Caspar David Friedrich, Un uomo e una donna davanti alla luna

Goethe, «Gli anni dell’apprendistato di Wilhelm Meister»: la resistenza della personalità – Terza parte

11. Le Confessioni di un’anima bella

L’intero sesto libro del Meister è dedicato alle Confessioni di un’anima bella, vera e propria Bildungsnovelle che rappresenta una formazione individuale concettualmente analoga a quella di Wilhelm, ma concentrata tutta sulla dimensione spirituale dell’essere, in un tripudio di vita contemplativa. Schiller individua nella protagonista del racconto una «prova» di come il filosofare senza filosofia, ovvero senza solide conoscenze speculative, conduca «inevitabilmente» al «misticismo» [1]: un aspetto illuministicamente meritevole di biasimo, ma che rappresenta la vera particolarità del testo e contribuisce in modo decisivo, almeno secondo il modesto parere del sottoscritto, a determinarne l’enorme valore artistico e morale. Nelle Confessioni Goethe mette da parte quella fede nella razionalità caratteristica del secolo, dunque di se stesso, del proprio approccio filosofico, letterario, esistenziale nel complesso (come scrive Hesse, della cultura settecentesca Goethe è «l’erede per diritto di nascita e il figlio privilegiato» [2]), lasciando interamente spazio allo spirito e al cuore dell’uomo, liberi di fluire, liberi di errare. Una svolta teorica che si riflette anche sulla forma: Goethe adotta la prima persona, rinunciando quindi al ruolo di supremo creatore che tutto sa, tutto vede, tutto dispone e torna all’essenziale, alla pura sostanza, al puro essere, arricchendo il romanzo di una testimonianza esistenziale diretta, senza troppe mediazioni logiche ed estetiche, che offre al lettore un ulteriore punto di vista e contribuisce a rendere il Meister un’opera davvero universale.

Nelle Confessioni Goethe ripropone il tema alla base del romanzo, ovvero il conflitto tra individuo e società. Come Wilhelm, anche l’anima bella è protagonista di una coraggiosa e sovversiva prova di resistenza contro le pressioni uniformanti e spersonalizzanti esercitate dal contesto sociale di appartenenza (l’aristocrazia in questo caso), resa ancor più complicata, più impegnativa dall’essere donna. Sin da giovanissima, complice anche l’esperienza della malattia, l’anima bella si contraddistingue per una profondità e una ricchezza di spirito inusuali nel proprio ambiente; non ancora ventiduenne, a differenza delle sue coetanee, non è all’oscuro della propria anima e per questo motivo detesta ciò che per una giovane aristocratica rappresenta la vera ragione di vita: gli svaghi mondani. Già sa, l’anima bella, «che vi sono sentimenti più elevati, i quali ci danno un piacere che cercheremmo invano nei divertimenti», e che «in queste gioie superiori è contenuto un tesoro nascosto che può sostenerci nella sventura» [3]. Riflessioni che offrono spunti interessanti: in esse appare sottintesa una concezione pascaliana del divertimento, del divertissement, come fuga dai problemi esistenziali [4]; inoltre l’accenno alla «sventura», riconducibile al destino mortale dell’uomo, rivela una certa profondità del senso del tragico, al quale spesso è possibile ricondurre sentimenti religiosi ardenti come quello dell’anima bella (penso per esempio alla protagonista femminile del romanzo di Turgenev Nido di nobili, Liza, secondo la quale ogni uomo deve essere cristiano «non per conoscere il celeste… che so… o il terrestre… ma perché ognuno deve morire» [5]).

Il conflitto tra l’anima bella e la società aristocratica si misura soprattutto sul terreno dell’amore. L’amore della protagonista per Dio, costitutivo della sua persona, è molto più forte e profondo dell’amore per Narciso, il suo fidanzato. Inoltre, ed è questo il punto fondamentale, sposare Narciso significherebbe per l’anima bella rinunciare completamente alla propria libertà individuale, piegarsi e sottostare a quelle convenzioni sociali e a quegli svaghi mondani di cui vede tutta l’ipocrisia, tutta la vanità e che sono quanto di più lontano dalla sua natura. L’anima bella vorrebbe amare Narciso, ma restando libera, dipendendo solo ed esclusivamente da se stessa, dalle proprie convinzioni e questo la società non lo permette, come non le permette di coltivare e, soprattutto, condividere la passione per lo studio: è inammissibile che una donna sia e appaia più colta e intelligente di un uomo (anche per questo motivo, tornando alle parole di Schiller, la protagonista non può contare sul sostegno della filosofia, non è cosa che riguarda una donna; la conoscenza è anticonvenzionale, un aspetto che ormai sembra riguardare tutti, senza distinzioni di genere). Così l’anima bella e Narciso si separano. La protagonista non si sacrifica, ma semplicemente sceglie, e sceglie anzitutto se stessa, solo secondariamente Dio e la fede. La sua libertà e le sue convinzioni vengono prima di tutto:

[…] volevo intera libertà nelle mie azioni; quanto avrei fatto o non fatto doveva dipendere solo dai miei convincimenti [6].

Se Narciso avesse accettato questa condizione l’anima bella sarebbe stata sua, senza avrebbe «rifiutato non solo lui, ma anche un regno», quel regno accettato da Wilhelm al termine del romanzo sacrificando proprio volontà e convincimenti. Finalmente libera dai vincoli sociali (in aristocrazia un legame amoroso, per quanto sincero e autentico, è sempre un vincolo sociale), la protagonista può dedicarsi completamente all’arte e alla scienza: abbandonato il gran mondo, o meglio, abbandonata dal gran mondo, se ne forma intorno a lei uno nuovo, «più ristretto, ma ben più ricco e interessante».

L’anima bella non h paura di morire, è troppo profonda e forte la sua fede. Alla morte della madre mantiene un contegno sereno, persino lieto, condannato da chi le sta accanto. Chi non la conosce e non la comprende vede nella sua serenità, frutto di una fede incrollabile nel divino, una riprovevole manifestazione di freddezza, se non addirittura d’indifferenza. Il mondo della protagonista si restringe così ancora di più: per non incorrere di nuovo in simili rischi, decide di tenere per sé le proprie convinzioni religiose. A tal proposito, l’anima bella non appartiene ad alcuna confessione, ad alcuna chiesa, resta libera anche nella fede: il suo Dio è davvero suo. L’amore, perché di questo si tratta, sempre, della protagonista per il suo Dio, è lo stesso amore, totale e totalizzante, estremo che lega Edoardo e Ottilia nelle Affinità elettive [7], ma, a differenza di Edoardo e Ottilia, l’anima bella ha il coraggio e la forza di viverlo, di infrangere le leggi sociali, di scardinare la morale comune pur di viverlo. Ciò che fa anche Wilhelm seguendo la propria vocazione teatrale, salvo cedere infine al compromesso e alla mediocrità.

In conclusione del racconto, la protagonista rivela il senso più profondo e autentico della propria fede, una fede libera e indipendente, legata alla dimensione esistenziale dell’essere, istintiva e pura, non a precetti, leggi, riti, chiese:

A malapena mi ricordo di un solo comandamento; nulla mi appare sotto forma di legge; è un istinto quello che mi guida e mi conduce sempre sulla via giusta; seguo liberamente i miei sentimenti e ignoro tanto la costrizione quanto il pentimento [8].

All’interno del tessuto narrativo del Meister, il principale merito delle Confessioni è donare ad Aurelie – almeno – la serenità nella morte. Grazie alla lettura delle memorie della canonichessa Aurelie si avvede finalmente del proprio errore: essersi autodistrutta per un amore inautentico (dalla separazione con Lothario l’esistenza di Aurelie è un lento e inesorabile suicidio). Il vero amore è corrisposto, coinvolge e pervade entrambi gli esseri (esemplare, in tal senso, nell’universo goethiano, la vicenda di Edoardo e Ottilia), ma Aurelie lo comprende troppo tardi, pagando a carissimo prezzo, con la vita, la sua estrema e inutile fedeltà a un legame che non meritava fede.

12. Il fallimento

Dal punto di vista artistico, l’esperienza esistenziale di Wilhelm si rivela un completo fallimento. Il suo sogno di creare un teatro nazionale, attraverso la diffusione dell’arte drammatica, si scontra con la pochezza, la meschinità della classe attoriale tedesca, incosciente, pretenziosa, egoista, arrogante, frivola, diffidente, ipocrita, maldicente, suscettibile, irragionevole, volgare:

Non si può immaginare a che punto quella gente ignori se stessa, come esegua il suo mestiere senza riflettere, quanto siano illimitate le sue pretese. Non soltanto ciascuno vuol essere il primo, ma anche l’unico; ciascuno vorrebbe escludere tutti gli altri, e non capisce che solo insieme a loro riesce sì e no a crear qualcosa; ciascuno si crede un prodigio di originalità ed è incapace di ritrovarsi se non battendo la solita via; e, nondimeno, c’è un’ansiosa, incessante ricerca di novità. Con quanta violenza tutti manovrano gli uni contro gli altri! ed è solo l’egoismo più piccino, il più gretto tornaconto personale, che li spinge a unirsi. Di un rapporto scambievole non si parla neppure; un’eterna diffidenza è rinfocolata da ipocrite astuzie e chiacchiere disgustose; chi non vive da sregolato vive da sciocco. Ognuno esige una stima incondizionata, ognuno si adombra per la minima critica: sapeva già tutto e meglio di chiunque! Ma perché, allora, ha fatto sempre il contrario? Eterni bisognosi, eterni diffidenti, sembra che non temano nulla più della ragione e del decoro, e che non tengano ad altro che al diritto sovrano del loro arbitrio personale [9].

Il teatro non si dimostra all’altezza dei desideri e delle aspettative di Wilhelm, così come la realtà non si dimostra mai all’altezza del sogno, dell’ideale (nel rapporto conflittuale e fallimentare tra il protagonista e l’arte scenica, si riflette anche questo contrasto costitutivo, ancestrale della giovinezza, ancor più se pervasa d’idealismo). Wilhelm rende partecipe della propria disillusione e della propria amarezza Jarno, che gli rivela come ciò che egli ha appena descritto non sia il teatro, ma il «mondo», non l’attore, ma l’uomo. Una visione profondamente cinica e pessimista, anti-illuminista, che porta alla luce la radice oscura di questo personaggio enigmatico e doppio. Svincolato dal rapporto con la Società della Torre e ricondotto alla sua essenza individuale, Jarno sta al Meister come Mefistofele sta al Faust [10]: è la negazione, la coscienza critica, cinica, beffarda, pessimista, talvolta persino nichilista del romanzo. L’azione che lo rappresenta e descrive meglio è il riso, un riso offensivo, corrosivo, distruttivo, che tutto sbeffeggia e irride e sgretola dalle fondamenta; il riso del Sileno nietzschiano quando rivela a re Mida la terribile verità dell’esistenza umana [11]. Del tutto privo di empatia, incapace di amare, Jarno è tiepido, stavroginiano, distaccato e lucido fino alla malignità, come mostra la sua decisione, alla fine del romanzo, di sposare Lydie, altra vittima del bel Lothario:

Che abbia amato, che ami ancora, la cosa non ha importanza. L’amore col quale si ama un altro mi affascina quasi più di quello che si potrebbe avere per me; vedo la forza, la potenza di un bel cuore, senza che l’amor proprio offuschi la serenità del mio sguardo [12].

Il trionfo del distacco, della tepidezza, dell’apatia. Ma la Società della Torre, che tutto vede, tutto controlla e governa, riconduce a sé anche l’elemento negativo incarnato da Jarno, servendosi della sua doppiezza per reclutare nuovi adepti. Non c’è nulla che sfugga al controllo – repressivo – della Società della Torre, neppure il nulla, e dove essa non giunge interviene il destino, Goethe stesso, in qualità di supremo creatore di equilibrio e armonia, a eliminare gli elementi disturbanti, dissonanti, dionisiaci come Mignon, l’arpista e Aurelie.

Il fallimento teatrale e le esperienze vissute durante il viaggio-apprendistato, i casi umani ascoltati, la morte di Mariane e la scoperta della paternità segnano Wilhelm nel profondo, rendendolo finalmente consapevole della reale dimensione esistenziale dell’uomo, molto più limitata e miserevole di quanto credesse all’inizio del romanzo:

Non è mai troppo presto per imparare che il mondo può fare a meno di noi. Che persone importanti ci figuriamo di essere! Crediamo di animare noi soli la cerchia entro cui operiamo; ci immaginiamo che vita, nutrimento e respiro vengano meno in nostra assenza, e invece il vuoto che lasciamo si fa appena notare, si riempie all’istante; anzi spesso si fa soltanto posto, se non a qualcosa di meglio, almeno a qualcosa di più gradito [13].

In fondo è soltanto una questione di spazio, niente di più. L’eterno e indifferente fluire dell’esistenza non conosce ostacoli: una vita muore, una nuova vita nasce, un amore termina, e subito ne subentra un altro al suo posto. Finalmente consapevole della vanità dell’essere, Wilhelm si libera di quell’enorme, mostruosa e ingiustificata considerazione di sé che rappresenta uno dei principali motivi di dolore e lutto nel mondo; guarisce da quella maledetta malattia della presunzione che, come scrive Montaigne, caratterizza l’uomo [14]. Wilhelm vive un ridimensionamento del proprio ego, conforme ora alla miserevole e caduca condizione umana.

13. Mariane ovvero l’«egoismo poetico»

Era innocente Mariane. Aveva respinto Norberg e con gioia attendeva Wilhelm, di cui portava in grembo il figlio. Aveva fatto la sua scelta Mariane, e aveva scelto l’amore, quell’amore che aveva agito positivamente su di lei, come un potentissimo farmaco morale, guarendola dal disordine e riportandola a una vita autentica e sana. Avrebbe voluto confessare tutto a Wilhelm Mariane, rivelargli la propria condizione e lasciare a lui la decisione. Wilhelm non l’avrebbe mai respinta. Ma Wilhelm ha letto il biglietto di Norberg e il mondo gli è crollato addosso. Da Mariane non tornerà più.

Sono struggenti i biglietti del dolore inviati da Mariane a Wilhelm e respinti da Werner (secondo la gretta, meschina, ipocrita morale borghese, di cui Werner è in questo caso il braccio armato, Mariane è giudicata e condannata, e la morale borghese, che dell’amore fa una mera questione d’interesse, non prevede redenzioni, ma soltanto esclusioni), ammantano la sua figura di una luce purissima di sofferenza e drammaticità:

Da quando ti amo, nessun altro mi ha neppure sfiorato una mano; oh, se il tuo amore, la tua lealtà avessero accompagnato la mia giovinezza! [15]

Rivendica disperatamente la propria innocenza Mariane, e non c’è dubbio che le sue parole avrebbero fatto breccia nel cuore di Wilhelm, ma Werner, giudice e censore implacabile, impedisce loro di riconciliarsi e unirsi:

Per tutta la mia triste vita, fino all’ultimo istante, sarà questo il mio unico conforto: essere senza colpa verso di te, se anche non posso dirmi innocente [16].

Schiller, che con le sue riflessioni illuminanti non soltanto aiuta a penetrare il senso più profondo dell’opera di Goethe, ma la impreziosisce e ne accresce la grandezza (è questo che fa la grande critica, integra e valorizza un testo), definisce il Meister un «sistema planetario» in cui «ogni cosa è al suo posto». In tal senso le vittime (Mignon, l’arpista, Aurelie, Mariane), come «comete», «ricongiungono questo sistema a un altro più grande e lontano», escono dalla sua orbita, «se ne svincolano […] dopo essere servite a generare in esso un movimento poetico». Per quanto riguarda Mignon e l’arpista, Goethe fa scaturire quel che c’è «di concretamente mostruoso e di terribilmente patetico» nei loro destini, «da dottrine mostruose, da aborti dell’intelletto», in modo da assolvere del tutto la «sana natura». Insomma, il dramma di Mignon e di suo padre affonda le radici nella «cieca superstizione», mentre quello di Aurelie nella sua «anomala natura di virago» (la stessa, conflittuale e bellica natura della Pentesilea di Kleist [17], che costringe l’uomo a rimettere in discussione il proprio ruolo dominante, aspetto sovversivo che contribuisce a determinare il destino di solitudine e morte di queste due grandiose figure femminili). Il caso di Mariane è diverso, frutto di vero e proprio «egoismo poetico»: «si direbbe che l’abbiate sacrificata alle necessità del romanzo, mentre al contrario la natura l’avrebbe salvata» [18] (la natura, ma non la società, verrebbe da dire). Dunque anche Mariane, come Mignon, l’arpista e Aurelie deve morire, e se in fondo ogni morte è necessaria in un’opera d’arte, la sua fine appare particolarmente crudele. Ma nel Meister il dolore, la disperazione e la distruzione contribuiscono al raggiungimento di quell’armonia suprema e universale all’insegna della quale si conclude l’opera e che rappresenta l’utopia goethiana [19].

NOTE

[1] Friedrich Schiller, Dall’epistolario Goethe-Schiller, lettera del 9 luglio 1796, in Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, Adelphi, Milano 1976, p. 590.

[2] Hermann Hesse, Sul «Wilhelm Meister», in Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, cit., p. XIII.

[3] Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, traduzione di Anita Rho ed Emilio Castellani, cit., p. 339.

[4] Per un approfondimento sul tema rimando al contributo Blaise Pascal – Il divertissement come fuga dai problemi esistenziali.

[5] Ivan Turgenev, Nido di nobili, traduzione di Erica Klein, Rizzoli, Milano 2022, p. 137. Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Ivan Turgenev, «Nido di nobili»: destinati all’infelicità.

[6] Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, cit., p. 340.

[7] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Goethe, «Le affinità elettive»: il cieco dominio del destino. Prima parte, Seconda parte, Terza parte.

[8] Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, cit., p. 376.

[9] Ivi, pp. 390-391.

[10] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Alcune superflue considerazioni sul monumentale Faust di Goethe.

[11] «L’antico mito racconta di come il re Mida abbia dato la caccia per molto tempo al saggio Sileno, il seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando infine gli cadde tra le mani, il re chiese quale fosse la cosa in assoluto migliore e maggiormente desiderabile per gli uomini. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal sovrano, con un riso stridulo erompe in queste parole: Miserabile stirpe d’un giorno, figli del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te sarebbe vantaggiosissimo non sentire? La cosa in assoluto migliore per te è del tutto irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la seconda cosa migliore per te è – morire presto» (Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, traduzione di Susanna Mati, Feltrinelli, Milano 2022, p. 87).

[12] Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, cit., p. 508.

[13] Ivi, p. 425.

[14] «La presunzione è la nostra malattia naturale e originale. Tra tutte le creature l’uomo è la più fragile e la più soggetta alle calamità; nello stesso tempo è la più orgogliosa. Egli si sente e si vede situato qui, tra la melma e lo sterco del mondo, legato e inchiodato alla parte peggiore, più morta e stagnante dell’universo, all’ultimo livello del creato, il più lontano dalla volta celeste, con gli animali della peggior condizione; e va con l’immaginazione a piantarsi al di sopra del cerchio della luna; a mettere il cielo sotto i propri piedi. Con la vanità di questa stessa immaginazione egli si rende eguale a Dio, si attribuisce qualità divine, da se stesso si elegge e si separa dalla calca delle altre creature, taglia le parti degli animali, suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro la porzione di facoltà e di forze che a lui sembra opportuna. Come fa a conoscere, con lo sforzo della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Attraverso quale confronto tra noi e loro deduce la stupidità che attribuisce ad essi?» (Michel de Montaigne, Apologia di Raimondo Sebond, citato in Ornella Pompeo Faracovi, Il pensiero libertino, Loescher, Torino 1977, pp. 24-25).

[15] Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, cit., p. 433.

[16] Ibidem.

[17] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Heinrich von Kleist, il dramma dell’incomprensione. «Pentesilea» ovvero della dismisura.

[18] Friedrich Schiller, Dall’epistolario Goethe-Schiller, lettera del 2 luglio 1796, in Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, cit., pp. 574-475.

[19] Viene in mente il rifiuto del mondo di Dio da parte di Ivan Karamazov, fondato su un argomento che Dostoevskij stesso definisce «incontrovertibile», l’assurda sofferenza dei bambini, e Mignon non è forse una bambina?

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