Edgar Degas, L'absinthe, particolare

James Joyce, «Gente di Dublino»: l’umanità paralizzata. E morta – Seconda parte

4. Epifania

Epifania: è questo il termine-chiave, a livello formale, diciamo così, dei Dubliners. Nei quindici racconti che compongono l’opera, divisibili, com’è noto, in quattro fasi della vita umana, infanzia, adolescenza, maturità e vita pubblica, Joyce rappresenta altrettante epifanie. Semplificando, forse troppo, potremmo definire epifania quel momento di crisi esistenziale che, scaturito magari da un fatto banalissimo – la rottura del calice nelle Sorelle, il primo racconto di Gente di Dublino -, manda improvvisamente all’aria la vita del personaggio, sgretolandone illusioni, menzogne e rivelandone la radice drammatica. Rappresenta tanti collassi psicologici e tanti crolli esistenziali in Gente di Dublino Joyce, mostra con spietatezza la fragilità delle nostre vite, erette su fondamenta tutt’altro che solide, anche quando hanno i nomi altisonanti di Stato e Chiesa. Basta davvero poco, un incidente apparentemente insignificante, come la rottura di un calice, oppure l’ascolto di una melodia lontana, per sgretolare le nostre impalcature interiori e precipitare nel deserto dell’assurdo.

5. La paralisi e la morte

La paralisi e la morte: sono questi i due grandi temi di Gente di Dublino. La paralisi, di cui la capitale irlandese è il «centro», come scrive Joyce stesso [1], è la malattia mortale dei Dubliners e si riflette in ogni aspetto delle loro vite: morale, sociale, culturale, psicologico. Tutti i tentativi di evasione sono destinati allo scacco, al fallimento, e ne cito uno in particolare, il tentativo di Eveline nell’omonimo racconto, che, convinta ad abbandonare la propria misera vita, la casa, il padre violento, il lavoro frustrante dal marinaio Frank, proprio a un passo dalla fuga, resta paralizzata sulla banchina di North Wall, «con la faccia pallida, inerte, come quella di un animale sperduto», e gli occhi smorti, vuoti, «senza nessun segno d’amore, né d’addio, né di coscienza» [2].

Due immensi, invincibili macigni (se non li avesse ritenuti invincibili forse Joyce non avrebbe scelto l’esilio permanente) schiacciano gli irlandesi e ne paralizzano le coscienze: la Chiesa, «sobillatrice di un nazionalismo sterile e bigotto», e lo Stato, «pura e semplice emanazione dell’oppressione britannica» [3]. Tra le due autorità (il ribelle Joyce non riconosce autorità in campo artistico, figuriamoci in campo religioso e politico), quella che più influisce negativamente sugli irlandesi è senz’altro la prima, la Chiesa, che li rende incapaci di «concepire la moralità come risposta individuale a problemi di carattere etico» [4]. Al contrario di quanto possa sembrare a una prima, superficiale lettura, è un’arte profondamente morale l’arte di Joyce, nel senso più puro, autentico e positivo del termine, libero dalle oppressive e pregiudiziali catene ecclesiastiche e sociali (allo stesso modo sono profondamente morali le opere di Leopardi e Nietzsche, di cui in Gente di Dublino, e precisamente nel racconto Un increscioso incidente, vengono citati due testi, presenti nella libreria di Mr Duffy [5], La gaia scienza e Così parlò Zarathustra, che, come scrive Camus nell’Uomo in rivolta, «abbatte bensì, ma per tentare di creare», ed «esalta la probità, fustigando i gaudenti “dal grugno di porco”» [6]).

Tornando alla paralisi, al di là dei pur necessari riferimenti storici, essa si configura come un vero e proprio «emblema della condizione umana» [7]. È la paralisi dell’uomo, in particolare dell’uomo moderno, privato, tra le altre cose, del confortante cogito cartesiano, che Joyce rappresenta in Gente di Dublino, e non solo dell’uomo irlandese. Ripeto quanto già scritto nella prima parte del presente contributo, nei Dubliners ci siamo tutti, qualunque sia la nostra provenienza geografica, la nostra identità, e Dublino come «centro della paralisi» è in ognuno di noi. Siamo fatti di tanti luoghi e la Dublino di Joyce, come la Dite di Dante o la Pietroburgo di Dostoevskij, è uno di questi.

La paralisi e la morte costituiscono le due estremità di Gente di Dublino. L’opera si apre all’insegna della paralisi (e della morte, certo, anche perché la paralisi, come ho già scritto, è una malattia mortale, ma soprattutto della paralisi), con il racconto Le sorelle, e si conclude all’insegna della morte, con il grandioso racconto I morti, che rappresenta non solo la vetta dei Dubliners e dunque della produzione narrativa breve di Joyce, ma probabilmente dell’intera storia del genere [8]. Nelle Sorelle la paralisi si fisicizza, diciamo così, colpisce e abbatte padre Flynn dopo la rottura del suo equilibrio spirituale e psichico causata dalla rottura del calice, e il giovane protagonista-narratore è costretto a fare i conti con essa, a superare il suo istintivo terrore e starle accanto osservandone l’opera di distruzione:

Ogni sera, alzando lo sguardo verso la finestra, ripetevo fra me la parola “paralisi”. Mi aveva sempre fatto uno strano effetto, come la parola “gnomone” in Euclide e la parola “simonia” nel catechismo. Ora però mi sembrava il nome di un essere malefico e peccaminoso. Mi riempiva di paura, ma al tempo stesso sentivo il desiderio di stargli vicino per conservarne l’opera mortale [9].

Sembra quasi di leggere una dichiarazione d’intenti di Joyce. È come se lo scrittore irlandese rivelasse la genesi e il senso dell’opera.

Dalle Sorelle la paralisi si diffonde a tutti gli altri racconti di Gente di Dublino, contaminandoli, contagiandoli come un virus inarrestabile, fino alla conclusiva, suprema celebrazione del tema della morte, là dove conduce sempre la paralisi, che è l’ultimo racconto, in cui Gabriel Conroy scopre finalmente la miseria della propria esistenza e il destino mortale dell’uomo, la «sanguinante matematica che regola la nostra condizione» come scrive Camus nel Mito di Sisifo [10], e al termine della notte più incredibile, traumatica e al tempo stesso luminosa (Gabriel ora vede e sa, mentre prima s’illudeva soltanto di vedere e di sapere) della sua vita, si addormenta cullato dall’immagine grandiosa e spettrale dell’intero universo morto e sepolto sotto la neve:

Sì, i giornali avevano ragione: nevicava su tutta l’Irlanda. Cadeva la neve in ogni parte della scura pianura centrale, cadeva soffice sulla torbiera di Allen e soffice cadeva più a ovest, sulle scure e tumultuose acque dello Shannon. E cadeva anche su ogni punto del solitario cimitero sulla collina in cui giaceva il corpo di Michael Furey. S’ammucchiava fitta sulle croci piegate e sulle lapidi, sulle lance del cancelletto e sui roveti spogli. E pian piano l’anima gli svanì lenta mentre udiva la neve cadere stancamente su tutto l’universo e stancamente cadere, come la discesa della loro fine ultima, su tutti i vivi e tutti i morti [11].

6. La degradazione

In Gente di Dublino Joyce rappresenta un irreversibile «processo di degradazione della vita spirituale» [12] che non sembra risparmiare nessun personaggio (l’eccezione è rappresentata da Mr Duffy, tuttavia troppo astratto e premeditato per imporsi come un personaggio positivo, e poi in fondo è lui il responsabile morale del suicidio della meravigliosa Mrs Sinico). Tale degradazione «si ravvisa soprattutto nella meschinità che pare governare i rapporti umani, e in particolare quelli protetti dall’istituzione matrimoniale, che paiono essere privi di qualsiasi valore, se non quello di servire a puntellare una società che altrimenti cadrebbe a pezzi» [13]. Non c’è un solo matrimonio felice in Gente di Dublino, perché non c’è un solo matrimonio d’amore in Gente di Dublino. Nei Dubliners ci si sposa solo perché così va fatto, perché così prescrive l’ipocrita e meschina morale ecclesiastica e sociale. Gli effetti sono devastanti, tanto sugli adulti quanto, soprattutto, sui loro figli, come se la condizione necessaria di dolore e infelicità dell’uomo non bastasse. È insoddisfacente e fallimentare il matrimonio di Chandler in Una piccola nube [14], che ha tarpato le ali ai ridicoli sogni letterari del piccolo impiegato, è insoddisfacente e fallimentare il matrimonio di Mrs Sinico in Un increscioso incidente, con il marito che la esclude «con tanta naturalezza […] dalla sfera dei piaceri, da non sospettare nemmeno che qualcun altro potesse provare interesse per lei» [15]. C’è chi si sposa per riparare a una leggerezza giovanile causata dall’impeto dei sensi, come in Pensione di famiglia, e chi per ripicca, come Mrs Kearney in Una madre, che rispetta il marito «allo stesso modo in cui rispettava l’edificio centrale delle poste», l’edificio, attenzione, l’edificio, non l’organizzazione delle poste, «ossia come qualcosa di imponente, sicuro e stabile», senza riconoscergli molte qualità, ma attribuendogli un «astratto valore in quanto maschio» [16]. Straordinario.

In Gente di Dublino l’amore compare soltanto alla fine, nei Morti (neppure Eveline, che pure decide di fuggire a Buenos Aires con lui, ama Frank, perché più che amare è vivere che la povera Eveline vuole). Finalmente libero dalle convenzioni, dalle etichette, dai pregiudizi, dalle menzogne e dalle illusioni che regolavano la sua vita inautentica, fasulla, contraffatta, Gabriel osserva Gretta dormire, «come se non fossero mai stati marito e moglie», e scopre l’amore, il vero amore:

Calde lacrime gli salirono agli occhi. Non aveva mai provato nulla di simile per nessuna donna, ma sapeva che quel sentimento doveva essere l’amore [17].

Gabriel ora sa, e arriva per lui il momento di muoversi, di andare a «ovest», dove affondano le radici dell’esistenza e del dramma di Gretta, e di iniziare una nuova vita, rinnovata dalla consapevolezza del proprio destino mortale, della propria vanità, della propria caducità, e dall’amore. Quello che dovremmo fare tutti, prima che sia troppo tardi.

Svevo scrive che i personaggi di Joyce ci fanno male [18]. In effetti è doloroso guardarsi a uno specchio che riflette tutte le nostre miserie, tutte le nostre delusioni, tutte le nostre frustrazioni. Gente di Dublino è un’epifania.

NOTE

[1] Daniele Benati, Una storia curiosa, in James Joyce, Gente di Dublino, Feltrinelli, Milano 2021, p. XL.

[2] James Joyce, Gente di Dublino, traduzione di Daniele Benati, cit., p. 34. Per un approfondimento sul racconto rimando al contributo James Joyce, «Gente di Dublino»: la paralisi di Eveline.

[3] Daniele Benati, Una storia curiosa, cit., p. XXXVII.

[4] Ivi, p. XLVII.

[5] Per un approfondimento sul racconto rimando al contributo James Joyce, «Gente di Dublino»: la solitudine di Mr Duffy.

[6] Albert Camus, L’uomo in rivolta, traduzione di Liliana Magrini, Bompiani, Milano 2020, p. 11.

[7] Daniele Benati, Una storia curiosa, cit., p. XL.

[8] Per un approfondimento sul racconto rimando al contributo James Joyce, «Gente di Dublino»: il crollo esistenziale di Gabriel Conroy.

[9] James Joyce, Gente di Dublino, cit., p. 3.

[10] Albert Camus, Il mito di Sisifo, traduzione di Attilio Borelli, Bompiani, Milano 2020, p. 17.

[11] James Joyce, Gente di Dublino, cit., p. 209.

[12] Daniele Benati, Una storia curiosa, cit., p. XLVI.

[13] Ibidem.

[14] Per un approfondimento sul racconto rimando al contributo James Joyce, «Gente di Dublino»: la piccola rivolta del piccolo Chandler.

[15] James Joyce, Gente di Dublino, cit., p. 101.

[16] Ivi, p. 131.

[17] Ivi, p. 209.

[18] Italo Svevo, Conferenza su Joyce, in James Joyce, Gente di Dublino, cit., p. XIV.

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