La libertà non può essere identificata con il bene, la verità, la perfezione. Essa ha la sua natura originale, la libertà è libertà e non un bene. Ogni confusione e identificazione della libertà con il bene stesso e la perfezione equivale a negare la libertà, a riconoscere le vie della violenza e della costrizione. Un bene per forza non è più un bene, ma degenera in male. Il bene libero, che è l’unico bene, presuppone la libertà del male. In ciò è la tragedia della libertà, che Dostoevskij studiò e perseguì sino in fondo.
1.1. La tragedia della libertà
Pubblicato nel 1923, il saggio La concezione di Dostoevskij di Nikolaj Berdjaev è una pietra miliare nella storia della critica dostoevskiana, una delle più complete e illuminanti analisi filosofiche dell’opera e del pensiero dello scrittore.
Berdjaev, che di Dostoevskij intende portare alla luce il nucleo filosofico, incentra la propria analisi sul concetto di libertà, di cui rivela la natura tragica. Perché la libertà, principale elemento costitutivo dell’uomo, non è un valore di per sé: l’uomo è libero di scegliere tanto il bene quanto il male, e in questa possibilità di scelta, senza la quale non esiste libertà, in questa condizione di responsabilità permanente, schiacciante (è la libertà il masso che Sisifo è costretto a trascinare per l’eternità) risiede la sua tragedia. Ogni uomo, ontologicamente primo e ultimo, è chiamato a scegliere, ogni uomo, primo e ultimo, è chiamato a rispondere a quello che Camus definisce il «quesito fondamentale della filosofia» [1], ovvero se valga la pena vivere oppure no. Eludere questa domanda fondamentale e terribile significa rinunciare alla propria libertà, dunque alla propria umanità, e ridursi in schiavitù, consegnarsi a quelle autorità politiche, religiose e sociali – al Grande Inquisitore – che negano all’uomo ogni autonomia e indipendenza. Scegliere il male è meglio che non scegliere affatto, distruggere è meglio che restare tiepidi e indifferenti, perché, come vedremo, anche nel male e nella distruzione resiste sempre una possibilità di redenzione.
1.2. Le idee
Berdjaev definisce Dostoevskij un «dialettico di genio, il più grande metafisico russo». Ma in Dostoevskij il pensiero si fa carne e sangue, le idee «vivono in lui di vita organica, hanno un proprio indefettibile destino», dalla sua opera «si leva un turbine infuocato di idee». Tutto in Dostoevskij è «infuocato e dinamico, tutto è movimento, contraddizione e lotta», le sue idee «non sono categorie irrigidite e statiche, ma correnti ignee» legate tutte «al destino dell’uomo, al destino del mondo, al destino di Dio». Sono le idee a determinare il destino, in esse «è concentrata e nascosta l’energia distruttiva della dinamite» e Dostoevskij «mostra come le esplosioni delle idee siano distruttrici e causa di rovine» [2].
Ma nelle idee è anche «concentrata e nascosta l’energia che risuscita e rigenera». A differenza delle idee platoniche, le idee di Dostoevskij «non sono prototipi dell’essere, non sono essenze prime, né […] categorie: sono destini dell’essere, elementari energie infuocate». L’intera opera di Dostoevskij «è una vera esplosione creativa del pensiero», è la rivelazione di mondi nuovi, mondi «che si trovano in uno stato di moto tempestoso» e attraverso i quali «si decifrano i destini dell’uomo» (6).
1.3. La concezione
Lo scopo di Berdjaev è entrare «nel profondo del mondo delle idee di Dostoevskij» e scoprirne la concezione. Concezione che è la «contemplazione del mondo» di uno scrittore, «la sua penetrazione intuitiva nell’interiore essenza del mondo». Nel caso di Dostoevskij, la concezione «è la sua intuizione geniale del destino dell’uomo e del mondo», intuizione artistica, certo, letteraria, ma anche «concettuale, conoscitiva, filosofica». La sua opera è «conoscenza», e la sua concezione anzitutto, soprattutto «dinamica» (7).
1.4. Il russo ovvero tra apocalisse e nichilismo
Dostoevskij è il più russo dei grandi scrittori russi, e al tempo stesso il più universale. Egli «rispecchia in sé tutte le contraddizioni dello spirito russo, tutte le sue antinomie», e dalla sua opera è possibile apprendere la «singolare costituzione spirituale» russa:
I Russi, quando più esprimono i caratteri originali del loro popolo, sono apocalittici o nichilisti. Ciò significa che non possono rimanere nel mezzo della vita spirituale, nel mezzo della cultura, che il loro spirito tende al limite estremo (9).
Apocalittici o nichilisti: i russi non conoscono mezze misure, sono anti-mediocri. Il problema, o meglio, il dramma, è che a livello storico-politico ciò si traduce in violenza, barbarie, distruzione. E infatti:
Un popolo con un’anima simile difficilmente può essere felice nella sua storia. La tendenza apocalittica e il nichilismo da opposti estremi, quello religioso e quello ateo, ugualmente demoliscono la cultura e la storia, quali vie di mezzo (ibidem).
Berdjaev sottolinea come tale costituzione spirituale renda difficile «lo sviluppo storico di un popolo, e la creazione di valori culturali», né favorisca «una qualsiasi disciplina dello spirito». Per questo motivo un russo, come dice Leont’ev, «può essere un santo, ma non può essere onesto». L’onestà è «mediocrità morale, virtù borghese», e come tale non ha nulla d’interessante per apocalittici e nichilisti. Mentre santi sono soltanto pochi eletti, «la moltitudine è destinata alla disonestà». In pochi raggiungono una «vita spirituale superiore», mentre la maggioranza resta «al di sotto di una vita culturale media». Da ciò «l’enorme massa incolta russa» (ibidem). Il concetto di cultura è intimamente, anzi, indissolubilmente legato a quello di spirito: non c’è cultura senza spirito.
Per gli atei, i socialisti e gli anarchici russi la cultura è «un ostacolo al loro precipitoso andare verso un’ultima meta». Mentre gli europei procedono progressivamente, seguono un lungo e graduale processo storico e culturale, i russi saltano verso la meta ultima, e da questo loro aspetto peculiare, costitutivo ed estremo deriva l’ostilità per la «forma, per il principio formale nel diritto, nello Stato, nell’etica, nell’arte, nella filosofia, nella religione» (ibidem). Il «formalismo della cultura europea» è completamente estraneo al carattere del russo, le cui attitudini formali sono «insignificanti». La forma è misura, frena, limita, traccia confini oltre i quali non ci si può spingere, «rafforza nella mediocrità», mentre la «rivolta apocalittica e nichilista spazza ogni forma, sposta ogni confine, getta al suolo ogni freno» (11).
Nella sua opera Dostoevskij indaga a fondo, anzi, «sino in fondo» (corsivo mio) questa apocalisse e questo nichilismo, scoprendo «un’isteria metafisica dell’anima russa, la sua tendenza eccezionale a essere invasata e ossessa». Il destino storico della Russia giustifica e conferma, ancora oggi, le sue intuizioni. Quella rivoluzione presagita con terrore da Dostoevskij si è effettivamente compiuta, e per quanto essa appaia «distruttiva e rovinosa per il paese, tuttavia dev’essere riconosciuta per russa e nazionale». È un «tratto endemico» dell’anima russa l’«autodistruzione» (ibidem).
1.5. Nelle profondità dell’anima umana
Dostoevskij si spinge nelle profondità più recondite dell’anima umana, là dove nessuno si era ancora mai spinto, «sotto gli strati della formazione psichica, della stabilizzata struttura psichica, sotto le stratificazioni dell’anima illuminata dalla luce del raziocinio e sottomessa e norme razionali», fino a scoprire una «natura vulcanica»:
Nell’opera dello scrittore erompono i vulcani sotterranei dello spirito umano. Come se a lungo si fosse accumulata un’energia spirituale rivoluzionaria, come se il terreno fosse diventato sempre più magmatico, mentre in superficie, nella sua esistenza apparente, l’anima è rimasta statica, chiusa nei suoi limiti, sottomessa alle norme. Ed ecco, infine, un prorompere tumultuoso, lo scoppio della dinamite (ibidem).
1.6. La sua anima è una fiamma
Dostoevskij rappresenta «il dinamismo tempestoso e appassionato della natura umana», l’uomo che «si strappa da ogni forma stabile di vita, cessa di condurre un’esistenza sottomessa alla legge e passa a un’altra dimensione dell’essere» (12). E Dostoevskij, con il quale nasce «un’anima nuova, una nuova intuizione del mondo», «questa natura vulcanica, questo moto infuocato dello spirito» lo sentiva dentro di sé, era egli stesso, come testimoniano le seguenti parole indirizzate al caro amico Majkov:
La cosa peggiore è che la mia natura è bassa e troppo appassionata. Dappertutto e in tutto giungo al confine estremo, per tutta la vita ho oltrepassato il limite.
Dostoevskij è un uomo «infuocato, arso da una passione interiore spirituale». La sua anima è una «fiamma» (ibidem).
1.7. Opera profetica e dionisiaca
L’arte di Dostoevskij è un’arte «profetica». Dostoevskij studia la natura umana «non sulla stabile mediocrità, non nella sua vita d’ogni giorno, non sulle forme normali e codificate della sua esistenza, ma nel subcosciente, nella follia e nel delitto», e così facendo la «svela» (corsivo mio), perché nella follia e non nella salute, nel delitto e non nella legalità, nell’elemento «subcosciente, notturno» e non nella «vita diurna, non nella luce dell’anima coscientemente organizzata si rivela la profondità della natura umana», i suoi «termini» e i suoi «confini» (12-13). In questo senso, l’opera di Dostoevskij è un’opera «dionisiaca»; egli è completamente immerso nell’elemento dionisiaco, dal quale scaturisce la tragedia.
1.8. Un avvenimento
La lettura di Dostoevskij «è sempre un avvenimento nella vita», l’anima ne riceve un «nuovo battesimo di fuoco». L’uomo che entra in contatto con il mondo di Dostoevskij «diventa un uomo nuovo, e a lui si aprono nuove dimensioni dell’essere»: Dostoevskij è un «grande rivoluzionario dello spirito» (13).
1.9. Antropologo, non teologo
Ciò che preoccupa il pensiero di Dostoevskij, «tormentato dal mistero dello spirito umano», non è la teologia, ma l’«antropologia» (14). Egli vede Dio nel destino umano, perché il problema di Dio è un problema anzitutto umano, e «il mistero divino meglio si rivela attraverso il mistero umano che con una ricerca di Dio […] fuori dell’uomo» (15).
È il mistero uomo la missione di Dostoevskij, come scrive egli stesso, appena diciottenne, al fratello Michail nella lettera del 16 agosto 1839:
L’uomo è un mistero. Un mistero che bisogna risolvere, e se trascorrerai tutta la vita cercando di risolverlo, non dire che hai perso tempo; io studio questo mistero perché voglio essere un uomo [3].
Parole straordinarie, persino impressionanti se si pensa all’età in cui furono scritte, e alle quali Dostoevskij resterà fedele fino all’ultimo dei suoi giorni.
1.10. Metafisico, non solo psicologo
Dostoevskij non è soltanto uno psicologo, ma anche, per certi aspetti soprattutto, un metafisico, «studia in profondo la tragedia dello spirito umano» (17). In lui «lo spirito travagliato della letteratura russa raggiunge il grado estremo della tensione», e con esso il dolore «per il tormentato destino dell’uomo e del mondo» (18).
1.11. Cristo
Leggendo Dostoevskij si prova una grande gioia, ma «la gioia attraverso il dolore», secondo la via cristiana. A tal proposito, Dostoevskij porta in sé «un sentimento unico, eccezionale di Cristo, quasi un amore furioso». Come scrive egli stesso in uno degli ultimi appunti, turbato dalla capacità di concepire affermazioni ateistiche di una forza e di una ferocia mai viste prima (il riferimento è al pensiero distruttivo di Ivan Karamazov), la sua fede in Cristo è passata «attraverso il grande crogiolo dei dubbi» [4]. Si è «temprata nel fuoco», aggiunge Berdjaev.
Mentre la fede giovanile di Dostoevskij nell’umanitarismo idealistico non supera la prova, la fede in Cristo le supera tutte. Dostoevskij perde la «fede umanitaria nell’uomo», ma resta fedele alla «fede cristiana nell’uomo». Cristo è la luce, l’unica luce che splende anche nelle tenebre più fitte e spaventose e offre, nella tragedia, la miracolosa possibilità d’una catarsi (19).
1.12. Scrivere è denudarsi
Nell’opera di Dostoevskij «si riflettono tutte le contraddizioni del suo spirito, tutte le sue profondità abissali». Non nasconde, non reprime nulla Dostoevskij, e proprio per questo motivo fa scoperte «stupefacenti» sull’uomo; nelle sue opere riversa «tutto se stesso», e ciò lo rende meno misterioso di molti scrittori, come Gogol’ per esempio, che nella sua opera si nasconde e porta via con sé il «segreto della sua personalità», destinato a restare un enigma insolubile. Ciò che non ha scritto, o meglio, ciò che ha scritto e poi distrutto, rivela la personalità di Gogol’ ancor più dell’opera sopravvissuta al suo furore distruttivo. Dostoevskij parla «sino in fondo del proprio destino, che è a un tempo il destino universale dell’uomo». In lui l’epilessia non è soltanto una malattia, ma una «manifestazione delle profondità stesse del suo spirito» (20), abissali come quelle di ogni uomo degno di questo nome.
1.13. Vagabondo dello spirito
Non è uno slavofilo Dostoevskij, come spesso è stato erroneamente definito, ma un «vagabondo, un pellegrino russo per i mondi dello spirito». A differenza di tutti i grandi scrittori russi della sua epoca, non ha una casa propria, non ha una propria terra, nel senso appunto di proprietà, non ha un «soffice nido», quel nido di nobili rappresentato da Turgenev nell’omonimo romanzo [5], nel quale rifugiarsi:
Non è più legato ormai a nessuna esistenza statica [diciamo pure aristocratica], è tutto un dinamismo, una inquietudine, è tutto pervaso dagli stimoli che emanano dal futuro, è tutto nella rivoluzione dello spirito. È un uomo dell’Apocalissi (21).
È un «uomo sotterraneo» Dostoevskij, il suo elemento è il «fuoco, non la terra», la sua linea è un «moto turbinoso», non una retta.
No, non è uno slavofilo Dostoevskij, ma un «patriota europeo» (corsivo mio), e uno scrittore vero, che vive del proprio lavoro, e come tale è spesso costretto a impegnare quel poco che possiede per non morire di fame. Non si può pensare Dostoevskij al di fuori della letteratura, ma necessariamente in essa, a livello spirituale e materiale: «A nessuna cosa fu legato all’infuori della letteratura» (ibidem). Per Dostoevskij vita e letteratura sono una cosa sola.
1.14. Un tragico movimento d’idee
L’intera opera di Dostoevskij «è un tragico movimento d’idee». L’uomo del sottosuolo, Raskol’nikov, Stavrogin, Kirillov, Šatov, Šigalëv, Verchovenskij, Ivan Karamazov non hanno semplicemente delle idee, sono essi stessi idee:
Tutti gli eroi di Dostoevskij sono pervasi da un’idea, inebriati da un’idea, tutti i dialoghi nei suoi romanzi costituiscono una stupefacente dialettica delle idee (22).
In tutte le opere di Dostoevskij si incontrano, confrontano e scontrano interi mondi.
1.15. Il più grande filosofo
Berdjaev definisce Dostoevskij non soltanto un «vero filosofo», ma «il più grande filosofo russo». Chiunque si sia occupato dopo di lui delle cose «ultime», lo ha fatto necessariamente nel segno di Dostoevskij:
Soltanto il filosofare delle cose penultime è legato alla filosofia tradizionale (23).
Nella letteratura come nella filosofia, Dostoevskij è il limite estremo, con il quale chiunque voglia risolvere il mistero uomo e rispondere compiutamente al quesito se valga la pena vivere oppure no, deve fare i conti. Senza Dostoevskij è impossibile una piena comprensione dell’uomo e della vita (ammesso, naturalmente, che una piena comprensione dell’uomo e della vita sia possibile).
1.16. L’uomo restituito all’uomo
Dostoevskij restituisce all’uomo quella profondità spirituale che gli era stata sottratta ed era stata «rimossa in una lontananza trascendentale, in altezze irraggiungibili», in un processo di «distacco dell’uomo dal suo intimo mondo spirituale» che ha inizio con le autorità ecclesiastiche e culmina – e termina – con il «positivismo, l’agnosticismo e il materialismo», ovvero «con la materializzazione completa dell’uomo e del mondo» (ibidem). Dostoevskij rappresenta una frattura nella «chiusa realtà “materiale” e “psicologica”» entro la quale è stato confinato l’uomo, è lo strappo nel cielo di carta, ricorrendo alla celebre espressione pirandelliana, rade al suolo tutti gli ostacoli, sbaraglia tutti i limiti e nella sterminata, abissale profondità dell’uomo, sulla sua via dolorosa, nella sua totale e terribile libertà scopre Cristo. La religione di Dostoevskij si oppone naturalmente alla «religiosità autoritaria trascendentale», è la religione «più libera che il mondo conosca, ispirata dal pathos della libertà» (24). In Dostoevskij, che restituisce l’uomo all’uomo, non c’è niente di divino, di trascendentale, di soprannaturale: tutto è umano, troppo umano. Tutta la responsabilità è nelle mani dell’uomo. Sta a lui scegliere tra bene e male.
NOTE
[1] Albert Camus, Il mito di Sisifo, traduzione di Attilio Borelli, Bompiani, Milano 2020, p. 5.
[2] Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, traduzione di Bruno Del Re, Einaudi, Torino 2002, pp. 5-6. D’ora in avanti il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[3] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, p. 26.
[4] Citato in Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, p. 45.
[5] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Ivan Turgenev, «Nido di nobili»: destinati all’infelicità.