Tolstoj nel 1902

Lev Tolstoj, «Chadži-Murat»: come in ogni guerra, un’assurda carneficina – Prima parte

«Può succedere a tutti», disse Butler, che non sapeva cosa dire. «È la guerra.»
«La guerra!» gridò Mar’ja Dmitrievna. «Che guerra? Dei carnefici, ecco tutto […].»

1. La sintesi

Esistono due Tolstoj: un Tolstoj precedente e un Tolstoj successivo alla sconvolgente crisi interiore della fine degli anni Settanta descritta nella Confessione [1]. Il primo Tolstoj è l’epico e aristocratico autore delle sue opere più celebri, universalmente ammirate e celebrate, Guerra e pace e Anna Karenina, il massimo rappresentante di quella che Dostoevskij, nella lettera a Strachov del 18 (30) maggio 1871, definisce «letteratura di proprietari terrieri», una letteratura che «ha già detto tutto ciò che aveva da dire», e «in modo magnifico [proprio] con Lev Tolstoj» [2]. Il secondo Tolstoj è invece l’etico e popolare autore delle sue opere moralmente, filosoficamente, spiritualmente più profonde e impegnate, come La morte di Ivan Il’ič – su tutte – e Resurrezione [3], l’«apostolo del popolo», come lo definisce Michelstaedter nell’articolo del 1908, scritto in occasione degli ottant’anni dello scrittore, che prende «pel petto» la «società soffocata dalle menzogne» e le grida dritto in faccia: «verità! verità!» [4].

C’è un’opera, probabilmente l’unica, che si configura come sintesi dei due Tolstoj, il Tolstoj precedente e il Tolstoj successivo alla crisi, il Tolstoj epico e il Tolstoj etico, il Tolstoj aristocratico e il Tolstoj popolare: Chadži-Murat, breve romanzo storico iniziato nel 1896, durante una pausa della decennale stesura di Resurrezione. Chadži-Murat rappresenta una sorta di «parentesi di memoria» (uno dei concetti-chiave dell’opera): «memoria del narrare epico (portato qui a un’assolutamente perfetta concisione di forme [5]), memoria storica (la notte di liberazione delle popolazioni caucasiche), memoria, infine, autobiografica (la vita “alternativa” scoperta dal giovane Tolstoj al Caucaso)» [6].

Chadži-Murat rappresenta dunque un’eccezione nel corpus delle opere del secondo Tolstoj, una piccola divagazione dalla grandiosa missione di apostolato popolare che caratterizza gli ultimi trent’anni della sua vita. Forse anche per questo motivo, oltreché per il timore della censura, Tolstoj, che confessa di aver scritto Chadži-Murat «di nascosto da se stesso, controvoglia e vergognandosi» [7], decide di non pubblicare l’opera in vita. Ma il popolo compare anche in Chadži-Murat, e in modo molto più evidente e decisivo di quanto Tolstoj stesso, forse, immaginasse, se un critico come Viktor Šklovskij scrive che «Chadži-Murat è il racconto sui contadini che Tolstoj per tutta la vita desiderò scrivere» [8]. Può non essere giusto (come contrario di ingiusto, non di sbagliato) il giudizio che uno scrittore dà della propria opera. Soprattutto nel caso di uno scrittore intransigente e radicale come il secondo Tolstoj, per il quale un libro o scuote il lettore, gli recide le palpebre, o è carta straccia. Ma Chadži-Murat fa anche questo.

2. La lappola

Torna a casa per i campi, il narratore di Chadži-Murat. È estate. L’erba è stata raccolta e ci si prepara a mietere la segale. La strada per casa passa attraverso un campo di terra nera, arata di fresco. L’aratura è buona, in tutto il campo non si vede una pianta, non un solo filo d’erba. È tutto nero, e tutto questo nero, così desolante, ispira al narratore una riflessione amara, come se davanti agli occhi avesse un’immensa distesa di cemento:

“Che essere rovinoso e crudele l’uomo; quanti diversi organismi viventi, quante piante ha distrutto per il mantenimento della propria vita”, pensai cercando qualcosa di vivo in mezzo a questo nero, morto campo [9].

Ed effettivamente, in tutto quel nero, qualcosa di vivo, sopravvissuto alla devastazione dell’uomo, il narratore lo trova: un cespuglio di lappole, di quel tipo che dalle sue parti chiamano «tartari». Il cespuglio è composto da tre getti: uno è strappato, e quel che resta del gambo sembra un braccio amputato, gli altri due, invece, sono in fiore. Anche i fiori, un tempo rossi, sono neri come tutto il resto. Un gambo è rotto, spezzato, pende a testa in giù, mentre l’altro è ancora dritto. Evidentemente la ruota d’un carro deve averlo schiacciato, ma si è rialzato, anche se un po’ di traverso. Sta dritto il «tartaro», sebbene lo abbiano massacrato, resiste, tenace, coraggioso e fiero, non si arrende all’uomo che ha distrutto i suoi fratelli. Il narratore lo osserva con ammirazione:

“Che energia!” pensai. “L’uomo l’ha avuta vinta su tutto, ha distrutto milioni di piante, e questo ancora non si arrende” (5).

E questa tenace, coraggiosa e fiera lappola ricorda al narratore «un’antica storia caucasica», la storia di Chadži-Murat, che all’inizio Tolstoj aveva deciso di intitolare proprio La lappola [10].

La lappola di Tolstoj ricorda, almeno a me, la ginestra di Leopardi. Ma se in Leopardi il fiore-uomo resiste alla natura, in Tolstoj il fiore-uomo resiste alla storia ovvero: a se stesso.

3. Petrucha Avdeev

Petrucha Avdeev è uno dei tanti contadini russi strappati alla propria terra, alla propria casa, alla propria famiglia e inviati nel Caucaso per combattere i montanari locali e sottometterli all’impero russo. Una guerra lunga quasi mezzo secolo, dal 1817 al 1864, più o meno, e combattuta da tre zar, Alessandro I, Nicola I e Alessandro II. Una guerra sanguinosa e assurda, come tutte le guerre.

«A me, delle volte», confessa Petrucha ai compagni, con la sua voce «vigorosa» e «contenta», nel corso di una missione segreta, «mi prende una malinconia, ma una malinconia, che sembra che non so cosa fare di me stesso» (18). E qual è il rimedio alla malinconia? L’alcol, naturalmente: bere, bere fino a stordirsi, fino a dimenticarsi è l’unico modo per scacciare la malinconia. Ciò che manca a Petrucha, che della sua condizione servile porta addosso i segni, due bianche cicatrici che s’incrociano sulla schiena e sul sedere, è casa sua, dove si vive «come si deve». Ha preso il posto del fratello Petrucha, Akim, padre di cinque figli, lui che di figli non ne ha ancora, e lo ha fatto volentieri:

La mamma ha cominciato a pregarmi. Ho pensato: va bene. Forse se lo ricorderanno, il bene che faccio (ibidem).

Ditemi voi come si possa odiare, come si possa voler uccidere un uomo come Petrucha. Ma è uno dei terribili effetti della guerra. Nella sua breve storia è tutta l’assurdità della guerra.

«Brava gente»: è così che Petrucha definisce quelli che dovrebbero essere i suoi acerrimi nemici, i ceceni. E soltanto perché hanno assecondato il suo bisogno di parlare, di comunicare, di sfogarsi, per quanto possibile. Ecco, se nell’opera di Tolstoj c’è qualcosa di buono, di positivo, nonostante tutto, è l’umana simpatia, che non conosce schieramenti, patrie, etnie, religioni e altre assurde sciocchezze di questo genere, ma si trasmette naturalmente, istintivamente da uomo a uomo.

È sfortunato il buon Petrucha. «Delle volte sparano che sembra che grandini e non ti succede niente, e adesso han sparato in tutto cinque colpi» (50). Uno di questi cinque colpi ha colpito proprio Petrucha, che in punto di morte può finalmente liberarsi di quel peso che gli avvelenava l’esistenza da quando lo hanno spedito nel Caucaso:

Ho invidiato mio fratello. Ecco, te l’ho detto. E adesso, così, son contento anch’io. Lasciamolo vivere. Che Dio gli dia la salute, e io sono contento (51).

E Petrucha Avdeev muore, così, stringendo una «candelina» tra le dita, senza alcuna ragione, ennesima vittima dell’assurdo e criminale capriccio d’un tiranno, al quale mai nessuno chiederà conto. Il rublo inviato a Petrucha dalla famiglia, torna indietro, portando con sé la notizia della sua morte.

Per gli Avdeev sarebbe stato meglio se fosse rimasto Petrucha, invece di Akim, il fratello, padre di cinque figli, di cui Petrucha, pregato dalla madre, ha preso il posto in guerra. Perché Akim sarà pure padre di cinque figli, e su questo non ci piove, ma è uno sfaccendato, un «ubriacone», mentre Petrucha lavorava per due, e lavorava sempre, «svelto», «forte» e «resistente». Se passava vicino a dei lavoratori, magari in un momento libero, dava subito una mano, proprio come il padre. E il vecchio Avdeev se n’era accorto subito «di aver scambiato uno sparviero con un cuculo». Rimpiange Petrucha, il vecchio Avdeev, ma non serve a niente:

Il militare era come la morte. Il soldato era una fetta tagliata, e ricordarsi di lui, straziarsi l’animo, non aveva senso (55).

La notizia della morte di Petrucha addolora la madre, che urla, ma soltanto finché ne ha tempo, poi si rimette a lavorare, e rallegra la moglie, Aksin’ja, rimasta incinta del fattore, che ora «avrebbe potuto prenderla in moglie, come le aveva detto quando l’aveva persuasa all’amore» (57).

NOTE

[1] Per un approfondimento sul testo rimando al contributo Lev Tolstoj, «La confessione»: o Dio o la morte.

[2] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, p. 129.

[3] Per un approfondimento sulle due opere rimando ai contributi Lev Tolstoj, «La morte di Ivan Il’ič»: la scoperta della fine e della menzogna, «Resurrezione», l’ultimo e più grande romanzo di Lev Tolstoj. Introduzione, Prima parte, Seconda parte, Terza parte.

[4] Carlo Michelstaedter, Tolstoi, in Id., La melodia del giovane divino. Pensieri – Racconti – Critiche, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 2010, p. 212.

[5] L’essenzialità, la sobrietà narrativa e formale è una delle caratteristiche principali del secondo Tolstoj. Alla sua «evoluzione» morale, filosofica e spirituale, risultato, spiega Michelstaedter, di «una lenta e faticosa evoluzione dell’uomo assiepato dai principi di classe, circondato da seduzioni e attrattive mondane d’ogni genere – all'”uomo”, all’uomo libero nel suo unico amore verso tutta l’umanità, libero nella ferma volontà di non aver bisogno delle fatiche degli altri» (Ivi, p. 209), corrisponde un’«evoluzione» artistica, che sancisce il passaggio dall’arte «esuberante» delle prime opere, all’arte «sobria» delle ultime, secondo «quel caratteristico processo di purificazione che avviene negli uomini di pensiero», perché «quanto più il pensiero s’approfondisce, tanto meno l’arte divaga in rappresentazioni inutili ma incide forme classiche [ovvero universalmente valide] in rapporto a un’intuizione più vasta e più perfetta» (Ivi, p. 211).

[6] Serena Vitale, Introduzione a Lev Tolstoj, Chadži-Murat, Garzanti, Milano 2020, p. XLIII.

[7] ibidem.

[8] Citato in Paolo Nori, Contemporaneamente, in Lev Tolstoj, Chadži-Murat, cit., p. 181.

[9] Lev Tolstoj, Chadži-Murat, traduzione di Paolo Nori, cit., p. 4. D’ora in avanti il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[10] Paolo Nori, Contemporaneamente, cit., p. 180.

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