14. La fine dell’apprendistato (e della libertà)
Deluso dagli attori, dagli impresari, dal pubblico, da se stesso, consapevole della propria caducità esistenziale, segnato nel profondo dalla morte di Aurelie, dalla triste storia di Therese, dal dramma di Mariane, di cui si sente almeno in parte responsabile, dalla scoperta della paternità, Wilhelm decide di lasciare il teatro e si riavvicina alla dimensione materiale dell’esistenza, tornando a interessarsi del proprio patrimonio, di cui vede ora tutta l’utilità, tutta la necessità. Il suo obiettivo è ora dedicarsi a una «attività limpida e sicura», come scrive egli stesso a Werner, con il quale riallaccia i rapporti. In queste condizioni si rimette in viaggio.
Tornato al castello di Lothario, Wilhelm è atteso da una rivelazione sconvolgente: egli è stato osservato e persino diretto in molte circostanze della sua vita dalla Società della Torre, in una sorta di spaventoso Truman Show. La sua fase di apprendistato, interamente dedicata all’emancipazione dalla fantasticheria, il filisteismo e l’errore è terminata. Come annuncia Jarno, è giunto per lui il momento di «mescolarsi in una massa più vasta», di imparare «a vivere per gli altri» e «dimenticare se stesso in un’attività conforme al proprio dovere». Soltanto in questo modo «imparerà a conoscersi, poiché è propriamente l’azione che ci mette a confronto con gli altri» [1] (come se studiare un testo drammatico, adattarlo alle esigenze del pubblico, educare ad esso gli attori, metterlo in scena non fosse un’azione). La personalità di Wilhelm, almeno nella sua forma più pura, autentica e libera viene così repressa, soffocata, imprigionata. La vicenda di Wilhelm non è una vicenda di formazione della personalità, ma di resistenza della personalità, che alla fine risulta del tutto vana e impotente. La personalità è sconfitta, e in fondo è naturale che sia così se si vuole preservare Wilhelm da un epilogo drammatico alla Werther, perché la personalità è infrazione e libertà, rottura, strappo e dolore, componenti che la società, qualunque società, borghese e aristocratica, egoista e filantropica, reprime. La personalità corrode la società dalle fondamenta, causandone il crollo.
Durante la sfilata dei membri della Società della Torre incontrati da Wilhelm nel corso del suo viaggio-apprendistato, compare anche lo spettro del re di Danimarca, del padre di Amleto e di suo padre. La missione del misterioso fantasma, ovvero distogliere Wilhelm dalla vocazione teatrale è compiuta, ed egli, al contrario del padre di Amleto, può svanire in pace, vendicato:
[…] posso accomiatarmi fiducioso perché vedo compiersi, meglio di quanto io stesso prevedevo, i miei voti per te. Solo per vie traverse si scalano ripidi pendii; in pianura sono le vie diritte che portano da un luogo all’altro [2].
La Società della Torre, sotto il cui controllo è finito suo malgrado Wilhelm, come già Jarno e Lothario, è la più perfetta e dunque autoritaria forma di governo, perché include ciò che considera errore nel suo sistema educativo, facendone una tappa del percorso di formazione, e spersonalizzazione, dell’individuo. Sebbene nasca da un’idea, da un’utopia positiva, illuministica, la Società della Torre opera come un regime repressivo che regolarizza, in un certo senso istituzionalizza l’infrazione per avere un controllo totale sull’individuo. È l’oscuro rovescio del Meister.
Altro che fondatore del teatro nazionale tedesco, Wilhelm, dopo la convalida della Società della Torre, che conferma la sua paternità e gli consegna ufficialmente Felix, è ormai un padre di famiglia che «prepara, procura e conserva ai suoi cari i giusti piaceri» (torna subito in mente la meschina professione di fede del meschino Werner, che intanto ha vissuto una bestiale metamorfosi, assottigliandosi, appuntendosi, svuotandosi, tradendo così anche nel corpo la sua natura di «zelante ipocondriaco»). Tutto concentrato in se stesso e nel presente, in un unico punto direbbe Michelstaedter, nel corso del suo viaggio-apprendistato, Wilhelm si dilata ora in un avvenire immaginario e inconsistente, ragionando non solo in funzione di Felix, ma addirittura di futuri discendenti: tutto ciò «che avrebbe costruito doveva avere la durata di alcune generazioni». Un passaggio dall’egoismo giovanile a un altruismo maturo e consapevole che cela in realtà un tradimento della propria personalità e una caduta nella rettorica.
Insieme ai «sentimenti paterni» Wilhelm acquisisce anche, come per magia, «tutte le virtù del cittadino». Ecco, ora non è che un banale «cittadino», ed è felice di esserlo. Ovviamente ciò che ancora manca è una moglie per Wilhelm e una madre per Felix (Mariane scivola presto nell’oblio della memoria), perché alla singolare, anticonvenzionale famiglia composta dal protagonista durante il suo viaggio-apprendistato e formata da Mignon e l’arpista, deve sostituirsi la famiglia tradizionale. Di nuovo, come nel Faust e nelle Affinità elettive la parte più luminosa (invero di una luminosità piuttosto artificiale), rassicurante, civile, apollinea dell’esistenza umana prende il sopravvento sulla parte più oscura, angosciante, distruttiva, dionisiaca, reprimendola.
La Società della Torre inizia e consacra Wilhelm al supremo ideale della mediocrità, ed è proprio su questo ideale che ora egli sviluppa la sua nuova concezione dell’arte – se ancora nel protagonista resiste una tale concezione -, di cui la casa di Natalie è una sorta di rappresentazione plastica:
[…] la vera arte è come la buona società: nella maniera più piacevole ci costringe a riconoscere la misura per la quale e sulla quale il nostro intimo è plasmato [3].
Da Shakespeare e i più terribili incubi dell’uomo alla misura, alla mediocrità, nell’arte e nella vita.
Natalie è la nipote dell’anima bella autrice delle Confessioni, e nella sua descrizione della zia si nota un certo – illuministico – biasimo per le sue scelte, a conferma del valore anticonvenzionale e sovversivo di questa figura:
Una salute molto malferma, forse un eccessivo indagare su se stessa, unito a forti scrupoli morali e religiosi, non permisero che ella fosse per il mondo ciò che avrebbe potuto in altre circostanze [4].
Preservando la propria personalità, la propria libertà, la propria volontà, la propria fede in se stessa e nel proprio Dio, l’anima bella rifiuta e scardina l’ideale di mediocrità del proprio ambiente. Non si lascia assorbire, non si lascia ridimensionare la canonichessa, e la sua vicenda mostra come l’individuo davvero libero e indipendente, fedele a se stesso e alla propria natura, sia tristemente destinato alla solitudine, all’incomprensione, all’emarginazione, in qualunque contesto sociale esso si trovi.
15. Natalie ovvero la mediocrità
Animata da quella che Schiller definisce l’«unica religione estetica» [5] e che rappresenta non soltanto il fondamento morale del Meister, ma dell’intero pensiero goethiano, ovvero il cristianesimo nella sua forma più pura e autentica, più bella, libera dall’abbraccio mortale della chiesa e della superstizione, Natalie è tutta pervasa dall’aiuto, dal crocerossino soccorso dell’altro; è umanitarismo allo stato puro. Né la natura né l’arte fanno effetto su di lei, anti-passionale per costituzione. Del supremo ideale della mediocrità, del totale dominio della ragione sull’istinto, sull’io, sulla volontà e la libertà individuale, Natalie è la personificazione:
[…] la sua natura non pretende nulla se non ciò che il mondo auspica e richiede [6].
È un essere misurato, limitato, razionale che non si spinge mai oltre la legge, diciamo pure convenzione, perché tale diviene l’impegno filantropico in una società che ne fa precetto. Tutta buonsenso, altruismo, freddezza e logica, Natalie rappresenta l’antitesi di tutte, ma proprio tutte le donne del Meister, da Mariane a Therese. Ultimo residuo dell’infrazione repressa, ma relegato a una dimensione buffonesca, Friedrich, che chiama le cose con il proprio nome e fornisce tra l’altro una delle definizioni più esatte di Jarno, quella di «mercante d’anime», proprio come Mefistofele, dichiara causticamente che la sorella si sposerà quando «mancherà una sposa», offrendosi come «supplemento a una qualunque esistenza». Ciò che manca al protagonista è proprio una moglie.
Per queste ragioni, pur essendo forse la figura femminile più importante del Meister, in quanto sposa di Wilhelm, Natalie è anche, al tempo stesso, la più debole e opaca: Mariane, Philine, Aurelie, l’anima bella, Mignon, persino Therese e la contessa sono un’altra cosa. La totale immunità a quella che s’impone come l’unica condizione davvero necessaria dell’uomo, la sofferenza, rende Natalie un personaggio freddo, inconsistente, artificiale come la luce che emana dalla sua – troppo – splendida figura. Sembra una statua vivente, che parla, cammina, agisce, ama, ma resta pur sempre una statua. L’ideale cristiano e l’amore avrebbero meritato forse ben altro calore.
Nella sua volgarità borghese, che riduce ogni singolo aspetto dell’esistenza umana a una questione d’affari, Werner consiglia a Wilhelm di accaparrarsi una bella e ricca ereditiera. Natalie è anche questo. Non soltanto, non soprattutto, certo, ma è anche questo.
16. La Sala del Passato
La Sala del Passato, in cui l’arte e la vita cancellano ogni pensiero di morte e di tomba, elevando l’anima «al di sopra di tutte le passioni» e infondendogli la suprema, quasi ascetica «calma della bellezza» [7], è la rappresentazione plastica del rifiuto di Goethe della morte e del nulla, sintetizzato nel motto, antitetico al Memento mori, come nota giustamente Schiller, «Ricordati di vivere». È una sorta di tempio del lato luminoso, sereno, pacifico dell’esistenza umana, che doma, assorbendola in sé, la parte più oscura, angosciante, conflittuale. La Sala del Passato è il trionfo dell’umanità positiva, rappresenta e celebra il più elevato e profondo ideale dell’Illuminismo, è l’Illuminismo.
Tutto nella Sala del Passato è perfettamente allineato e proporzionato, misurato e razionale, «felicemente distribuito»; tutto, «grazie all’accordo o al contrasto», ricondotto anch’esso all’ordine e all’armonia, come l’errore nella formazione dell’individuo, «all’unità o alla varietà dei colori», sembra «collocato al posto giusto», quale deve essere «e non altrimenti», producendo un «effetto di chiara perfezione». La Sala del Passato è un’idealizzazione dell’uomo e della sua storia, quale dovrebbe essere ma non è stata né sarà mai; è un monumento immaginifico all’arte come resistenza alla violenza e alla ferocia della storia.
Non a caso Mignon viene sepolta nella Sala del Passato, che dunque assorbe e razionalizza, privandola della sua forza distruttiva, la prova più evidente dell’assurdità della vita: la sofferenza e la morte dei bambini. L’elemento più drammatico, doloroso, angosciante, oscuro, distruttivo, insensato dell’esistenza umana, sul quale Ivan Karamazov fonda la propria rivolta contro Dio e il suo mondo, dinanzi al quale, come dichiara padre Paneloux nella sua eretica predica, è necessario ritrovare la «somma virtù […] del Tutto o Niente» [8] (non verrà mai sottolineato abbastanza il radicalismo di questa dichiarazione), viene così domato, interiorizzato e ricondotto all’armonia, alla luce. Un processo consueto in Goethe, costitutivo del suo pensiero e della sua arte, almeno dal Werther in poi, come mostrano le salvezze di Faust, Margherita, Ottilia. A proposito della protagonista delle Affinità elettive, anche le spoglie di Mignon, come quelle di Ottilia, vengono sottratte alla distruzione, alla decomposizione, ma se nel caso di Ottilia si tratta di un evento miracoloso, nel caso di Mignon si tratta di un processo scientifico. Nel Meister tutto è umano, nel senso più elevato, nobile e utopico del termine.
17. La celebrazione della vita
Persino nel momento più drammatico – perché più assurdo e insensato – del romanzo, ovvero il funerale di una creatura poco più che bambina, se non ancora del tutto bambina, Goethe trova la forza e il coraggio, forse persino la sfrontatezza, di celebrare la vita, rivolgendosi ai fanciulli che conducono e accompagnano la loro stanca compagna di giochi:
Volgete al cielo gli occhi dello spirito! Sia viva in voi la forza creatrice, che porta in alto ciò che v’è di più bello e di più sublime, al di sopra delle stelle: la vita [9].
Goethe è questo, è tutto in questo momento, che da picco tragico e assurdo si trasforma in una solenne e vibrante celebrazione della vita. Emerge in queste pagine tutta la fede di Goethe nella vita e nell’uomo, una fede sincera, profonda e ardente come quella dell’anima bella per il proprio Dio.
Istintivamente consapevoli, in quanto esseri umani, della drammaticità del momento, i bambini vorrebbero abbandonarsi al pianto e restare accanto a Mignon, ma il coro invisibile e misterioso, divino, li esorta a tornare alla vita, ad asciugare all’aria aperta e fresca le lacrime, a fuggire la notte, a fuggire la morte, perché «il giorno, la gioia, la durata sono la sorte dei vivi», a risalire alla vita e andare incontro all’amore, che li attende nella «pura veste della bellezza […], con splendore celeste e col serto dell’immortalità» [10]. In questo meraviglioso scambio di battute tra il coro invisibile e i fanciulli, che rappresenta probabilmente la vetta poetica più elevata del Meister, è tutto Goethe, vi riecheggia puro, limpido, cristallino il suo messaggio più intimo e profondo, di assoluta fede nella vita e nell’uomo.
La conservazione del corpo privo di vita, sottratto alla forza distruttiva della morte e del nulla, è la manifestazione più evidente del rifiuto di Goethe del destino mortale dell’uomo, nei confronti del quale sembra provare una vera e propria repulsione istintiva, e non solo in ambito artistico (nel memorabile saggio sulle Affinità elettive Benjamin ricorda come Goethe non voleva si parlasse di decessi in sua presenza e come non riuscì ad avvicinarsi al letto di morte della moglie). Come Ottilia, anche Mignon sembra dormire; la morte le dona quella serenità che in vita non ha mai avuto, povera vittima della bestialità umana e della ferocia dell’esistenza: rapita, sradicata, sfruttata, maltrattata e infine sentimentalmente tradita da Wilhelm. Un risarcimento irrisorio, forse persino offensivo se paragonato alle innumerevoli sofferenze e ingiustizie vissute e subite dalla piccola.
18. Dalle asine al regno
Come Saul, il primo re, che partito alla ricerca delle asine di suo padre trova un regno, secondo la citazione biblica tratta dal Primo libro di Samuele posta in conclusione del Meister, Wilhelm, abbandonata la casa paterna e la società borghese per coltivare le proprie aspirazioni artistiche, sminuite infine come mere fantasticherie, trova l’amore, la famiglia e una promozione sociale nell’aristocrazia. Un lieto fine kleistiano (mi riferisco alle conclusioni in chiaroscuro della Käthchen di Heilbronn e del Principe di Homburg [11]), che nasconde in realtà più di una crepa. Il regno richiede sacrifici ingenti a Wilhelm, rinunce che appaiono più il risultato di una repressione che di un’effettiva maturazione dell’individuo: anzitutto la rinuncia alla propria personalità, quantomeno nella sua forma più pura, incontaminata e vitale, quindi alla propria volontà e dunque alla propria libertà. Wilhelm tenta, seppur timidamente, di resistere alla Società della Torre, di opporsi alla sua autorità, ma dopo aver ascoltato, o forse sarebbe meglio dire subito, la storia di Mignon e della sua famiglia, proclama la propria resa, rimettendosi interamente al volere dell’abate, sorta di laico starec:
[…] è inutile, in questo mondo, sforzarsi di seguire la propria volontà [12].
Parole arrese che decretano l’impotenza dell’uomo al cospetto del destino, ovvero del caso, e dell’autorità che si arroga il diritto di farne le veci. In fondo, anche l’unione di Wilhelm con Natalie è decisa da qualcun altro, da Therese, che impone come condizione del proprio matrimonio con Lothario, secondo un vero e proprio vincolo contrattuale, il matrimonio del protagonista con Natalie.
Evaso dal gretto, meschino, soffocante, repressivo e spersonalizzante contesto sociale borghese, Wilhelm entra in un nuovo contesto sociale, quello aristocratico, decisamente meno gretto, meschino, soffocante, ma altrettanto repressivo e spersonalizzante, il cui scopo non è il guadagno (di ricchezza ce n’è abbastanza), e neppure un umanitarismo a tratti stucchevole, ma la propria conservazione, minacciata dalle spinte sovversive scaturite dalla rivoluzione francese, vero e proprio incubo della classe nobiliare europea dell’epoca. Insomma, Wilhelm viene domato, ridimensionato e assorbito da una società autoritaria vicina alla fine, in un generale trionfo della mediocrità (Schiller, che sulla promozione sociale del protagonista nutre più di un dubbio, come abbiamo già scritto nel corso del presente contributo, parla di una «posizione umana bella e centrale», perfettamente equidistante dalle «fantasticherie» e dal «filisteismo» [13], quel filisteismo destinato, nonostante la resistenza dell’aristocrazia, a diventare padrone del mondo – sì, sarà, ed è tuttora, degli zelanti ipocondriaci alla Werner il mondo).
Alla fine del romanzo è come se non soltanto Wilhelm, ma l’intera opera piegasse il capo, stanca, gravata dal peso della sua stessa utopia. E se anche tutto si risolve in una suprema armonia, in un grandioso trionfo di luce, vita e amore, non mancano elementi dissonanti che forse si notano appena in sottofondo, ma sono capaci di mettere in crisi l’intera creazione. Sono molte, troppe le vittime sacrificate all’armonia universale: Mariane, Mignon, l’arpista, Aurelie, Lydie. Non soltanto nella storia, regno d’ingiustizia, violenza e ferocia, ma neppure nell’utopia l’esistenza umana è come noi tutti vorremmo che fosse. In ogni caso, reale e immaginario, l’esistenza umana è una tragedia. Perché una tragedia è la nascita.
NOTE
[1] Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, traduzione di Anita Rho ed Emilio Castellani, Adelphi, Milano 1976, p. 442.
[2] Ivi, p. 444.
[3] Ivi, p. 465.
[4] Ivi, p. 466.
[5] Friedrich Schiller, Dall’epistolario Goethe-Schiller, lettera del 17 agosto 1795, in Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, cit., p. 570.
[6] Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, cit., p. 485.
[7] Friedrich Schiller, Dall’epistolario Goethe-Schiller, lettera del 3 luglio 1796, in Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, cit., p. 578.
[8] Albert Camus, La peste, traduzione di Yasmina Mélaouah, Bompiani, Milano 2017, p. 239.
[9] Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, cit., p. 515.
[10] Ivi, p. 516.
[11] Per un approfondimento su queste due opere rimando ai contributi Heinrich von Kleist, il dramma dell’incomprensione. «Käthchen di Heilbronn» ovvero della dedizione, «Il principe di Homburg» ovvero dell’affrancamento.
[12] Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, cit., p. 532.
[13] Friedrich Schiller, Dall’epistolario Goethe-Schiller, lettera del 3 luglio 1796, in Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, cit., p. 579.