Ebbene sì: ho visto da vicino, ho quasi tenuto in mano la possibilità di essere felice per tutta la vita e di colpo tutto è sparito; del resto anche alla lotteria, bastava che la ruota girasse ancora un pochettino e il povero sarebbe diventato ricco. Il destino non ha voluto e basta.
I
Come l’Amleto del distretto di Ščigry, Čulkaturin e Rudin [1], anche Lavreckij, protagonista di Nido di nobili, il secondo romanzo di Turgenev, pubblicato nel 1859 sul «Contemporaneo», è un uomo superfluo, fa parte cioè di quella generazione di giovani degli anni Quaranta dell’Ottocento, anni difficilissimi a causa del regime repressivo di Nicola I, «capaci di entusiasmarsi per gli ideali di libertà e di giustizia che si andavano affermando in Europa, pronti a infervorarsi per quelle idee in lunghe e vibranti discussioni, ma incapaci di realizzarli concretamente nel loro paese, sia per il peso della tradizione sia per la durezza della repressione. Erano giovani “affetti” da un senso di stanchezza, di frustrazione e d’impotenza. La lettura delle opere di Hegel e di Schopenhauer non aveva fatto che accrescere quello stato d’animo d’impotenza. L’impossibilità di agire li spingeva a ripiegarsi su se stessi, ad analizzarsi e a incolparsi per quella situazione» [2].
Ora, questo ritratto generale dell’uomo superfluo varia a seconda dei singoli casi (la critica ne ha fatto una definizione universalmente valida nell’ambito della letteratura russa dell’Ottocento, alla quale ricondurre personaggi molto diversi tra di loro, come Onegin, Pečorin, Oblomov, l’uomo del sottosuolo ecc. [3]). Nel caso di Lavreckij, la precoce spossatezza ha ragioni sentimentali: il tradimento della moglie lo ferisce nel profondo e gli avvelena l’esistenza. Scoperta casualmente l’infedeltà di Varvara Pavlovna, Lavreckij si separa dalla consorte, lascia Parigi, dove si era trasferito dopo il matrimonio, e torna in Russia, nelle proprietà avite. Eppure, a vederlo, quest’omaccione di trentacinque anni deluso e ferito dalla vita, non sembra una «vittima del destino» (al contrario di Lemm, uno dei personaggi più riusciti del romanzo, vecchio insegnante di musica, compositore talentuoso, persino geniale, profondo conoscitore della propria arte, ma nato sotto una cattiva stella): il suo volto, «tipicamente russo», esprime la «salute della steppa» e una «forza solida, invincibile». È l’origine contadina della madre che si palesa nell’aspetto di Lavreckij, forgiato inoltre dalla bizzarra educazione spartana impartitagli dal padre. Sono i suoi occhi azzurri, nei quali spicca una «nota pensierosa, una sorta di stanchezza», e la sua voce, che risuona «monotona», a rivelarne la sofferenza.
Il tradimento della moglie sgretola l’illusione di felicità nella quale viveva Lavreckij, gli recide le palpebre e, al tempo stesso, lo svuota e inaridisce: lo scetticismo, quello scetticismo stimolato in giovinezza dagli illuministi, s’insinua definitivamente in lui, accompagnato da un’indifferenza profonda, che non risparmia niente e nessuno. Immerso nella quiete della campagna russa, ritrovata finalmente dopo la sbornia parigina, Lavreckij si adegua senza troppe difficoltà alla lentezza della vita campestre, scivolando in una condizione di apatia dalla quale tenta di scuoterlo con violenza Michalevič, suo ex compagno d’università (a causa del matrimonio Lavreckij non ha potuto concludere gli studi, iniziati troppo tardi; uno dei tanti sacrifici fatti per amore di una donna, Varvara Pavlovna, bellissima, certo, ma infida e calcolatrice, concentrata tutta nel proprio ego smisurato, inesauribilmente assetato di mondanità).
II
Poeta irriconosciuto, impiegato nell’ufficio privato di un ricco appaltatore di bettole, in qualità di «uomo colto», povero, ma non avvilito, non disperato, idealista irriducibile impensierito dai destini dell’umanità e del tutto indifferente alla miseria, come un filosofo cinico, Michalevič definisce Lavreckij un «pigro», e un pigro colpevole, perché consapevole:
I pigri inconsapevoli se ne stanno sulla stufa senza far niente, perché non sanno far niente, non pensano a niente; invece tu sei uno che pensa e però te ne stai sdraiato; tu avresti potuto fare qualcosa e non fai niente, te ne stai sdraiato con la pancia piena all’aria e dici: è così che dev’essere, perché qualunque cosa facciano gli uomini sono tutte sciocchezze, inezie che non portano a nulla [4].
Sorretto dalla fede, quella fede rinnegata in gioventù, secondo lo spirito liberale dell’epoca («Quel che prima adoravo, diedi alle fiamme ardenti / Quel che prima bruciavo, pentito, recuperai» [5], scrive in conclusione della sua ultima opera, un poema che racchiude le sue convinzioni più profonde), Michalevič esorta Lavreckij a reagire, a scuotersi dal colpevole torpore nel quale è sprofondato, a spezzare la cortina di scetticismo che lo avvolge, a purificarsi nel «crogiolo dei propri guai», come ha fatto lui stesso, e agire, occupandosi delle condizioni dei duemila servi della gleba alle sue dipendenze, per esempio, migliorandole, rendendole meno disumane. Ma Michalevič è abbastanza intelligente e sensibile da comprendere che soltanto «una qualche creatura pura, celestiale» potrebbe scuotere Lavreckij dalla sua apatia, infondergli un nuovo slancio vitale e una nuova fiducia in se stesso, nell’umanità, nella vita. Prima di andare via, Michalevič lascia in eredità all’amico tre parole, tre ideali: «religione, progresso, spirito di umanità». Una visione filosofica che rappresenta una sorta di sintesi della tradizione russa e dello spirito liberale di stampo europeista.
III
La «creatura pura, celestiale» invocata da Michalevič è Liza, giovane di diciannove anni figlia di una cugina di Lavreckij, la frivola, vuota, melodrammatica Marija Dmitrievna (come suona ironico quel nome, Marija, associato a una simile donna!). Pervasa dal «senso del dovere» e dal «timore di offendere chicchessia», Liza ha un cuore «buono e mite», ama tutti, ma nessuno in particolare, soltanto verso Dio prova un amore pieno, totale, entusiastico e dolce. Educata alla fede dalla bambinaia Agaf’ja, Liza nutre un profondo sentimento religioso, che le permette di mantenere intatta la propria verginale purezza e la protegge dalla superficialità del suo ambiente. Liza non ha un grande ingegno, non legge molto, non ha parole proprie, come dichiara lei stessa, ma propri pensieri e segue una propria via, senza mai domandare agli altri cosa fare. Secondo lei ognuno deve essere cristiano «non per conoscere il celeste… che so… o il terrestre… ma perché ognuno deve morire» [6]. La fede non è per Liza una questione speculativa, filosofica, non è un mezzo di conoscenza, ma una speranza, l’unica vera speranza a disposizione dell’uomo dinanzi al terribile destino di morte che lo attende.
Verso Liza, immagine di purezza e autenticità che risplende con forza nel corrotto e falso contesto nobiliare, Lavreckij prova da subito un affetto istintivo, che muta presto in amore. «Parlo con lei come se non fossi un uomo finito», pensa Lavreckij, che ogni giorno di più sente il bisogno di comunicare a Liza tutto ciò che ha nell’anima. Quando lo fa, lei lo ascolta con attenzione e gentilezza. Grazie a Liza, alla sua presenza, alla sua comprensione, Lavreckij si rende conto di poter ancora vivere, di non essere stato rovinato del tutto dalla moglie e finalmente si scuote, ritrova la vitalità perduta: difende l’indipendenza della Russia dalla smania occidentalista di Panšin, elegantone pietroburghese che corteggia Liza, reclama il riconoscimento dei diritti, il loro rispetto, dichiara di essere tornato in patria per lavorare la terra, e lavorarla nel miglior modo possibile. Lavreckij ritrova l’ardore ideologico e la volontà di agire, di realizzare concretamente le proprie idee e cambiare le cose, che lo animavano in gioventù, negli anni universitari, e ciò grazie all’amore per quella «creatura pura, celestiale» che è Liza.
IV
La notizia della morte della moglie, letta su una rivista francese, convince Lavreckij a farsi avanti, nonostante i comprensibili dubbi (rimettere il proprio cuore e la propria anima nella mani d’una donna, alla sua età, lo preoccupa non poco). Liza rifiuta Panšin e accoglie l’amore di Lavreckij (la giovane scopre che è possibile amare un uomo come si ama Dio, interamente e con entusiasmo), ma l’idillio dura poco, giusto il tempo di una notte: Varvara Pavlovna non è affatto morta e il suo inatteso ritorno sgretola di colpo i sogni d’amore e di felicità del protagonista e di Liza.
Lavreckij, distrutto, vaga per le vie della città, senza meta, «il cuore lacerato e la testa vuota, come intontita», dove turbinano «pensieri cupi, assurdi, rabbiosi» [7]. Sente di aver perduto Liza, la vede allontanarsi, disperdersi dal suo cuore, dalla sua vita e la bile lo soffoca. Si rimprovera con asprezza per aver creduto con troppa facilità alla chiacchiere di una stupida rivista francese e, tormentato dall’immagine della moglie, dalla sua voce, dai suoi sguardi, dai suoi gesti teatrali, maledice se stesso e il mondo intero. Lavreckij è in trappola. Liza, dal canto suo, accusa se stessa per aver nutrito «speranze delittuose»; il «crollo improvviso del suo destino» la sconvolge nel profondo e, sebbene Varvara Pavlovna le ispiri un profondo «sentimento di disgusto», si ritiene colpevole dinanzi a lei. Al culmine della delusione e della sofferenza, Liza si rifugia nella fede e rivela la sua vocazione al sacrificio, all’espiazione dei peccati propri e altrui (personalmente, trovo numerose affinità tra il personaggio di Turgenev e la goethiana Ottilia, dall’esistenza fatta più di gesti e di sguardi che di parole, al sacrificio finale: nessuna delle due è di questo mondo [8]): chiede a Lavreckij di riconciliarsi con la moglie e decide di entrare in monastero. Liza si ritira così da quella vita che, compiuto appena il primo passo, l’ha ferita nel profondo e irrimediabilmente. Lavreckij esaudisce la richiesta di Liza, si riconcilia con Varvara Pavlovna, la accoglie di nuovo in casa, ma la convivenza dura poco, anche perché Varvara Pavlovna non aveva affatto bisogno del perdono del marito, implorato teatralmente in ginocchio, con le lacrime agli occhi, ma soltanto di denaro.
V
Perduta Liza, Lavreckij si dedica davvero alla terra: la lavora con le proprie mani e migliora la condizione dei suoi contadini. Lo ritroviamo diversi anni dopo, ormai quarantacinquenne, e il suo pensiero finale è per la gioventù russa, finalmente libera dal regime repressivo di Nicola I:
Giocate, divertitevi, crescete, giovani forze […] avete la vita davanti, e per voi sarà più facile: non dovrete, come noi, cercarvi la vostra strada, lottare, cadere, rialzarvi in mezzo al buio; noi ci siamo preoccupati unicamente di salvare noi stessi e quanti di noi non ci sono riusciti! Voi invece dovrete svolgere il vostro compito, lavorare e la benedizione di noi vecchi sarà con voi [9].
Con l’ascesa al trono di Alessandro II, il Liberatore, nel 1855, ben altri orizzonti si spalancano dinanzi alla gioventù russa, orizzonti di libertà e giustizia, ed è proprio all’insegna di questa fiducia nel futuro che si conclude il romanzo, ampliando il proprio respiro ben al di là della sommessa vicenda sentimentale che narra e abbracciando la storia.
VI
Lavreckij è probabilmente il meno superfluo tra gli uomini superflui, e non solo quelli di Turgenev, ma della letteratura russa dell’Ottocento in generale. Separatosi per sempre da Liza, mantiene la promessa fatta a se stesso nel momento più cupo della sua vita: stringere i denti e tacere, dominarsi, rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro. Le idee di Lavreckij non restano lettera morta, ma si traducono in azione ed egli migliora davvero le condizioni di vita dei suoi contadini. Duemila anime su ventidue milioni: un piccolo, anzi, piccolissimo passo, ma pur sempre un passo.
Inoltre, il fallimento sentimentale di cui è protagonista non è tanto dovuto alle sue mancanze, alle sue debolezze, come nel caso di Rudin, restando nell’ambito turgheneviano, oppure di Onegin e Oblomov, ampliando lo sguardo, ma al destino, un destino crudele che non lascia scampo e lo condanna alla solitudine e all’infelicità. Destino che assume le sembianze affascinanti e al tempo stesso disgustose di Varvara Pavlovna:
Ebbene sì: ho visto da vicino, ho quasi tenuto in mano la possibilità di essere felice per tutta la vita e di colpo tutto è sparito; del resto anche alla lotteria, bastava che la ruota girasse ancora un pochettino e il povero sarebbe diventato ricco. Il destino non ha voluto e basta [10].
Frutto di un equivoco dovuto all’inesperienza, all’ingenuità, all’innaturale e assurdo isolamento nel quale ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza, il matrimonio di Lavreckij è una trappola dalla quale è impossibile fuggire, un errore irrimediabile che rende l’esistenza del protagonista come incompiuta, dimezzata. «Tutto è morto», sentenzia Lemm dopo la ricomparsa di Varvara Pavlovna. La sensazione è che niente sia mai nato.
NOTE
[1] Per un approfondimento su questi personaggi rimando ai contributi Ivan Turgenev, «Memorie di un cacciatore»: un viaggio nella vecchia Russia. Seconda parte, Ivan Turgenev, «Diario di un uomo superfluo»: la triste storia di Čulkaturin, Ivan Turgenev, «Rudin»: nient’altro che parole. Prima parte, Seconda parte.
[2] Damiano Rebecchini, Introduzione a Ivan Turgenev, Nido di nobili, Rizzoli, Milano 2022, pp. 8-9.
[3] Per un approfondimento su questi personaggi rimando ai contributi Aleksandr Puškin, «Evgenij Onegin»: il coraggio di rinunciare. Prima parte, Seconda parte, «Un eroe del nostro tempo»: la terribile diagnosi di Lermontov, Ivan Gončarov, «Oblomov» ovvero l’uomo superfluo. Prima parte, Seconda parte, Fëdor Dostoevskij, «Memorie dal sottosuolo»: la malattia della consapevolezza. Prima parte, Seconda parte, Terza parte.
[4] Ivan Turgenev, Nido di nobili, traduzione di Erica Klein, cit., p. 128.
[5] Ivi, p. 126.
[6] Ivi, p. 137.
[7] Ivi, p. 181.
[8] Per un approfondimento sul personaggio goethiano rimando al contributo Goethe, «Le affinità elettive»: il cieco dominio del destino. Prima parte, Seconda parte, Terza parte.
[9] Ivan Turgenev, Nido di nobili, cit., p. 236.
[10] Ivi, p. 206.