Albert Camus, «Lo straniero»: l’uomo assurdo – 4. Il processo

4.1. Il ridicolo

Il caso di Meursault non è il più importante dell’ultima sessione della Corte d’Assise. Subito dopo verrà infatti discusso un parricidio.

Introdotto nell’aula, Meursault, rinchiuso nella gabbia degli imputati, si ritrova faccia a faccia con i giurati. Gli sembrano passeggeri d’un tram che spiano l’ultimo arrivato «per coglierne il ridicolo». In realtà ciò che cercano è il delitto, non il ridicolo, ma in fondo non c’è molta differenza.

4.2. Voglia di piangere

Il primo testimone interrogato è il direttore dell’ospizio di Marengo. Dichiara che la mamma di Meursault si lamentava di lui e lo rimproverava per averla messa all’ospizio, e che la sua calma il giorno del funerale lo aveva stupito molto: non aveva voluto vedere la mamma, Meursault, non aveva pianto neppure una volta, e non aveva pregato sulla sua tomba, andando via subito. Inoltre il direttore rivela che Meursault non sapeva l’età della madre. È stato un impiegato delle pompe funebri a dirglielo.

Il pubblico ministero non ha domande da fare al direttore, è soddisfatto così, e soddisfatto a tal punto da gridarlo, «con una tale foga e un tale sguardo di trionfo verso di me che, per la prima volta da anni, ho avuto stupidamente voglia di piangere, perché sentivo quanto mi detestassero tutte quelle persone» [1].

4.3. La consapevolezza

Il secondo testimone è il custode-pensionante dell’ospizio. Conferma che Meursalt non volle vedere la mamma e dichiara inoltre che, durante la veglia, ha fumato, dormito e bevuto persino – il persino è mio – un caffellatte. Qualcosa scuote l’intera aula e Meursault, per la prima volta, capisce di «essere colpevole». In effetti, quel caffellatte bevuto durante la veglia della mamma è una prova schiacciante.

4.4. Un dolore troppo grande

Il terzo testimone è Thomas Pèrez, l’amico della mamma di Meursault. Gli chiedono cosa ha fatto Meursault quel giorno, il giorno del funerale, come si è comportato, e Pèrez risponde di non aver visto niente:

Sapete, era un dolore troppo grande per me. Perciò non ho visto niente. Era il dolore a impedirmi di vedere. Perché era un dolore troppo grande per me. Tanto che sono persino svenuto. Perciò quell’uomo non potevo vederlo (121).

4.5. Una disgrazia

Il quarto testimone è Céleste, il proprietario della trattoria dove va sempre a mangiare Meursault. Ma di Meursault, Céleste, è anche un amico. L’unico. Gli chiedono cosa pensa di Meursault e lui risponde che Meursault è un «uomo», e che tutti sanno cosa significa essere un «uomo». Gli chiedono poi se lo ritiene un tipo chiuso e Céleste risponde che Meursault parla soltanto se ha qualcosa da dire. Infine gli chiedono cosa ne pensa del delitto e Céleste, le mani sulla sbarra, risponde che per lui si tratta di una «disgrazia», e che tutti sanno cos’è una «disgrazia», «una cosa che lascia indifesi». Lo ripete un’altra volta, Céleste, che per lui è una «disgrazia», poi si volta verso Meursault, gli occhi luccicanti, le labbra tremanti, come se gli domandasse cos’altro possa fare. In quel momento Meursault prova qualcosa che non ha mai provato prima:

Quanto a me, non ho detto niente, non ho fatto nessun gesto, ma per la prima volta in vita mia ho avuto il desiderio di baciare un uomo (123).

È come se in questo momento Meursault capisse che l’amicizia, qualcosa, forse, significa.

4.6. Riassunto

Dopo Céleste tocca a Marie. Non ha i capelli al vento, come piace a Meursault, indossa il cappello, ma è bella lo stesso. Dal suo punto d’osservazione, dalla sua gabbia, Meursault intuisce «il peso lieve dei suoi seni» e riconosce «il suo labbro inferiore sempre un po’ tumido», come quello di Grušenka.

A Marie chiedono di riassumere la giornata in cui ha incontrato Meursault. Marie non vorrebbe rispondere, ma è costretta a farlo e allora racconta del bagno al mare, del cinema e della notte passata insieme. Solenne ed emozionato, il procuratore si alza e addita Meursault:

Signori giurati, all’indomani della morte di sua madre [in realtà sono passati almeno due giorni], quest’uomo andava al mare, iniziava una relazione irregolare e si faceva quattro risate con un film comico. Non ho altro da dirvi (124).

Marie scoppia a piangere, dice che non è così e che c’è dell’altro, che Meursault non ha fatto niente di male, ma la portano via.

4.7. Bisogna capire

Il sesto testimone è Masson, l’amico di Sintès. Masson definisce Meursault un «uomo onesto», anzi, di più, un «brav’uomo».

Dopo Masson tocca al vecchio Salamano, che ricorda come Meursault trattasse bene il suo cane e spiega che se aveva messo la mamma all’ospizio era perché non aveva più niente da dirle e che bisogna capire.

Ma nessuno sembrava capire (125).

4.8. Un mostro

Infine è la volta di Sintès, l’ultimo testimone. Sintès fa un cenno a Meursault e dichiara subito che Meursault è innocente. Ma il presidente gli fa notare che non spetta a lui dare giudizi. L’intervento di Sintès è un disastro. Il procuratore lo accusa di essere un «ruffiano», un magnaccia, di cui Meursault è complice e amico, e definisce tutta quella storia «un sordido dramma della specie più vile, aggravato dal fatto che il suo protagonista fosse un mostro morale» (126).

Che Meursault sia un assassino non basta. Non può bastare per una giustizia, più in generale per una società, che adotta la pena di morte. Fino a questo punto imputato e giustizia sono sullo stesso piano. È necessario degradarlo, l’imputato, renderlo un «mostro», affinché la giustizia sia pienamente autorizzata a eliminarlo fisicamente. Per questo motivo l’accusa mette completamente da parte il delitto e insiste tanto sulla vicenda della mamma di Meursault. Meursault non è semplicemente un assassino, e neppure un uomo, Meursault è un mostro, e come tale va eliminato. È proprio sulla ricerca-creazione ed eliminazione dei mostri come Meursault che la giustizia e la società (la giustizia è il braccio armato della società) legittimano la propria esistenza.

Dopo aver domandato a Sintès e Meursault se sono amici e aver ricevuto da entrambi una risposta affermativa, il procuratore conclude:

Lo stesso uomo che all’indomani della morte di sua madre si abbandonava alla più ignobile dissolutezza, ha ucciso per futili motivi e per liquidare un’abietta faccenda di malaffare (126-127).

Pungolato dall’avvocato di Meursault, che domanda se il suo assistito è accusato di aver seppellito la madre oppure di aver ucciso un uomo, il procuratore dichiara che tra i due fatti corre un nesso «profondo, penoso, cruciale», e conclude, gridando con forza:

Sì, […] io accuso quest’uomo di aver seppellito una madre con cuore da criminale (127).

4.9. L’ora felice

Quando, alla fine dell’udienza, Meursault lascia il palazzo di giustizia e viene riportato in prigione, è l’ora del giorno che ama di più. Della sera estiva riconosce, nel breve tragitto tra il palazzo e il cellulare, l’odore e il colore. Poi, sulla prigione mobile, ritrova, a uno a uno, come dal «fondo» della sua «stanchezza», i «suoni familiari» della città che ama e di un’ora in cui gli accadeva di sentirsi «contento»:

Sì, era proprio l’ora in cui, tanto tempo fa, mi sentivo contento. Ad attendermi, all’epoca, era sempre un sonno leggero e senza sogni. E tuttavia qualcosa era cambiato, poiché, con l’attesa dell’indomani, quella che ho ritrovato è stata la mia cella. Come se i percorsi familiari tracciati nei cieli d’estate potessero portare tanto alle prigioni quanto ai sogni innocenti (128).

È triste che delle nostre ore felici comprendiamo il valore soltanto quando non le abbiamo più. Ma la vita, purtroppo, è così, l’uomo è così, come il condannato a morte di Myškin che, graziato, promette a se stesso di non sprecare più un solo attimo di vita, ma non ci riesce [2].

4.10. Senz’anima

Nella sua arringa il procuratore dichiara di aver cercato l’anima di Meursault, «di essersi chinato a cercarla», ma di non aver trovato nulla. Dichiara, il procuratore, che un’anima, Meursault, non ce l’ha, che non ha accesso a nulla di umano, Meursault, «a nessuno dei principi morali che assistono il cuore degli uomini».

È proprio questo il punto, la morale. L’uomo assurdo è al di fuori della morale comune, delle sue convenzioni, dei suoi pregiudizi, dei suoi luoghi, appunto, comuni, e per questo viene etichettato come diverso, straniero, e giudicato e condannato come un mostro. Attraverso il processo Camus rende, come dire, plastica, la condizione di esclusione, di emarginazione, di esilio dell’uomo consapevole dell’assurdità della vita, dunque dell’inammissibilità aprioristica di qualunque morale, e soprattutto di una morale comune, diciamo pure sociale, che ammette l’omicidio, che si serve dell’omicidio per preservare e tramandare se stessa.

Non ha cuore Meursault, continua il procuratore, che tra l’altro definisce la tolleranza una «virtù tutta negativa», opposta alla virtù, «meno facile ma più nobile», della giustizia, e questa assenza, l’assenza di un cuore, è «un baratro nel quale la società può sprofondare» (132).

4.11. Colpevole di tutto

Dopo la disquisizione sull’anima di Meursault, il procuratore parla del suo rapporto con la madre, perché è qui che si gioca tutto, qui che si decide se il mostro meriti delle attenuanti oppure no.

Il procuratore lega il caso di Meursault a quello di parricidio discusso subito dopo, e dichiara di provare, per quel crimine, un orrore inferiore rispetto a quello ispiratogli dall’«insensibilità» di Meursault. Meursault, spiega il procuratore, è l’assassino morale di sua madre, e l’assassino morale della propria madre si esclude, o meglio, si elimina dal «consorzio umano» tanto quanto un parricida vero e proprio. Non solo. Meursault, aggiunge il procuratore, è colpevole del parricidio che la stessa corte sarà chiamata a giudicare l’indomani. Ergo: «Va punito di conseguenza» (133).

Meursault non è semplicemente un mostro, ma il Mostro, responsabile di tutti i parricidi del mondo, e va dunque eliminato:

Io vi chiedo la testa di quest’uomo, […] e ve la chiedo a cuor leggero. Perché nel corso della mia ormai lunga carriera mi sono trovato più volte a chiedere la pena capitale, ma mai come oggi ho sentito questo gravoso dovere compensato, bilanciato, illuminato dalla coscienza di un precetto imperioso e sacro e dall’orrore che provo di fronte al volto di un uomo nel quale non leggo nulla che non sia mostruoso (134).

È bene sottolinearlo, perché qui è il vero colpo di genio di Camus. L’accusa chiede la condanna a morte per Meursault non per l’omicidio dell’arabo, di cui tutti sembrano essersi dimenticati, ma per l’omicidio morale della madre e di tutti gli altri genitori uccisi dai propri figli.

La vita sarà pure assurda, d’accordo, ma nulla, neppure la peste, può eguagliare l’assurdità della giustizia umana.

4.12. Per via del sole

Finalmente, dopo il procuratore e prima del suo avvocato, prende la parola Meursault, «stordito dal caldo e dallo stupore».

Meursault dichiara che non aveva intenzione di uccidere l’arabo e che è stato «per via del sole» [3]. Qualcuno, in aula, ride. La spiegazione di Meursault, assurda ma sincera, risuona come una presa in giro. Persino in un momento così solenne e drammatico il mostro dimostra di non avere un’anima. Non c’è nulla che scalfisca la sua beffarda «insensibilità», neppure la morte.

In realtà le cose non stanno così. Per l’uomo assurdo, spiega Camus nel Mito di Sisifo, che con i suoi occhi asciutti, dalle palpebre irrimediabilmente recise, intravede un «universo ardente e gelato, trasparente e limitato, dove nulla è possibile, ma tutto è dato; e dopo il quale vi è lo sprofondamento e il nulla», e in questo universo accetta la vita, traendone «la propria forza, il rifiuto a sperare e la prova ostinata di una vita senza consolazione», ciò che conta non è la qualità, ma la quantità, ciò che conta «non è vivere il meglio, ma il più possibile» – «i giudizi di valore sono qui scartati in favore dei giudizi di fatto» [4]. Perché «dove regna la lucidità», e l’uomo assurdo è il più lucido degli uomini, tanto lucido da apparire mostruoso, «la scala dei valori diventa inutile». Un solo ostacolo può impedire all’uomo assurdo di conseguire la vittoria: la «morte prematura» [5]. Per questo motivo Meursault accetta la prigionia, alla quale si adatta, si abitua senza troppi problemi, ma non può in alcun modo accettare la pena di morte.

Ancora una volta, ciò che sembra, e viene giudicato come tale, non è. Un equivoco senza via d’uscita.

NOTE

[1] Albert Camus, Lo straniero, traduzione di Sergio Claudio Perroni, Bompiani, Milano 2017, p. 119. D’ora in avanti il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[2] «Ma, scusate, a quel vostro amico che vi raccontava i suoi spasimi gli commutarono la pena, non è così?… In altri termini, secondo lui e secondo voi, gli fecero dono di una vita senza fine, di un tesoro. E che ne fece egli di questo tesoro? Riuscì a onorare tutti i minuti di cui era composto?»
«Oh no! Glielo domandai una volta e mi confessò di averne perduti molti, di minuti» (Fëdor Dostoevskij, L’Idiota, traduzione di Federigo Verdinois, in Id., Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 622).

[3] Del delitto ci siamo occupati nella seconda parte del presente contributo.

[4] Albert Camus, Il mito di Sisifo, traduzione di Attilio Borelli, Bompiani, Milano 2020, p. 56.

[5] Ivi, p. 58.

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