11. Quello che ci spetta
In Gente di Dublino (Dubliners, 1914) Joyce trova «intere le sue basi»: è il narratore (Svevo scrive, meravigliosamente, «raccontatore») «impersonale che non trascura nulla, né dimentica una linea o un colore. I suoi personaggi si possono toccare». Certo, a volte si toccano come i passanti che in strada c’impediscono il passaggio e ricordiamo soltanto se ci pestano un piede, ma «molte creature del Joyce camminao così e ci fanno del male». Se i racconti di Maupassant racchiudono «un destino intero nel guscio di una noce», nei racconti di Joyce «entra nel guscio quella parte di un destino che vi comprende», e l’abilità, la «virtuosità» dello scrittore irlandese è tale «che non si sente lo strappo e si pensa di aver avuto quello che ci spetta» [1].
I racconti di Joyce sono lezioni alle quali non possiamo ribellarci e che non si dimenticano facilmente. Nessuno è così innocente da non sentirsi chiamato in causa. Nessuno ha la coscienza così pulita da potersi permettere di dire: «Io non c’entro».
12. Al rogo
Accettati e ammirati in Francia e in Italia, i Dublinesi, come li chiama Svevo, nel mondo anglosassone provocano uno scandalo che culmina con il rogo del libro da parte dell’editore Maunsel: le fiamme e la distruzione sono il rifugio degli ipocriti. È sempre quello che nega, quello che s’indigna e strepita, si strappa le vesti come Caifa, ad avere la coscienza più sporca.
Joyce, ferito nel profondo (per uno scrittore veder bruciare il proprio libro è come veder bruciare il proprio figlio), si vendica distribuendo nel proprio paese «su un foglio volante dei versi in cui faceva parlare l’editore il quale confessava di aver pubblicata una guida ferroviaria del tutto inadoperabile. Mirava al cuore del commerciante che nel cuore lo aveva ferito» (XIV).
Naturalmente predisposto al riso, come il suo personaggio più noto e importante, Zeno Cosini (Alfonso Nitti ed Emilio Brentani non sanno ridere, e proprio da questa incapacità di ridere, di se stessi e della vita, che, pur essendo una malattia sempre mortale, non è bella né brutta, ma originale, nascono i loro drammi individuali [2]), Svevo confessa di aver trovato sempre molto divertente l’indignazione di Joyce:
Scrive nel modo che tutti sanno ed in inglese, e si meraviglia. Ciò dimostra la sua perfetta buona fede (ibidem).
Joyce scrive come scrive perché questo è il suo modo di scrivere, di esprimersi, di vivere. Non c’è malignità, non c’è calcolo, non c’è pornografia nel vero senso della parola, nelle sue opere.
13. Un’autobiografia artistica
Il Ritratto dell’artista da giovane (A Portrait of the Artist as a Young Man, 1916) [3] non è un’autobiografia, come non lo è neppure quella di Goethe, Poesie e Verità, che pure avrebbe voluto esserlo, perché quando l’«artista ricorda, subito crea»: è questa la sua grandezza. Chiunque lo conosca sa che il Joyce che si lava tutti i giorni non è Stephen Dedalus, «il bardo sucido che quando vede gli altri lavarsi e grattarsi pensa: “Tentano di raggiungere la propria coscienza”». Dedalus è «sboccato», diciamo pure volgare, mentre Joyce tiene al decoro espressivo e a Svevo, che si permette uno scherzo audace, risponde: «Io non dico mai di coteste cose benché le scriva». «Pare dunque non si possano leggere le sue opere in sua presenza» (XV), commenta Svevo, ironico e tagliente come sempre.
Nonostante queste differenze esteriori tra autore e personaggio, il Ritratto è e resta l’autobiografia del Joyce artista. Se non fosse così saremmo costretti a pensare che nella stessa epoca a Dublino «s’annidasse un altro artista della stessa levatura»: piuttosto inverosimile. Inoltre, è proprio con lo pseudonimo di Stephen Dedalus che Joyce firmò i suoi primi lavori: una «confessione».
14. Una prefazione
Se non fosse così perfettamente compiuto, il Ritratto potrebbe essere inserito nell’Ulisse come un suo capitolo. Dell’Ulisse il Ritratto è una prefazione e, in quanto tale, senza conoscere la storia dell’evoluzione, dello sviluppo spirituale, artistico e intellettuale del giovane Dedalus non è possibile comprendere appieno il romanzo successivo. Le due opere sono legate indissolubilmente, fin quasi a formarne una sola.
15. Un giovane lacerato
Di Dedalus Svevo sottolinea la contraddizione, la lacerazione: soffre «di dover ritenere che priva di fede l’umanità non possa essere considerata altro che un allevamento di animali sudici» e lotta, lotta con se stesso tentando di colmare il doloroso vuoto lasciato dalla fede (Dio è morto, ovunque, anche a Dublino, è un fatto, e un fatto è un fatto al di là della consapevolezza). Sorta di moderno Faust, studia filosofia, medicina, scienze naturali, ma invano:
La sua anima cattolica colorirà tutto del suo colore e la contraddizione striderà o (raramente) canterà, ma non s’acquieterà giammai (XVIII-XIX).
Il «miscredente» Dedalus utilizza il linguaggio appreso dai credenti e, al tempo stesso, pare che bestemmi: «È il suo destino». Destino di lacerazione e dissonanza.
16. Un ribelle disciplinato
L’Ulisse (Ulysses, 1922) dimostra che Joyce ama imporre alla propria ispirazione delle «catene». Lui, «il fantasta e il ribelle è il vero maestro della disciplina, una disciplina fantasta e ribelle» (XX).
17. Dalla parodia al dramma
Eroe conosciuto e amato sin dalla prima giovinezza, «nel periodo della sua maggior forza creativa» Joyce realizza il sogno di «trapiantare il furbo figlio di Laerte nel mondo moderno». Forse all’inizio Joyce immaginò di farne una parodia, ma oggi «è un dramma a sé». Le «adesioni» che restano rispetto al mito, queste sì sono accompagnate da «risate omeriche»:
Ulisse rispettò gli Dei e amò la famiglia come fa l’ebreo Bloom, ma soggiornò troppo a lungo sull’isola di Circe e lungo tempo impiegò per ritornare fra le braccia di sua moglie proprio come Bloom che per arrivare a casa sua passa per la parte più sconcia della città (ibidem).
18. Attraverso la vita
Gli episodi dell’Ulisse potrebbero costituire dei racconti indipendenti, se non fossero legati in una «ferrea unità di tempo», 19 ore del 16 giugno 1904, giorno del primo appuntamento di Joyce con la moglie Nora (l’Ulisse è l’anti-Recherche), e se in ognuno di essi non agisse almeno uno dei due protagonisti, Bloom e Dedalus, «veicoli che ci portano traverso alla città o più esattamente traverso alla vita» (XXI).
19. Padri e figli
Numerosi avvenimenti legano gli episodi, il più importante dei quali, che lega l’intero romanzo, è la scoperta del sentimento filiale di Dedalus per Bloom e di quello paterno di Bloom per Dedalus. Scoperta resa possibile dalla morte del figlio di Bloom e dall’insoddisfazione di Dedalus per il proprio genitore biologico, Simon, «tale che la sua esistenza vale anch’essa a spiegare la disperazione nella vita ch’è il suo destino». Un genitore è sempre responsabile del destino del proprio figlio, nel bene come nel male, ma soprattutto nel male. Come se non bastasse averlo messo al mondo. Ma nel legame tra Bloom e Dedalus incide anche la lingua, dunque la cultura: «L’ebreo e l’irlandese sono i due popoli della lingua morta» (ibidem). In entrambi i casi si è verificato uno sradicamento, una perdita, un’esclusione, un trauma.
20. Il teschio scoperchiato
Bloom e Dedalus camminano per le strade di Dublino con il «teschio scoperchiato». È qui dentro che leggiamo, qui dentro che «passa una parte importante della vita»:
Il presente frazionato come la luce da un prisma, il passato quando ancora duole o quando si può riderne o quando come un lampo risorge per ripiombare nella nera notte. La scienza e la storia nel teschio di Dedalo, nel teschio di Bloom anche la scienza e la vita quale può sentirla il lettore assiduo di giornali com’è lui ch’è un acquisitore di pubblicità (XXII).
21. L’anti-Recherche
L’autore non c’è più, è scomparso, è morto, come Dio, e il romanzo muta in dramma. Anche per questo motivo, oltreché per la concentrazione temporale, l’Ulisse è l’anti-Recherche, l’altro vertice letterario del Novecento [4]. Proust s’impone come l’autore-creatore per eccellenza, fa di se stesso Dio (nella Recherche Dio non è mai nominato non perché non esista, ma perché è ovunque e ha un nome e un cognome: Marcel Proust), Joyce invece si smaterializza, si disperde nei pensieri dei propri personaggi, muore in essi, in un trionfo dell’impersonalità senza precedenti e di fatto ineguagliabile. Nel lettore ciò genera, com’è naturale, un forte senso di straniamento, quasi di disagio: leggere l’Ulisse è come ascoltare le chiacchiere in strada, a pezzi, a brandelli, non conosciamo chi parla e non comprendiamo cosa dice. Di Marcel invece sappiamo tutto: siamo suoi genitori, fratelli, amici, amanti, figli. No, come avverte Svevo, «non è per un lettore sbadato» l’Ulisse.
22. Il superuomo dai denti guasti
Dedalus cammina per le vie di Dublino superbo, il bastone in mano, «un superuomo attenuato dall’autoironia, il superuomo dai denti guasti e privo dei denari per il dentista». Ma appena si isola, ecco che lo spettro della madre lo tormenta [5]. Il rifiuto d’inginocchiarsi accanto a lei moribonda, di pregare con lei lo rode nel profondo, lo svuota e lo intacca come un maledetto tarlo. Dedalus è vittima del rimorso (in quel rifiuto non c’è soltanto la feroce, spietata coerenza del personaggio, è come se egli non riuscisse a perdonare la madre, neppure in punto di morte, di averlo messo al mondo). La madre gli appare e, muta, il corpo già semidistrutto, lo rimprovera; prega per lui e lo incita a pregare. Dedalus la implora di andare via, di lasciargli vivere la propria vita – invano. Dedalus si ribella (la rivolta è l’essenza della sua persona, della sua natura, della sua vita, della sua arte, come lo è della persona, della natura, della vita e dell’arte di Joyce) allo spettro della madre e ai propri ricordi, troppo precisi e nitidi, che fanno così male, e nella protesta si serve di tutta la propria sapienza, ricorrendo al francese e al latino:
È tragico d’essere un miscredente quando il cielo resta tuttavia popolato dai santi magari convertiti in esteti e la nostra atmosfera è occupata dagli spettri (XXIV).
23. Il degno compagno
Protagonista del «poema», Bloom è il «degno compagno» di Dedalus, «intero» e «importante» come lui, ma più fresco, perché nuovo. Mentre Dedalus si è evoluto dal Ritratto all’Ulisse, Bloom è «nato tutto qui». Lo amiamo persino di più, secondo Svevo, e «desta la nostra compassione meglio che il dotto e arrogante» Dedalus. Ad ogni modo, i due si somigliano molto, sembrano parenti. In entrambi, per esempio, il sogno è più forte della realtà, ma se in Dedalus «quando non è un’ossessione è un’attività intensa del filosofo e del poeta», in Bloom «è un riposo ch’egli ricerca ed ama ed in cui s’adagia come nel sonno». In Dedalus è estetica, in Bloom evasione e desiderio, puri e semplici. Umani.
24. La vita stessa
Svevo dedica le ultime battute della sua Conferenza al rapporto tra Joyce e la psicanalisi. Ma sarebbe meglio chiamarlo non-rapporto, perché l’opera di Joyce non ha alcun legame con la psicanalisi. Nel 1915, anno in cui lascia Trieste, la ignora, e i suoi lavori, Ulisse compreso, sono già nati. La scopre a Zurigo e ad essa si ribella, in «una di quelle sue fiere ribellioni con cui si scuote da sé quello che impaccia il suo pensiero».
No, non sono un «vanto della psicanalisi» le opere di Joyce, non sono sformate da una scienza meticolosa, ma tagliate «vigorosamente da una viva ispirazione». Le opere di Joyce «sono la vita stessa, ricchissima e sentita e ricordata con l’ingenuità di chi l’ha vissuta e sofferta» (XXIX).
NOTE
[1] Italo Svevo, Conferenza su Joyce, citato in James Joyce, Gente di Dublino, Feltrinelli, Milano 2021, p. XIV. D’ora in avanti il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[2] Per un approfondimento sui protagonisti dei tre romanzi sveviani rimando ai contributi i Italo Svevo, «Una vita»: la rinuncia di Alfonso Nitti alla vita ovvero alla lotta, Italo Svevo, «Senilità»: la giovinezza postuma di Emilio Brentani. Prima parte, Seconda parte, La coscienza di Zeno: originalità e malattia della vita.
[3] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo «Non serviam»: lo sviluppo di Stephen Dedalus nel «Ritratto dell’artista da giovane» di James Joyce. Prima parte, Seconda parte.
[4] Per un rapido approfondimento sull’opera rimando al contributo Marcel Proust, «Dalla parte di Swann»: l’ouverture della «Recherche». Prima parte, Seconda parte.
[5] Per un approfondimento sul significato della donna, in particolar modo della madre, nel romanzo rimando al contributo L’Ulisse di Joyce: amor matris.