Edvard Munch, Malinconia

James Joyce, «Gente di Dublino»: la piccola rivolta del piccolo Chandler

Inutile. Non riusciva a leggere. Non riusciva a far nulla. Le strilla del bambino gli perforavano i timpani. Era inutile, inutile! Sarebbe stato un prigioniero a vita.

I

Ignatius Gallaher è uno dei pochi Dubliners ad avercela fatta. Forse l’unico. Sulla banchina di North Wall, uno dei luoghi simbolo dell’opera di Joyce, luogo della fuga da quel centro di paralisi sociale, culturale, morale e spirituale che è Dublino, non è rimasto pietrificato, come la povera Eveline [1]. All’altezza della propria ambizione, nonostante la povertà e i vizi (l’alcol su tutti, da buon dublinese), Gallaher ha vinto la paralisi e si è imbarcato per Londra, accompagnato dall’augurio dell’amico Chandler. Se lo merita proprio il successo Gallaher: il cuore gli batte nel punto giusto. A Dublino, nato in una famiglia di umili origini, viveva in uno stato di ristrettezze e d’indigenza, faceva loschi salti mortali per tirare avanti, a Londra è diventato «una figura di primo piano della stampa». Ha saputo sfruttare il proprio talento Gallaher, e ce l’ha fatta. Basta guardarlo per capirlo. L’aria da uomo vissuto, spavalda e sfrontata, l’abito di tweed fatto su misura, il tono di voce, sicuro, determinato e incline a un riso beffardo, testimoniano il suo successo.

Sono passati otto anni da quando Gallaher ha lasciato Dublino, da quando, sulla banchina di North Wall, Chandler gli ha augurato buona fortuna. Ora è tornato, per una breve vacanza, e Chandler è felicissimo di rivederlo. Chandler è orgoglioso di avere un amico come lui. Non è cosa da poco. Nient’affatto. È piccolo il piccolo Chandler. Lo chiamano così perché, sebbene sia di poco inferiore alla statura media, dà una «netta sensazione di piccolezza». Come di consueto in Joyce le caratteristiche esteriori di un individuo riflettono quelle interiori (a volte le opere dello scrittore irlandese assumono l’aspetto di bestiari): è piccolo fuori e dentro Chandler, nella fisionomia e nel temperamento ha la consistenza di Una piccola nube, come recita il titolo del racconto che lo vede protagonista. Le mani del piccolo Chandler sono «sottili e bianche», la sua ossatura «fragile», la sua voce «pacata» e i suoi modi «raffinati». Ha grandissima cura dei suoi capelli, morbidi e biondi, e dei suoi baffi il piccolo Chandler. Sul fazzoletto mette sempre una goccia di profumo. Le sue unghie sono perfettamente curate e i suoi denti allineati e bianchi come quelli di un bambino. È come se attraverso la cura maniacale del proprio aspetto il piccolo Chandler tentasse di riscattare la propria piccolezza, impreziosendola. Piccolo, va bene, ma almeno elegante e raffinato, come una pietra preziosa.

Seduto alla sua scrivania da impiegato (pare che in Gente di Dublino non ci siano alternative tra l’impiego in ufficio e la disoccupazione), il piccolo Chandler pensa agli ultimi otto anni e guarda fuori dalla finestra. È il tramonto e una «manciata di soffice polvere dorata» si posa sulle bambinaie «dimesse», sui vecchi «decrepiti» che sonnecchiano sulle panchine, sui bambini urlanti che si rincorrono a perdifiato nei viali. Pensa alla vita il piccolo Chandler e, come ogni volta che pensa alla vita, si intristisce:

Una dolce malinconia s’impossessava di lui e sentiva quanto fosse inutile incaponirsi contro il destino; e in ciò consisteva il fardello di saggezza che i secoli gli avevano tramandato [2].

È arreso al proprio destino, mediocre, dublinese, il piccolo Chandler.

Ha una passione segreta per la letteratura il piccolo Chandler, risvegliata dal ritorno in patria di Gallaher, uno che sulla scrittura ha fondato il proprio successo. A casa ha dei libri di poesia, acquistati prima del matrimonio. Spesso, la sera, ha la tentazione di afferrarne uno e leggere dei versi alla moglie, ma il pudore lo trattiene e così i libri restano lì, sullo scaffale, relegati a una mera funzione ornamentale. A volte ripete tra sé qualche verso il piccolo Chandler, e questo basta a consolarlo. Non c’è spazio per l’arte nella sua vita. Non c’è spazio per l’arte nella vita di nessun dubliner, eccezion fatta per Mr Duffy in Un increscioso incidente.

Terminato l’orario di lavoro, il piccolo Chandler si congeda cerimoniosamente dai colleghi, lascia l’ufficio e s’immerge nel tramonto autunnale, che ormai volge al termine, facendosi largo tra un’«orda di ragazzini sudici». Li ignora il piccolo Chandler, continuando dritto per la sua strada «attraverso quel minuscolo brulichio di vita vermicolare, all’ombra dei palazzi desolati e spettrali nei quali, un tempo, la vecchia nobiltà di Dublino si godeva la vita» [3]. È felice il piccolo Chandler. Di rivedere Gallaher, certo, ma anche di recarsi per la prima volta da Corless, noto locale frequentato da facoltosi che vi si recano dopo il teatro per mangiare ostriche e bere liquori. Essere Gallaher significa frequentare abitualmente locali di questo genere. Essere Chandler significa invece ammirarli da lontano, di sfuggita. Eppure Gallaher da giovane era uno scavezzacollo, frequentava gente poco raccomandabile, «beveva a rotta di collo e scroccava soldi a destra e a manca». Ma anche allora, nel fango, brillavano nitide le tracce della sua grandezza. Anche allora il piccolo Chandler lo ammirava, nonostante tutto, e adesso non vede l’ora di rivederlo. La grandezza di Gallaher si riflette su di lui e il piccolo Chandler prova sensazioni mai provate prima. Una dolce illusione di superiorità lo eleva sui passanti che incontra per strada. Essere amico di un uomo di successo come Gallaher, figura di primo piano della stampa londinese, e sottolineo londinese, è la sua piccola rivincita:

Per la prima volta in vita sua si sentiva superiore a tutti quelli che incontrava lungo la via. Per la prima volta la sua anima osava rivoltarsi contro l’ottusa sciatteria di Capel Street. Non aveva dubbi: per aver successo nella vita, bisognava andarsene. Non si poteva far nulla a Dublino [4].

In realtà a Dublino si possono fare tante cose: si può metter su famiglia e ubriacarsi ogni sacrosanto giorno, si può subire umiliazioni d’ogni tipo in ufficio e poi, alla sera, tornati a casa, sfogarsi sulla moglie e i figli picchiandoli di santa ragione, si può impazzire e infine morire (sembra quasi la Pietroburgo di Dostoevskij la Dublino di Joyce). Ma avere successo no, questo proprio non si può fare. Basta gettare uno sguardo alle strade e alle case di Dublino per sentirsi stringere il cuore di tristezza, o di rabbia, o persino di odio, e infatti i pensieri di rivolta del piccolo Chandler hanno vita breve. Attraversando il Grattan Bridge il piccolo Chandler commette l’imprudenza di gettare uno sguardo alle abitazioni che sorgono sulle sponde del fiume e altro che superiorità, altro che rivolta. Una gran pena gli ispirano quelle «povere case dalle facciate striminzite». Gli sembrano un «branco di vagabondi ammucchiati lungo le banchine del fiume, coi loro vecchi pastrani coperti di polvere e di fuliggine», che osservano «intontiti il tramonto sulla città», in attesa del «primo freddo della notte per levarsi in piedi, scuotersi e rimettersi in cammino» [5]. Sarebbe in grado il piccolo di Chandler di trarre una poesia da un’immagine così suggestiva? E poi chissà, grazie all’aiuto di Gallaher riuscirebbe a pubblicarla su un giornale londinese. Cosa voglia esprimere esattamente ancora non è chiaro al piccolo Chandler, ma il pensiero di essere stato sfiorato dall’ispirazione poetica (cos’altro potrebbe avergli suggerito una simile immagine?) dentro di lui prende vita «come una speranza fanciullesca», infondendogli un nuovo entusiasmo. Grazie alla propria vena artistica il piccolo Chandler torna così ad elevarsi sulla miseria di Dublino.

Nel suo immaginifico cammino verso Corless, il piccolo Chandler non si avvicina soltanto a Gallaher, ma a tutto ciò che Gallaher rappresenta, ovvero Londra e il successo, allontanandosi ogni passo di più da ciò che, suo malgrado, rappresenta lui, ovvero Dublino e una vita «piatta e inartistica». Fugge da se stesso il piccolo Chandler, e compie un vero e proprio viaggio: attraversando Dublino se ne allontana, vola a Londra, come la povera Eveline nella sua stanza attraversa l’oceano e vola a Buenos Aires.

Una piccola, flebile speranza tremola come un lumicino sull’orizzonte della mente del piccolo Chandler: non è ancora vecchio, ha solo trentadue anni (è coetaneo di Lenehan, altro grande fallito di Gente di Dublino nel racconto Due galanti) e la sua personalità è giunta alla piena maturazione. Sottopone la propria anima a un’attenta valutazione per comprendere se sia effettivamente l’anima di un poeta il piccolo Chandler, e individua la nota dominante del proprio carattere nella malinconia, ma una malinconia mitigata, smorzata e addolcita dalla fede, dalla rassegnazione e dalla gioia. Ecco, se riuscisse a dare voce a questa nota in un volume di poesie, qualcuno forse lo ascolterebbe, si riconoscerebbe nei suoi versi e attorno a sé si formerebbe un «piccolo cenacolo di anime affini». Sogna in grande il piccolo Chandler, immagina i giudizi entusiastici dei critici:

“I versi del Chandler hanno il dono della leggerezza e della grazia”… “Una profonda mestizia pervade queste poesie”… “Una tipica espressione celtica” [6].

Peccato che il suo nome non risuoni ancor più irlandese. Ma una soluzione forse c’è. Potrebbe aggiungere il nome della madre al suo: Malone. Thomas Malone Chandler. Meglio ancora: Th. Malone Chandler. Chissà cosa ne pensa Gallaher. Lui se ne intende di queste cose.

Il piccolo Chandler è immerso a tal punto nelle proprie fantasie da superare Corless. Torna indietro ed entra nel locale con timore, dopo aver indugiato davanti all’ingresso. È confuso il piccolo Chandler, dall’abbagliante scintillio dei bicchieri di vino colorati e dagli sguardi dei presenti, puntati tutti su di lui, o almeno così gli sembra. Superato l’iniziale smarrimento individua finalmente l’amico, Ignatius Gallaher, «appoggiato di schiena al banco e piantato a gambe larghe». Soltanto un uomo di successo può assumere una postura simile da Corless, peraltro con il cappello in testa. Un uomo di successo e anche un po’ cafone, potrebbe pensare qualcuno, ma questi sono dettagli.

È invecchiato Ignatius Gallaher. Sul suo testone i capelli si sono diradati, il suo volto ha un pallore malaticcio, attenuato dall’azzurro cupo degli occhi, le sue labbra sono larghe, molto larghe, «informi e scolorite». Gallaher porta impressi sul viso i segni di una vita frenetica, la vita del giornale, «che ti distrugge». Beve whiskey liscio, mentre il piccolo Chandler lo allunga abbondantemente con l’acqua. Non beve molto il piccolo Chandler, che non è cambiato d’una virgola, come nota subito Gallaher:

Sei la stessa identica persona che mi faceva le prediche la domenica mattina, quando avevo la testa che mi scoppiava dal dolore e la lingua impastata [7].

Dovrebbe vedere un po’ di mondo il piccolo Chandler, che a trentadue anni non si è mai spinto oltre l’isola di Man. Dovrebbe andare a Londra e a Parigi, che Gallaher ha girato da cima a fondo. Ah, Parigi… Non esiste città al mondo «che possa batterla per allegria, movimento, animazione».

È deluso il piccolo Chandler. Il tono di Gallaher e il suo modo di esprimersi non gli piacciono. C’è qualcosa di volgare nell’amico, che prima non c’era, nonostante la povertà e le pessime abitudini. Deve essere l’effetto della turbolenta vita londinese, del caos metropolitano e della rivalità tra i giornali, che ti rendono un cinico pescecane. Ma nonostante le impressioni negative, che comunque non intaccano il fascino emanato da Gallaher, il piccolo Chandler guarda l’amico con invidia. In fin dei conti lui vive, gira il mondo, è un protagonista della festa della vita, mica come il piccolo Chandler, che se ne sta in disparte con le sue aspirazioni frustrate e osserva da lontano gli altri vivere.

Gallaher continua a parlare di Parigi, dove tutto è allegro (certo, come no) e del divertimento fanno una «filosofia di vita». Le parigine poi… Come le parigine, per stile e portamento, non ne esistono. Con «tono pacato da storico» Gallaher realizza un quadro della corruzione europea, di cui ha un’esperienza diretta, senza risparmiare aristocratici e religiosi. Scoprendo che l’immoralità non conosce distinzioni, né di ambiente né di ceto sociale, il piccolo Chandler resta sbalordito. All’estero accadono cose che a Dublino non è possibile neppure immaginare. Gallaher mostra al piccolo Chandler il bagaglio culturale acquisito durante i suoi viaggi nelle grandi capitali europee. Un bagaglio ricco, non c’è che dire. Una collezione di episodi incresciosi davvero invidiabile, che scandalizza il piccolo Chandler.

Mentre in questi otto anni Gallaher ha girato l’Europa in lungo e in largo, ha vissuto e visto cose che i dublinesi non possono neanche immaginare, il piccolo Chandler non si è mai allontanato dalla sua città (tranne la gita all’isola di Man) e ha messo su famiglia, si è sposato e ha avuto un bambino. Gallaher si congratula con lui, ma rifiuta l’invito di essere suo ospite. Magari l’anno prossimo. Sarebbe stato bello, per il piccolo Chandler, mettersi in mostra con la moglie, esibire davanti a lei un amico come Ignatius Gallaher, forse un po’ volgare, ma celebre, una «figura di primo piano della stampa londinese» e profondo conoscitore dei costumi delle grandi capitali europee. Peccato.

È accaldato ed eccitato il piccolo Chandler. I tre piccoli whiskey allungati con l’acqua gli sono andati alla testa e il sigaro che gli ha offerto Gallaher gli ha annebbiato la mente. Rivedere Ignatius Gallaher dopo otto anni, da Corless, circondato da luci e rumori, condividere la vita «trionfale ed errabonda» dell’amico turba «l’equilibrio della sua natura sensibile». Nella testa del piccolo Chandler scatta qualcosa. Sente «acutamente la diversità tra la sua vita e quella dell’amico» e la trova ingiusta. È la piccola rivolta del piccolo Chandler, di cui abbiamo notato delle avvisaglie già nel suo cammino per le misere strade di Dublino: Gallaher gli è inferiore «sia per nascita che per educazione», e se solo ne avesse l’occasione, farebbe «qualcosa di ben più elevato che una mera e pacchiana attività giornalistica», qualcosa di artisticamente rilevante, apprezzato da tutti. Cosa glielo impedisce? La sua dannata timidezza, ecco cosa! Quella timidezza «disgraziata» che rende complesso e doloroso persino un acquisto in un negozio d’abbigliamento! Il piccolo Chandler vorrebbe «rivendicare la propria personalità» e mostrare di essere anche lui un vero uomo. Ora comprende, il piccolo Chandler, cosa si nasconde dietro al rifiuto di Gallaher di essere suo ospite:

Gallaher si era solo degnato di concedergli un po’ della sua amicizia, così come si era solo degnato di concedere una visita all’Irlanda [8].

Ferito e offeso nel profondo, il piccolo Chandler reagisce, tira fuori gli artigli e cambia atteggiamento, afferra il quarto bicchiere di whiskey con decisione e provoca l’amico. Prima o poi accadrà anche a lui, anche al grande Ignatius Gallaher, di farsi mettere nel sacco da una ragazza, eccome se accadrà. Gallaher, punto nel vivo, si difende, dichiarando che se mai dovesse accadere, non sarà certo per amore, «roba che sa di rancido, dopo un po’», ma per denaro. Il piccolo Chandler scuote la testa…

II

È tornato a casa in ritardo il piccolo Chandler. Per di più ha dimenticato di ritirare in negozio il caffè per Annie, sua moglie. È molto arrabbiata Annie, ha risposto al marito a monosillabi ed è andata lei stessa a comprare il caffè. Ora è solo il piccolo Chandler, con il suo bambino addormentato tra le braccia. Osserva una foto di Annie il piccolo Chandler. Gli occhi e il viso della moglie sono graziosi, certo, ma il piccolo Chandler vi trova qualcosa di meschino:

Da dove veniva quell’aria così altezzosa, da gran signora? L’impassibilità di quegli occhi lo irritava. Lo respingevano e lo provocavano: non trasmettevano nessuna passione, nessuna emozione. Gli vennero in mente le cose che Gallaher gli aveva raccontato a proposito di quelle riccone ebree. Quegli occhi orientali, pensava, così traboccanti di passione, di voluttuoso desiderio!… E lui, perché invece aveva sposato quegli occhi lì, nella fotografia? [9]

Si ribella al proprio matrimonio, insoddisfacente e fallimentare come tutti i matrimoni dei Dubliners [10], il piccolo Chandler, e ai mobili che lo circondano, pagati a rate, e alla propria casa, e alla propria vita, nei confronti della quale inizia a provare un «cupo risentimento»… Non è proprio possibile fuggire da quella casa e iniziare una nuova vita, avventurosa come quella di Gallaher? In fondo ha soltanto trentadue anni. Ah, se solo riuscisse a scrivere e pubblicare un libro… Non ci sarebbero più ostacoli per il piccolo Chandler. Meglio leggere Byron:

Tacciono i venti ed è immota la sera,
Non un alito fra i cespugli vaga,
Mentre alla tomba di Margaret io vo
A sparger fior sulle ceneri amate [11].

Che versi malinconici! Sarebbe capace lui, il piccolo Chandler, di scrivere qualcosa di simile, di così bello e triste? Quante cose vorrebbe descrivere… a quante sensazioni vorrebbe dare forma e voce… Ma ecco che il bambino si sveglia e inizia a piangere. Prova a tranquillizzarlo il piccolo Chandler, dondolandolo tra le braccia, ma peggiora le cose. Proseguire nella lettura di Byron gli è impossibile:

Inutile. Non riusciva a leggere. Non riusciva a far nulla. Le strilla del bambino gli perforavano i timpani. Era inutile, inutile! Sarebbe stato un prigioniero a vita [12].

Esasperato e rabbioso, il piccolo Chandler si china sul volto del bambino e gli grida di smetterla. Il bambino grida ancora più forte. Terrorizzato, il piccolo Chandler se lo stringe al petto con forza. Annie, rientrata a casa, strappa il bambino dalle braccia del marito, che per un istante riesce a sostenere lo sguardo furioso della donna, ma notando in esso un odio profondo sente il suo cuore stringersi in una morsa dolorosa. Annie consola il bambino, lo tranquillizza, mentre il piccolo Chandler arrossisce di vergogna e si ritrae dalla luce della lampada, mentre i suoi occhi si riempiono di lacrime di rimorso.

Come prevedibile, la piccola rivolta del piccolo Chandler si risolve in un nulla di fatto, generando soltanto uno sgradevole micro-dramma familiare. La piccola nube si scioglie in un piccolo e inutile temporale. È destinato a restare prigioniero della propria vita «piatta e inartistica» il piccolo Chandler, ennesima vittima di quella paralisi sociale, culturale, morale e spirituale di cui Dublino è il centro.

NOTE

[1] Per un approfondimento sul racconto rimando al contributo James Joyce, «Gente di Dublino»: la paralisi di Eveline.

[2] James Joyce, Gente di Dublino, traduzione di Daniele Benati, Feltrinelli, Milano 2021, p. 63.

[3] Ivi, pp. 63-64.

[4] Ivi, p. 65.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, p. 66.

[7] Ivi, p. 68.

[8] Ivi, p. 72.

[9] Ivi, p. 75.

[10] Come scrive Benati, il senso generale del discorso sottinteso a Gente di Dublino, è «illustrare il processo di degradazione della vita spirituale», che «si ravvisa soprattutto nella meschinità che pare governare i rapporti umani, e in particolare quelli protetti dall’istituzione matrimoniale, che paiono essere privi di un qualsiasi valore, se non quello di servire a puntellare una società che altrimenti cadrebbe a pezzi» (Daniele Benati, Una storia curiosa, in James Joyce, Gente di Dublino, cit., p. XLVI).

[11] James Joyce, Gente di Dublino, cit., p. 75.

[12] Ivi, p. 76.

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