4. Nicola
All’epoca dell’«antica storia caucasica» narrata da Tolstoj – siamo tra il 1851 e il 1852 -, lo zar è Nicola I, il secondo dei tre zar impegnati nella guerra del Caucaso. A Nicola Tolstoj dedica un intero capitolo di Chadži-Murat, mutilato dalla censura prima della sua pubblicazione, avvenuta nel 1912, due anni dopo la morte dello scrittore. Perché di Nicola Tolstoj realizza un ritratto nient’affatto lusinghiero, che ne rivela la corruzione morale – ma sarebbe il minimo -, l’incapacità strategica e – soprattutto – la ferocia autoritaria.
È di cattivo umore Nicola. Eppure è reduce da un’avventura galante con una ragazza di vent’anni, una delle tante. Il fatto è che la giovane ha, come dire, offuscato la sua amante storica, la Nelidova, e ciò turba lo zar. Dopo aver goduto della fresca bellezza della fanciulla, la matura Nelidova non gli appare, forse, poi tanto desiderabile. Inoltre la giovane potrebbe aver ricordato a Nicola che lui, giovane, non lo è più (ha cinquantacinque anni), e che se non fosse lo zar, forse… Ma è soltanto un’ipotesi.
Quando è di cattivo umore, Nicola trova conforto e serenità nel pensiero della propria grandezza. Pensare a quel grande uomo che è lo tranquillizza, lo rilassa, liberandolo dai cattivi pensieri. Non soltanto Nicola non considera la propria dissolutezza un male (cadrebbe dalle nuvole se qualcuno gli rimproverasse i suoi continui tradimenti), ma si ritiene l’unico uomo onesto in tutta la Russia. Evidentemente, oltre ad avere un’enorme considerazione di se stesso, Nicola ha una scarsissima considerazione dei suoi sudditi. Un tratto comune a tutte le autorità, a dire il vero, perché l’autorità, e in fondo anche quella più liberale e democratica, si basa proprio sulla totale mancanza di fiducia nel genere umano. È questo, anzitutto questo a distinguere Cristo dal Grande Inquisitore nel celebre poema di Ivan Karamazov [1].
Tornando a Nicola, gli capita spesso di domandarsi cosa ne sarebbe della Russia se non ci fosse lui. In realtà lo zar è del tutto privo di abilità strategiche (leggendo il ritratto di Tolstoj viene spontaneo domandarsi se delle abilità le abbia, Nicola, che zar neppure avrebbe dovuto diventarlo, avendo due fratelli maggiori), e oramai anche di buonsenso, proprio come i tiranni più pericolosi, capaci di generare immani tragedie pur di assecondare i propri assurdi capricci, a causa della nociva adulazione che lo circonda. Nicola è convinto, ma fermamente convinto, che il piano di avanzare gradualmente, a piccoli passi, nel Caucaso, sia suo, quando in realtà egli ha ordinato di agire da subito con la forza:
La continua, aperta, ripugnante adulazione degli uomini che lo circondavano l’aveva condotto al fatto che non vedeva ormai le proprie contraddizioni, che non conformava più le proprie azioni e le proprie parole alla realtà, alla logica e perfino al semplice buon senso, ma era pienamente convinto che tutte le sue disposizioni, per quanto fossero insensate, ingiuste e in disaccordo tra loro, diventassero sensate, e giuste, e in accordo tra loro solo perché le aveva date lui [2].
L’adulazione è un male che porta Nicola a staccarsi completamente dalla realtà, dalla logica e persino dal semplice buonsenso, la più comune ed elementare delle qualità umane. Lo zar vive in una sorta di dimensione parallela e irreale, in cui egli è tutto.
È imbarazzante, e scandalosa, in relazione al ruolo, che gli permette, assurdamente, di disporre della vita di milioni di uomini (Petrucha Avdeev è soltanto uno dei tanti [3]), la superficialità di Nicola, che spiega e giustifica, a se stesso e agli altri, il «molto male» fatto ai polacchi, giudicandoli tutti, indistintamente, dei mascalzoni, che poi è più o meno la stessa opinione che ha dei russi: «E Nicola li considerava così, e non li sopportava in rapporto al male che aveva fatto loro» (107).
A Nicola piace essere «implacabilmente crudele», ma gli piace anche pensare che in Russia non ci sia la pena di morte, e così, allo studente di origini polacche che, debole di nervi, ha ferito con un temperino un professore, causandogli un graffio e poco più, infligge l’assurda pena di dodicimila – dodicimila – vergate, quando ne basterebbero meno della metà, cinquemila, per uccidere l’uomo più forte. Ossessionato dalla rivoluzione, suo vero e proprio incubo, Nicola ordina a tutti gli studenti di assistere alla punizione-esecuzione: «Sarà loro utile; spazzerà via questo spirito rivoluzionario, lo stroncherà alla radice» (108).
A Bibikov, governatore della regione occidentale impegnato a reprimere la rivolta dei contadini obbligati a passare alla fede ortodossa, l’implacabile Nicola ordina di arruolare come soldato semplice il redattore di un giornale che ha pubblicato la notizia dell’appropriazione, da parte della corona, di migliaia di anime governative, ovvero libere. Bibikov non osa contraddire il sovrano, sebbene sia perfettamente consapevole della crudeltà e dell’assurdità dell’ordine:
Bibikov capì tutta la crudeltà della disposizione contro i contadini, e tutta l’ingiustizia del passaggio delle anime governative, vale a dire di contadini a quel tempo liberi, alla corona, vale a dire la loro trasformazione in servi della gleba della famiglia dello zar. Ma fare obiezioni non era possibile. Non essere d’accordo con le disposizioni di Nicola avrebbe significato rinunciare alla brillante posizione che aveva conquistato in quarant’anni, e della quale godeva. E perciò chinò, docile, la sua testa nera, che si andava ingrigendo, in segno di ubbidienza e di disponibilità a realizzare la crudele, folle e disonesta volontà imperiale (109).
La carriera e il successo valgono per Bibikov il sacrificio di migliaia di vite umane la cui unica colpa è essere nate nella parte sbagliata della società, la parte, appunto, sacrificabile. Ecco perché tutti questi funzionari e burocrati, tutti questi ministri e governatori, di cui Tolstoj delinea, in Resurrezione, uno scandaloso quadro, sono responsabili tanto quanto il loro crudele e sanguinoso sovrano. Da una parte i signori, dall’altra i servi ovvero: da una parte i carnefici, dall’altra le vittime. È questo, sostanzialmente, l’ordine sociale che il secondo Tolstoj si sforza con tutto se stesso di scardinare.
Nicola è convinto di determinare, da solo, non soltanto la prosperità e la felicità della Russia, ma di «tutto il mondo». Per questo, pur essendone annoiato, e stanco, non nega «al mondo il suo contributo», ricevendo in cambio quotidiani omaggi, dall’uomo e da Dio: «Dio, per mezzo dei suoi servitori, allo stesso modo degli uomini salutava e elogiava Nicola» (110). Alla fine della funzione religiosa, mentre il diacono e i cantori gli augurano lunga vita, Nicola nota, vicino a una finestra, la sua amante storica, la non più giovane Nelidova, e finalmente risolve la questione che tanto lo ha impensierito, e infastidito, nelle ore precedenti, condizionando negativamente il suo umore, dal quale dipende il destino di milioni di uomini: la Nelidova, «con le sue spalle formose», vale più della ragazza del giorno precedente. Ma è un uomo riconoscente Nicola, generoso, giusto, e a Volkonskij, ministro di corte, ordina di assegnare una pensione annuale alla madre della giovane.
5. Più che odio
Su ordine di Nicola, che torna alla sua prima, geniale e sanguinaria strategia di conquista, i russi attaccano i villaggi ceceni: distruggono le case, le saclie, fatte di pietra e argilla, le bruciano, depredano il bestiame, abbattono alberi da frutto e alveari, imbrattano le fontane e i luoghi di culto, ammazzano i ragazzi. E i ceceni, che si rifugiano sulle montagne, verso i russi non provano semplicemente odio, no, ma qualcosa di più profondo, come una ripugnanza, uno schifo, un rifiuto istintivo, simile a quello che provano per i lupi, i topi, gli insetti, le bestie più feroci e turpi del creato insomma:
Di odio per i russi nessuno parlava. Il sentimento che provavano tutti i ceceni, dal più piccolo al più grande, era più forte dell’odio. Non era odio, era il non riconoscere questi cani russi come uomini, e un disgusto tale, una ripugnanza e un imbarazzo tali di fronte alla crudeltà insensata di questi esseri, che il desiderio di sterminarli, così come il desiderio di sterminare i topi, i ragni velenosi o i lupi, era tanto naturale quanto l’istinto di conservazione (120).
I ceceni si rifiutano di riconoscere nei russi dei propri simili, si rifiutano di credere e accettare che degli uomini, degli uomini come loro, possano compiere simili atrocità. Agli occhi dei ceceni i russi sono animali, animali da sterminare senza alcuna pietà. E questo sentimento di ripugnanza e rifiuto, di imbarazzo (è straordinario l’uso di questa parola in un tale contesto) è qualcosa di molto più profondo e terribile dell’odio, qualcosa che costituisce naturalmente, istintivamente i ceceni, come l’istinto di conservazione costituisce l’uomo. Coinvolge il corpo questo feroce sentimento, risultato del genio strategico di Nicola.
Dopo l’attacco russo i ceceni si trovano a un bivio: ricostruire tutto da capo, faticosamente, rischiando di perderlo di nuovo in un attimo, oppure passare dalla parte dei «cani russi», sottomettersi a loro, che sarebbe come sottomettersi ai topi, ai ragni velenosi, ai lupi. Come ignorare, come reprimere quel sentimento di ripugnanza, di disgusto, di disprezzo, di imbarazzo che ormai è parte di loro e li costituisce? Sarebbe come smettere di respirare. Sarebbe come smettere di vivere. È qualcosa che va al di là della dignità, dell’onore. È una questione di sopravvivenza.
La distruzione dei russi è assurda, non ha alcun senso, da nessun punto di vista, è pura violenza, pura ferocia fine a se stessa, genera soltanto quel sentimento di rifiuto, impossibile da racchiudere in una sola parola, che nel popolo aggredito, nel popolo violentato diviene atavico, costitutivo, ontologico ovvero proprio dell’essere, genetico. Sì, il rifiuto dell’aggressore, la sua negazione e l’istinto di sterminio entrano a far parte del corredo genetico del popolo aggredito, mescolato al sangue, esso stesso sangue.
6. Šamil’ (e Aminet)
Šamil’, l’imam ceceno dal volto di pietra nemico giurato di Chadži-Murat, mette il proprio dovere di capo spirituale davanti a tutto (al contrario di Nicola, per il quale il dovere appare piuttosto un intermezzo tra un ricevimento e l’altro, tra una scappatella e l’altra). Di ritorno da una campagna militare sfortunata, se non del tutto fallimentare, spiritualmente esausto, Šamil’ vorrebbe «riposare la propria stanchezza» e godere della compagnia, dell’«incanto delle carezze famigliari della più amata delle sue mogli, la diciottenne dagli occhi neri, dall’agile passo di gazzella, Aminet», ma non può farlo. Deve prima recitare la preghiera di mezzogiorno, quella preghiera che per lui stesso, come per tutto il suo popolo, è «così indispensabile come il pane quotidiano» (al contrario, di nuovo, di Nicola, per il quale la preghiera, del tutto priva di senso, non è altro che un fastidioso obbligo), e poi confrontarsi con gli anziani per decidere il destino di Chadži-Murat e della sua famiglia, che tiene prigioniera.
Alla sera, finalmente libero di recarsi da Aminet, Šamil’ non la trova. È arrabbiata con lui Aminet, perché ha regalato della seta a Zajdet, la più anziana e brutta delle sue mogli, e non a lei. Smanioso e deluso, Šamil’ entra ed esce di continuo dalla camera, mentre Aminet lo spia di nascosto, ridendo piano, per non farsi sentire. È proprio una ragazza di diciotto anni, Aminet.
7. Nazarov
Quattro cosacchi e un sottufficiale, il 25 aprile 1852, accompagnano Chadži-Murat e i suoi murid nella consueta passeggiata a cavallo nei dintorni di Nucha. Nazarov, il sottufficiale, è il maggiore di una famiglia di vecchi credenti, cresciuto senza padre, che mantiene l’anziana madre con tre figlie e due fratelli. Decorato con la croce di San Giorgio, è giovane e in salute, «un buon diavolo di un russo» insomma. Quando Chadži-Murat sprona il suo cavallo e inizia a correre più del consentito, Nazarov si lancia al suo inseguimento con gioia, senza pensare alle possibili conseguenze. Per Nazarov è soltanto una sfida, una prova di forza che affronta con entusiasmo e ingenuità quasi infantili:
Il cielo era così chiaro, l’aria così fresca, le forze vitali risuonavano in modo così gioioso nell’animo di Nazarov mentre lui, sentendosi un unico essere con il buono e forte cavallo, volava sulla strada pianeggiante dietro a Chadži-Murat, che non gli venne in mente nemmeno la possibilità che succedesse qualcosa di brutto, di triste o di terribile. Si rallegrava del fatto che ad ogni salto si avvicinava sempre di più a Chadži-Murat e che lo stava raggiungendo (169).
Interamente concentrato nello sforzo fisico, felice di poter mettere alla prova tutta la propria vitalità e la propria forza, Nazarov, in questo momento, non è più un soldato, ma un semplice ragazzo allegro, eccitato dalla sfida. Raggiunto Chadži-Murat, allunga la mano per afferrare le briglie del suo cavallo, ma non fa in tempo. Colpito da una pallottola, Nazarov cade sull’arcione della sella. Il cavallo di uno dei cosacchi, aggrediti a pistolettate e sciabolate dai montanari, gli cade sopra, schiacciandogli una gamba. Gamzalo, il più terribile dei murid di Chadži-Murat, gli taglia la gola. Un’energica e giovane vita, fondamentale almeno per altre sei, di vite – l’anziana madre, le tre figlie, i due fratelli -, se ne va così, improvvisamente, sotto un cielo limpido, nell’aria fresca del mattino.
I russi sono dei carnefici. I ceceni pure. La guerra rende tutti uguali, come la morte. Tutti carnefici.
8. Chadži-Murat
Non ha gli occhi privi di vita di Nicola, né quelli imperturbabili, petrosi di Šamil’, Chadži-Murat. Il suo sorriso è così buono da trasmettere anche a chi lo vede per la prima volta ed è – sulla carta – suo nemico, un senso di simpatia, persino di familiarità. È nobile e gentile Chadži-Murat, prende il piccolo Pagnotta, figliastro del comandante Voroncov, sulle ginocchia, e gioca con lui. Fa una buona impressione a tutti i russi che non abbiano sospetti, e persino alle dame pietroburghesi, le quali, certo, lo osservano un po’ come si osserva un animale esotico allo zoo.
È in trappola Chadži-Murat. A causa della faida con Šamil’ ha tradito la propria patria ed è passato con i russi, ma ai russi non può dimostrare la propria lealtà fino a quando non libereranno la sua famiglia, prigioniera di Šamil’, e i russi su questo punto non riescono proprio a decidersi. Alla fine Chadži-Murat decide di agire, di fuggire dai russi, tornare sulle montagne e liberare la famiglia. Un’impresa impossibile, o quasi, un suicidio, o quasi, ma non può resistere un giorno di più in questa condizione impotente e sfiancante di attesa. La famiglia lo chiama, il sangue lo rivendica ed egli deve andare: meglio morire tentando, che sopravvivere attendendo la decisione di qualcun altro.
La fuga di Chadži-Murat non riesce, e di lui resta soltanto una testa dal cranio quasi spaccato in due, portata in trionfo dai russi di villaggio in villaggio. I primi a vederla sono Mar’ja Dmitrievna e Butler (altro personaggio notevole), i due russi più affezionati a Chadži-Murat:
«Cos’ha, Mar’ja Dmitrievna?» chiese Butler.
«Siete tutti dei carnefici. Non lo sopporto. Dei carnefici, davvero», disse alzandosi.
«Può succedere a tutti», disse Butler, che non sapeva cosa dire. «È la guerra.»
«La guerra!» gridò Mar’ja Dmitrievna. «Che guerra? Dei carnefici, ecco tutto. Un corpo morto bisogna consegnarlo alla terra, e loro se ne fan beffe. Dei carnefici, davvero», ripeté, e scese dal terrazzino e entrò in casa dall’ingresso posteriore (166).
Difficile aggiungere altro. Nello sdegno rabbioso di Mar’ja Dmitrievna e nell’imbarazzo di Butler, sentimenti che ogni uomo dovrebbe provare davanti all’orrore della guerra, istintivamente, c’è molto, se non addirittura tutto.
Dopo essersi liberato dei cosacchi e del povero Nazarov, Chadži-Murat, con i suoi murid, resiste per ore contro centinaia di uomini, ma alla fine cade, «come una lappola falciata». Terminata la battaglia, gli usignoli, muti per tutto il tempo della sparatoria, ricominciano a cantare, come se niente fosse. La meravigliosa, e consolante, indifferenza della natura, che ci ricorda come dell’uomo, questo povero mondo, con buona pace di Nicola, potrebbe fare benissimo a meno.
NOTE
[1] Per un approfondimento sul testo rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso. Capitolo quinto – Ivàn, il nichilista estremo – V-VI.
[2] Lev Tolstoj, Chadži-Murat, traduzione di Paolo Nori, Garzanti, Milano 2020, p. 106. D’ora in avanti il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[3] Del buon Petrucha ci siamo occupati nella prima parte del presente contributo.