisi divini, alle parole che annientavano?”
“Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Se un tempo salirono su queste alture di sassi o cercarono paludi mortali sotto il cielo, fu perché ci trovavano qualcosa che noi non sappiamo. Non era il pane né il piacere né la cara salute. Queste cose si sa dove stanno. Non qui. E noi che viviamo lontano lungo il mare o nei campi, l’altra cosa l’abbiamo perduta.”
“Dilla dunque, la cosa.”
“Già lo sai. Quei loro incontri.” [15]
NOTE
[1] Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, a cura di Salvatore Ritrovato, Feltrinelli, Milano 2021, p. 221.
[2] Salvatore Ritrovato, I Dialoghi con Leucò. Un viaggio verso l’uomo, in Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 16.
[3] Ivi, pp. 16-17.
[4] Ivi, pp. 22-23.
[5] Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 33.
[6] Ibidem.
[7] Quanto Pavese lo soffrisse, il proprio presente, lo dimostra chiaramente la lettera a Giuseppe Vaudagna del 21 gennaio 1945: «il mio tormento è tutt’altro che letterario, ma tanto più lancinante. Piango sulla sorte del mondo e mia. È molto difficile che ne escano pagine, anche brutte, piuttosto una nevrosi o un bel funerale. Tu le chiami esperienze: io li chiamo pugni sulla testa, coliche, incubi…» (citato in Salvatore Ritrovato, I Dialoghi con Leucò. Un viaggio verso l’uomo, cit., p. 12).
[8] Per un approfondimento sul testo rimando al contributo Renato Serra, la guerra «non cambia nulla».
[9] Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, traduzione di Susanna Mati, Feltrinelli, Milano 2022, p. 87.
[10] Salvatore Ritrovato, I Dialoghi con Leucò. Un viaggio verso l’uomo, cit., p. 16.
[11] Michelstaedter, oltre al celebre dialogo tra Nino e Rico, scrive dialoghi tra se stesso e Nadia Baraden, Diogene e Napoleone, la Cometa e la Terra, l’adolescente e l’uomo, il borghese e il saggio, la folla, l’uomo e il singolo.
[12] Salvatore Ritrovato, I Dialoghi con Leucò. Un viaggio verso l’uomo, cit., p. 17.
[13] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo «Operette morali»: la filosofia della sofferenza di Giacomo Leopardi. Prima parte, Seconda parte, Terza parte.
[14] Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 221.
[15] Ivi, p. 219.