5.1. Un’eruzione vulcanica, un’esplosione dinamitica
«L’uomo non nasce per la felicità. L’uomo si guadagna la sua felicità, e sempre con la sofferenza» [1], scrive Dostoevskij in un appunto su Delitto e castigo. Il dolore è la condizione dell’uomo, il dolore segna il suo cammino, il dolore è il suo cammino.
Anche, per certi aspetti soprattutto, nell’amore, rappresentato da Dostoevskij come «un’eruzione vulcanica, un’esplosione dinamitica della natura passionale dell’uomo», che infrange «leggi e forme», si manifesta «la profondità della natura umana» [2]. Ma l’amore non è autonomo, non è indipendente, non ha una propria immagine. Come ogni altro aspetto dell’essere, è indissolubilmente legato al cammino doloroso e tragico dell’uomo, è una «rivelazione» di questo cammino, un’«esperienza della libertà umana», e come tale necessariamente drammatica (86). Dostoevskij non rappresenta mai l’amore ideale, romantico, sublime, l’incanto dell’amore insomma, perché anche l’amore, come la vita, come l’esistenza e tutto ciò che essa contiene, è una tragedia. Ma l’amore salva: è l’amore di Sonja a salvare Raskol’nikov. Mai accade il contrario, mai l’amore dell’uomo salva la donna: l’amore di Myškin non salva Nastas’ja Filippovna. Non c’è amore che possa salvare Nastas’ja Filippovna. Nastas’ja Filippovna vuole morire. Il principe Myškin non può nulla contro l’intimo desiderio di autodistruzione della donna. E la condanna dell’una porta necessariamente alla condanna dell’altro. Soltanto insieme avrebbero potuto salvarsi [3]. È forse questo l’esito più estremo dell’amore: reciproca salvezza, reciproca condanna se uno dei due si sottrae all’amore. Qualcosa di simile riguarda anche il giocatore e Polina, Mitja e Grušenka, Ivan e Katja.
5.2. Estremi
Non c’è misura nell’amore in Dostoevskij. L’amore oscilla sempre tra due estremi, due abissi: l’estremo-abisso della sensualità (Rogožin) e l’estremo abisso della compassione (Myškin). «Esasperata» sensualità o «esasperata» compassione: è sempre questa l’origine dell’amore.
5.3. Assorbimento, non unione
Secondo Berdjaev in Dostoevskij la natura maschile finisce sempre per fagocitare la natura femminile. Non c’è mai l’aspirazione all’unione con l’altro, ma all’assorbimento dell’altro. Anche per questo motivo le opere di Dostoevskij sfociano sempre in tragedia: l’elemento femminile, altruista e conciliante, comprensivo e predisposto al sacrificio, non riesce mai a prendere il sopravvento su quello maschile, incline alla violenza e al sangue. L’uomo vuole la donna restando se stesso, vuole fagocitare la donna, assorbirla, non diventare qualcos’altro in unione con lei, aprirsi all’elemento femminile e accoglierlo in sé. Per questo motivo l’amore è destinato sempre alla rovina, e può rinascere, come nel caso di Raskol’nikov e Mitja, dopo la rovina.
Nella donna amata l’uomo di Dostoevskij non vede una creatura libera e indipendente, ma un altro io di cui appropriarsi. Negli uomini di Dostoevskij non c’è comprensione dell’universo femminile e molto spesso la donna non è che un mero oggetto del desiderio. Non c’è una comunione, una corrispondenza intima, profonda, spirituale tra uomo e donna. Non c’è romanticismo. Mai. Non c’è ideale nell’amore, ma carne e sangue, istinto e passione. Non c’è tenerezza, comprensione, armonia, piacere, ma scontro, d’anime e corpi, conflitto, dolore, ferite. L’amore è spinto fino ai limiti estremi – produce dunque estreme conseguenze -, in un processo di esasperazione del sentimento, del desiderio, della passione che ne rivela la radice dionisiaca, distruttiva, familiare allo stesso Dostoevskij, tormentato, roso, ossessionato da una gelosia profonda, a tratti persino assurda, per la sua Anna. Persino una mente euclidea, perfettamente razionale come Ivan Karamazov è soggetta alla forza dionisiaca dell’amore. All’amore, quando si manifesta, non c’è scampo.
Eppure Dostoevskij fornisce nella sua opera esempi di amore puro, disinteressato, luminoso, costruttivo, che agisce positivamente. È il caso di Sonja Marmeladova in Delitto e castigo, senza il cui amore la resurrezione di Raskol’nikov sarebbe stata impossibile [4], e della sua omonima dell’Adolescente, sempre ostinatamente e silenziosamente fedele al suo amore per Versilov nonostante le offese e le umiliazioni [5]. È il caso di Šatov, che accoglie con un entusiasmo travolgente ed estatico, capace di perdonare tutto, la moglie e il suo bambino, sebbene sia figlio di Stavrogin [6], e del principe Myškin, la cui unica colpa, forse, è cedere al fascino irriverente di Aglaja, errore che rivela tutta la sua fragile e meravigliosa umanità. Un altro amore è possibile: basta saper riconoscere all’essere amato la propria libertà e la propria dignità.
5.4. Il vero amore
Tutto nell’uomo, in quanto essere dotato di una coscienza e di uno spirito – anche se troppo spesso ce ne dimentichiamo, e anzitutto in rapporto a noi stessi, perché è sempre da questo che scaturisce il nostro modo di agire con gli altri -, è un problema metafisico. È questa la sua grandezza e la sua croce. L’uomo non è una bestia, alla sua ferocia non c’è giustificazione. Un animale è portato naturalmente, istintivamente alla violenza, neppure definibile come tale, l’uomo no. Nell’uomo la violenza è sempre una scelta, e non c’è nulla che possa giustificarla. Se il diavolo esistesse davvero, sarebbe soltanto una proiezione dell’uomo, della sua mente malata, febbricitante, come mostra emblematicamente il caso di Ivan Karamazov [7]. Tutta l’opera di Dostoevskij è una rivendicazione, a tratti spietata, dell’umanità dell’uomo.
Tutto nell’uomo è un problema metafisico, anche la depravazione. L’uomo distorce la propria libertà in arbitrio e dal naturale desiderio di unione carnale con l’essere amato sfocia nella depravazione, che non conosce regole, non conosce limiti: Svidrigajlov e Stavrogin violano delle bambine, causandone il suicidio. L’arbitrio porta l’uomo a una totale, illimitata egemonia del proprio io che è quanto di più lontano dall’ideale di Cristo. L’io è il principale «ostacolo» all’amore sano, puro, meraviglioso rivelato da Cristo, come scrive Dostoevskij nei Pensieri sulla morte e sull’immortalità, scritti il 16 aprile 1864 durante la veglia della salma della prima moglie:
Amare l’uomo come se stessi, secondo il comandamento di Cristo, non è possibile. Sulla terra la legge della personalità è d’impaccio. L’io è di ostacolo. Cristo soltanto poteva farlo, ma Cristo era l’ideale eterno sin dall’inizio dei tempi, quell’ideale a cui l’uomo tende, e deve tendere, per legge di natura. Tuttavia, dopo la comparsa di Cristo come ideale dell’uomo incarnato, è diventato chiaro come il giorno che l’evoluzione ultima e suprema della personalità individuale (e questo proprio al culmine dell’evoluzione, anzi nel momento stesso in cui il fine dell’evoluzione sarà raggiunto) in cui l’uomo riconosca, si renda conto e si convinca con tutta la forza della sua natura che l’impiego più alto che egli possa fare della sua individualità, nel momento in cui il suo io abbia raggiunto la pienezza dello sviluppo, consiste nel distruggere questo stesso io, nel donarlo interamente a tutti e a ciascuno indivisibilmente e senza riserve. E in ciò consiste la felicità più sublime… E appunto questo è il paradiso di Cristo [8].
L’uomo concentrato esclusivamente nel proprio io non ama l’altro, ma se stesso, e il suo amore degenera in ossessione e depravazione, talvolta persino in omicidio, come nel caso di Rogožin. Il vero amore è un’altra cosa, «è sempre amore per un altro», mentre «la dissolutezza è amore per sé, autoaffermazione», e «l’autoaffermazione porta all’autodistruzione» (94): Kirillov e Stavrogin si uccidono, Ivan Karamazov impazzisce.
L’amore, il vero amore permette all’uomo di emanciparsi dal proprio io, di aprirsi all’altro, di unirsi con l’altro, rafforzando autenticamente la propria individualità, la propria umanità. Al contrario la depravazione è una solitudine «profonda», è il «freddo mortale della solitudine», «è seduzione del non essere; declivio verso il nulla» (95).
5.5. I sensuali
La sensualità è un fuoco, un incendio che divampa irrefrenabile, ma quando degenera nella depravazione perde l’ardore, la passione e si rovescia nel suo opposto: un gelo infernale, disumano. Svidrigajlov ne è un esempio lampante. In Svidrigajlov, come in Fëdor Pavlovič Karamazov, sebbene con meno intensità, Dostoevskij rappresenta «la degenerazione ontologica della personalità umana, la personalità rovinata dalla sensualità sfrenata, che trapassa in una sfrenata dissolutezza» (ibidem). Sebbene dotato ancora di un corpo e di una mente, Svidrigajlov non è già più, ha varcato la soglia del non-essere, appartiene al regno dei morti e per questo i morti li vede. È uno di quegli spiriti che non sono più, ma in cui resiste ancora un anelito di vita, protagonisti del racconto Bobòk [9].
Anche in Stavrogin la sensualità «perde il suo calore», al quale subentra un «gelo mortale» [10]. Le sue «aspirazioni smisurate», ignare di ogni limite e commisurate alla sua natura eccezionale, autenticamente demoniaca, lo hanno svuotato ed esaurito precocemente, fino a condurlo al nulla-in-vita, alla morte-in-vita. Quando la madre lo osserva dormire, così innaturalmente immobile, ha la sensazione terribile di trovarsi davanti a un cadavere, e segnarsi non serve a niente [11]. Non c’è intervento esterno, superiore, trascendentale che possa salvare l’uomo. Perché l’uomo si salvi, è necessario che egli voglia salvarsi. Stavrogin non può volere la salvezza, perché non può volere più nulla. In realtà non ha mai voluto nulla, non ha mai creduto in nulla, né nel bene né nel male, né in Dio né nel suo rifiuto:
Stavrogin se crede, non crede di credere. E se non crede, non crede di non credere [12].
In queste celebri parole di Kirillov è racchiusa l’insostenibile assurdità di Stavrogin. Come scrive egli stesso a Daša prima di uccidersi, «si può guadare un fiume su una trave, non su una scheggia» [13]. La tepidezza, la contemporanea attrazione, ma senza entusiasmo, senza trasporto, per il bene e il male, per l’ideale di Sodoma e per quello della Madonna, impedisce a Stavrogin di impegnare e sfogare la propria «illimitata» forza, che infine distrugge se stessa. Stavrogin non soltanto ha forzato la propria naturale libertà in arbitrio, ma ha spinto l’arbitrio fino ai limiti estremi, perdendo completamente «l’attitudine della scelta». E senza scelta la vita non è vita, ma uno stato ibrido, sospeso, disumano che non può durare a lungo. La vita senza scelta è già la morte. La forza «illimitata» di Stavrogin sfocia nel suo opposto: l’impotenza.
5.6. Dentro-fuori
Deve svilupparsi al di fuori del proprio io, deve forzare il proprio io e riversarsi nell’altro, riconosciuto come essere libero e indipendente, l’amore, per essere vero amore. Se resta intrappolato nell’io, se fa dell’essere amato una parte del proprio io, da ricondurre là con la forza, talvolta persino con la violenza, allora l’amore degenera in ossessione, corruzione, depravazione e porta l’individuo alla perdita completa della propria personalità.
5.7. Versilov ovvero l’ateismo positivo
Oltreché in Cristo, vera e propria stella polare del suo pensiero, Dostoevskij crede in Dio e nell’immortalità dell’anima, certo, sebbene in tono minore, diciamo così, quasi come una conseguenza obbligata e coerente della sua fede nell’«ideale dell’uomo incarnato», ma il rifiuto di Dio e dell’immortalità lo porta a elaborare una delle sue idee più belle e grandiose, una sorta di ateismo positivo, costruttivo, benefica antitesi dall’ateismo sanguinoso e distruttivo di Ivan Karamazov, espresso nel Sogno di un uomo ridicolo, uno dei testi più preziosi di Dostoevskij, e proprio perché positivo, luminoso, umano nel senso più elevato e nobile del termine nonostante la totale mancanza di riferimenti religiosi [14], e nell’Adolescente, attraverso Versilov.
Per Versilov il rifiuto di Dio e dell’immortalità porta l’uomo a riappropriarsi di se stesso, della propria natura, della propria condizione mortale, dunque vana, triste e drammatica e a trovare in questa consapevolezza disperata e terribile pace, solidarietà, amore. Come può un uomo pienamente consapevole della propria caducità, della propria miseria, della propria tragedia fare del male?
E gli uomini a un tratto compresero di essere rimasti completamente soli e improvvisamente si sentirono desolatamente orfani. Caro mio ragazzo, non ho mai saputo immaginarmi gli uomini ingrati e istupiditi. Gli uomini, diventati orfani, avrebbero subito cominciato a stringersi fra loro più strettamente e più amorosamente; si sarebbero afferrati per le mani, comprendendo che ormai loro soli costituivano tutto l’uno per l’altro! Sarebbe scomparsa la grande idea dell’immortalità e si sarebbe dovuta sostituirla, e tutto il grande eccesso dell’amore di un tempo verso Colui che era stato appunto l’Immortalità, in tutti si sarebbe rivolto alla natura, al mondo, agli uomini, ad ogni filo d’erba. Essi avrebbero cominciato ad amare la terra e la vita irresistibilmente e nella misura stessa in cui gradualmente prendevano coscienza della propria precarietà e finitezza, amando ormai di un amore particolare, non più quello di prima. Avrebbero cominciato ad osservare e nella natura avrebbero scoperto fenomeni e misteri, che prima non avevano nemmeno supposto, poiché avrebbero guardato la natura con occhi nuovi, con lo sguardo di un amante all’amata. Essi si sarebbero svegliati e si sarebbero affrettati a baciarsi l’un l’altro, affrettandosi ad amare, avendo coscienza che i giorni sono brevi, che era tutto quello che rimaneva loro. Avrebbero lavorato l’uno per l’altro, e ciascuno avrebbe dato a tutti la propria sostanza e con questo solo sarebbe stato felice. Ogni bambino avrebbe saputo e sentito che ognuno sulla terra era per lui come il padre e la madre. “Sia pure domani il mio ultimo giorno – avrebbe pensato ognuno, guardando il sole al tramonto – non fa nulla, io morirò, ma resteranno tutti loro, e dopo di loro i loro figli”, e il pensiero che gli altri sarebbero rimasti, amandosi sempre allo stesso modo e trepidando l’uno per l’altro, avrebbe sostituito il pensiero di potersi incontrare nell’al di là. Oh, si sarebbero affrettati ad amare per spegnere la grande tristezza che era nei loro cuori. Sarebbero divenuti timidi l’uno per l’altro. Ognuno avrebbe trepidato per la vita e per la felicità dell’altro. Sarebbero divenuti teneri l’uno verso l’altro e non se ne sarebbero vergognati – come adesso – e si sarebbero accarezzati l’un l’altro come bambini. Incontrandosi, si sarebbero guardati l’un l’altro con uno sguardo profondo e meditato, e nei loro sguardi ci sarebbero stati amore e tristezza… [15]
Anche agli atei Dostoevskij rivela una luce senza ricorrere alla consolazione-illusione divina, trascendentale. Il rifiuto di Dio e dell’immortalità non conduce necessariamente alla spietata, violenta, assassina logica del Tutto è permesso, come sostiene Ivan Karamazov. Dall’ateismo può scaturire una grandiosa visione d’amore, solidarietà e tristezza universale. È terribile, assurda la condizione umana senza Dio e l’idea dell’immortalità, l’esistenza rivela la sua radice tragica e tutta la sua vanità e insensatezza, ma ciò non significa che all’uomo sia permessa ogni cosa e che il male sia l’unica possibilità. L’uomo che in questa spietata consapevolezza conserva la propria umanità, il rispetto dell’altrui dignità e libertà, approda all’abbacinante verità di Versilov e dell’uomo ridicolo. Anche nell’insensatezza, nell’assurdità, nel nulla un’altra verità è possibile, un altro mondo è possibile. Anche senza Dio c’è amore, comprensione, solidarietà, pace. E che un’idea simile sia stata concepita da un cristiano come Dostoevskij, dimostra inconfutabilmente la sua veridicità. Non c’è una sola ragione, una sola, che spieghi la scelta del male. Il male non ha ragioni, ma soltanto giustificazioni, e l’insensatezza è una di queste. L’insensatezza della vita conduce all’uomo, alla sua natura più profonda e autentica. Non è matematico, non è necessario, come invece sostiene Berdjaev, che dalla solitudine e dalla disperazione dell’uomo nascano demòni e tenèbre, schiavitù e distruzione. Un mondo giusto e pacifico senza Dio è possibile. Come in ogni altra cosa, sta all’uomo scegliere. E Dostoevskij riconsegna intera, originaria, pura all’uomo la propria libertà di scelta. Si può essere cristiani pur essendo atei.
NOTE
[1] Citato in Paolo Nori, Sanguina ancora, Mondadori, Milano 2021, p. 239.
[2] Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, traduzione di Bruno Del Re, Einaudi, Torino 2002, p. 85. D’ora in avanti il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[3] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Il sovversivo «Idiota» di Dostoevskij. Prima parte, Seconda parte.
[4] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Delitto e castigo»: la resurrezione di Raskol’nikov. Prima parte, Seconda parte, Terza parte, Epilogo.
[5] Per un approfondimento sul personaggio rimando al contributo Personaggi e temi dell’«Adolescente». Capitolo quarto – Sof’ja e Makar ovvero la Russia.
[6] Per un approfondimento sul personaggio rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «I demòni»: del male e della (auto)distruzione. Capitolo quinto.
[7] Per un approfondimento sul personaggio rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso. Capitolo quinto – Ivàn, il nichilista estremo – I-IV, V-VI, VII-IX.
[8] Citato in Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, pp. 153-154.
[9] Per un approfondimento sul racconto rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Bobòk» ovvero la «depravazione delle ultime speranze».
[10] Per un approfondimento sul personaggio rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «I demòni»: del male e della (auto)distruzione. Capitolo secondo.
[11] «Sembrò colpita dall’idea che Nicolas si fosse addormentato così in fretta, che potesse dormire in quel modo, standosene semplicemente seduto, senza il più piccolo movimento; perfino il respiro quasi non si avvertiva. Il suo viso era pallido e severo, ma stranamente raggelato, completamente inerte; le sopracciglia un po’ aggrottate e corrugate; assomigliava in tutto e per tutto a una morta figura di cera. Varvara Petrovna rimase in piedi davanti a lui per qualche minuto, respirando appena, e d’un tratto fu presa dalla paura; uscì in punta di piedi, si fermò sulla porta, gli fece in fretta il segno della croce e si allontanò senza farsi notare, con una nuova potente sensazione, con una nuova angoscia» (Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Giovanni Buttafava, BUR, Milano 2006, p. 276).
[12] Ivi, p. 671.
[13] Ivi, p. 732.
[14] Per un approfondimento sul racconto rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Il sogno di un uomo ridicolo»: dal suicidio alla Verità.
[15] Fëdor Dostoevskij, L’adolescente, introduzione di Eridano Bazzarelli, Rizzoli, Milano 2011, pp. 635-636.