Turgenev in un ritratto fotografico di Nadar

Ivan Turgenev, «Rudin»: nient’altro che parole – Seconda parte

4. La confessione di Rudin

Colpito nel profondo dalle accuse, dalle offese di Natal’ja, di cui ci siamo occupati nella prima parte di questo contributo, Rudin rimprovera se stesso, si colpevolizza con asprezza per essersi mostrato così meschino e insignificante agli occhi dell’ardente fanciulla. Decide di partire, di lasciare per sempre la casa di Dar’ja Michajlovna, prima che sia la padrona di casa a buttarlo fuori come un cane, e scrive a Natal’ja un’importante lettera d’addio, una lunga confessione nella quale finalmente denuda se stesso e confessa il proprio fallimento.

Rudin smette di posare e scrive a Natal’ja a cuore aperto, senza rettorica (attenzione, non che egli menta nei suoi discorsi, semplicemente le sue parole restano soltanto parole, vuote chiacchiere, belle lettere morte che si diffondono e infine disperdono nel nulla). Il protagonista confessa alla fanciulla di non averla conosciuta, forse di non averci neanche provato a conoscerla, dunque di non averla compresa, e di averla amata di un amore immaginario, cerebrale, intellettuale, astratto:

Come dimostrarvi che potrei amarvi di vero amore, con l’amore del cuore e non della immaginazione, quando nemmeno io so se sono capace di un simile amore? [1]

Ma soprattutto Rudin, per la prima volta nella sua vita, confessa la propria sconfitta e il proprio fallimento esistenziali, la propria incapacità di azione, la propria inadeguatezza e inabilità alla vita:

Sì, la natura mi ha dato molto, ma io morirò, senza aver fatto niente di degno delle mie forze, senza lasciare dietro di me alcuna traccia benefica; tutta la mia ricchezza sarà spesa inutilmente: non vedrò i frutti dei miei semi. Mi manca… nemmeno io posso dire che cosa mi manca… Mi manca probabilmente proprio quella qualità che ci fa capaci di muovere i cuori degli uomini e di impadronirci del cuore di una donna; la signoria soltanto delle menti è instabile ed inutile. Strano, quasi comico il mio destino: io mi do tutto con avidità, interamente e nello stesso tempo non posso darmi. Finirò col sacrificarmi per una sciocchezza in cui non avrò neppure fede… Dio mio! a trentacinque anni prepararsi ancora a far qualche cosa!… [2]

Rudin, che sperava di aver trovato finalmente un porto sicuro, una meta nella quale trovare pace, dichiara di riprendere il proprio «doloroso vagabondaggio per il mondo» (l’erranza è una delle caratteristiche principali dell’uomo superfluo, e si pensi a Onegin e Pečorin, anime vagabonde, raminghe, incapace di trovare un posto nel mondo), e ammette di aver avuto paura delle responsabilità:

No! io resterò sempre quell’essere incompiuto, che sono stato fin adesso… Al primo ostacolo io sono subito venuto meno; ciò che è passato tra noi me lo dimostra. Se almeno facessi sacrificio del mio amore alla mia opera futura, alla mia vocazione! ah no! io mi sono semplicemente spaventato della responsabilità che cadeva su di me [3].

Rudin parla a Natal’ja di vocazione, ma qual è la sua vocazione? La superfluità, l’inutilità, l’inadeguatezza, la solitudine, l’erranza, essere e restare per sempre la «quinta ruota del carro», come si definisce Čulkaturin [4].

5. Apologia di Rudin

Ležnev, diventato nel frattempo marito e padre, corregge il tiro rispetto al suo precedente j’accuse: Rudin la freddezza non ce l’ha nella testa, ma nel sangue; non è un attore, né un imbroglione e non vive a spese degli altri come un intrigante, ma come un bambino. D’accordo, egli morirà in un posto lontano, sperduto, nel bisogno e nella miseria, ma è forse una colpa questa? Non concluderà mai nulla, perché in lui non c’è natura (è questo un punto fondamentale, Rudin è innaturale, riflessivo, premeditato e astratto in tutto), ma chi può dire con certezza che egli non abbia mai portato un beneficio? che le sue parole non abbiano sparso semi positivi nei giovani? Giovani ai quali, al contrario di Rudin, la natura non ha negato la forza dell’attività e la capacità di seguire, di attuare i propri progetti.

Secondo Ležnev, che si lancia in una vera e propria, calorosa apologia di Rudin (Aleksandra Pavlovna è diventata sua moglie, dunque non ci sono più rischi per lui), la più grande disgrazia del protagonista è la mancata conoscenza della Russia:

La disgrazia di Rudin è ch’egli non conosce la Russia, e questa è veramente una grande disgrazia. La Russia può fare a meno di ognuno di noi, ma nessuno di noi può fare a meno di essa. Guai a chi pensa ciò; doppi guai a chi realmente ne fa meno. Il cosmopolitismo è un’assurdità, il cosmopolita è zero, meno di zero; fuori della nazionalità non c’è né arte, né verità, né vita, non c’è niente [5].

Parole sorprendentemente dostoevskiane (analizzando il personaggio di Onegin nel suo celebre Discorso su Puškin, Dostoevskij evidenzia proprio, tra le altre cose, il suo sradicamento [6]). Ma Rudin non ha colpe in tutto ciò, «è il suo destino, il suo destino amaro e duro», per il quale non merita biasimo. Punirlo, condannarlo sarebbe ingiusto, disonesto, anche perché «egli si è punito da sé e molto più crudelmente di quanto meritasse…» [7]. Sì, l’uomo superfluo è sempre il primo e più terribile carnefice di se stesso.

6. Un uomo coerente

Nell’Epilogo del romanzo ritroviamo Rudin alcuni anni dopo, invecchiato, curvo, bianco. Dai suoi occhi spenti, dai movimenti incerti e incoerenti, contraddittori, dal modo di parlare freddo e intermittente, traspare una «stanchezza definitiva», congiunta alla sua consueta, romantica tristezza, ultimo retaggio della sua giovinezza.

Ležnev, che lo incontra in un albergo di provincia e lo accoglie con amichevole calore, vuole sapere cosa ha combinato negli ultimi anni. Rudin risponde di aver sofferto molto e di aver vagabondato non solo con il corpo, ma anche con l’anima. Gli ultimi anni della sua vita sono stati lastricati di delusioni e di sentimenti contrastanti, l’impazienza, l’indifferenza, l’allegria, l’umiliazione.

Tutta la vita di Rudin è una delusione: sembra che la vita si sforzi continuamente d’ingannare, di confutare, di mostrare l’impossibilità e l’assurdità delle sue aspettative. Aspettative che egli, suo malgrado, non può cambiare, non può abbassare e adeguare alla miseria degli uomini e alla natura anti-romantica dei russi. Le aspettative di Rudin sono fatte forse per l’Europa, per la Germania romantica patria di Goethe e Schiller, di Faust e Karl Moor, per Heidelberg e Berlino, non certo per la Russia e Mosca (in fondo Mosca è quella grassa mercantessa che pesa più d’un quintale nella quale sogna d’incarnarsi il diavolo d’Ivan Karamazov [8]). Così egli, nonostante tutti i tentativi, innumerevoli e fallimentari, si ritrova sempre «leggero e nudo nello spazio vuoto».

Rudin racconta a Ležnev di aver tentato persino di diventare un uomo d’affari. Lui, Rudin, un uomo d’affari!? Bella questa! Esilarante! Ma come non ha potuto comprendere lui, così intelligente, che non era affar suo diventare un uomo d’affari? domanda Ležnev. «Lo so, fratello mio», risponde Rudin (i due sono tornati all’antico, studentesco, cameratesco tu), «ma del resto, che cos’è affar mio?», e in queste parole arrese il protagonista dimostra di essere ormai perfettamente consapevole della propria inadeguatezza, della propria inutilità. Ma quando mai la consapevolezza rasserena un uomo?

L’ultimo tentativo, dunque l’ultimo fallimento dal quale egli è reduce, riguarda l’insegnamento. Rudin riesce a farsi assumere in un ginnasio, come professore di Letteratura russa, ma anche in questo caso si spinge troppo oltre, sogna e pianifica «riforme radicali»… Il riformatore Rudin infastidisce i colleghi, in particolar modo l’insegnante di matematica, che ordisce una vera e propria congiura contro di lui, una congiura che naturalmente va a buon fine, ma alla quale il protagonista tenta di reagire, senza però ottenere nulla:

[…] non mi rassegnai e volli mostrare che con me non si poteva agire in tal modo… Ma con me si poteva agire in qualunque modo… Ora devo andarmene via [9].

Povero Rudin, in tutta la sua vita maltrattato come un vecchio e inutile straccio! Che farci? Niente… È questo il suo triste destino. Come scrive Čulkaturin, secondo un’espressione attribuibile a tutti gli uomini superflui, la natura non ha previsto la sua comparsa, la sua nascita [10]. E gli uomini, e la vita glielo ricordano spietatamente a ogni passo:

[…] io sono pienamente e nel più profondo senso della parola un uomo bene intenzionato; mi sottometto, voglio adattarmi alle circostanze; desidero pace, voglio raggiungere una meta vicina, portare un beneficio anche minimo. No! non riuscirò! Cosa vuol dir questo? Che cosa m’impedisce di vivere e di agire come gli altri… Ora non sogno che questo. Ma non appena riesco ad essere in una posizione determinata, a fermarmi su un punto preciso, ecco che il destino mi spinge via… Ho cominciato a temerlo, il mio destino… [11]

A Rudin ormai non resta altro da fare che ritirarsi in campagna, in quel che resta della sua misera, infruttuosa proprietà («due anime e mezzo»), e lì attendere la fine:

C’è un angolo dove morire. Tu forse pensi in questo momento: «anche qui non ha potuto fare a meno d’una frase!». La frase, è vero, mi ha rovinato, mi ha perduto; sino alla fine non ho potuto disfarmene. Ma ciò che ho detto non è una frase. Non sono una frase, fratello, questi capelli bianchi, queste rughe; questi gomiti logorati non sono una frase. Tu sei stato sempre severo verso di me, e sei stato giusto; ma non serve più la severità quando tutto è già finito, quando non c’è più olio nella lampada e la lampada stessa è infranta; ancora un attimo solo e il lucignolo cesserà di ardere… La morte, fratello, deve riconciliare in ultimo… [12]

Ležnev consola Rudin e riconosce la sua coerenza, persino ammirandola. Rudin ha avuto l’occasione, e più d’una, di stabilirsi per sempre presso ricchi proprietari, di godersi liberamente la loro ricchezza, ma all’agiatezza, alla sicurezza, a un letto e al pane quotidiano ha sempre, sempre anteposto l’idea, o meglio, l’ideale, e l’amore per la verità, che in lui arde più forte che in tutti gli altri. Rudin non ha mai accettato compromessi, come dimostra il suo ultimo tentativo, non si è mai svenduto, non ha mai barattato le sue idee per un pezzo di pane oppure per un letto di piume, no, e questo gli va riconosciuto, in ciò è la sua grandezza. Nonostante gli innumerevoli e dolorosi fallimenti Rudin non si è mai fermato, non si è mai arreso, non ha mai gettato la spugna e non ha mai smesso di credere nella verità e in se stesso. Rudin e Oblomov nascono dalla stessa radice, la superfluità [13], ma il primo non conosce ozio, non conosce pigrizia, lotta strenuamente contro il destino e l’intera Russia per affermare se stesso e il proprio pensiero, guadagnando soltanto miseria e dolore. Come nota giustamente Ležnev, un altro al suo posto sarebbe morto da un pezzo:

Hai fatto quanto hai potuto, hai lottato finché hai potuto… Che si può voler di più? [14]

D’accordo, Rudin ha fallito, sempre, continuamente, perché fallire è il suo destino, la sua missione, ma ha lottato, sempre, e non è poco.

Rudin non muore nella sua misera tenuta di campagna dispersa nell’immensa provincia russa, ma a Parigi, il 26 luglio 1848, colpito da un tiratore di Vincennes dritto al cuore, mentre in cima a una barricata agita una bandiera rossa e una sciabola storta e spuntata. Una conclusione, come dire, un po’ così, che non rende piena giustizia al romanzo e, più che una lacrima, suscita un ironico sorriso. Ma forse era proprio questo lo scopo di Turgenev.

NOTE

[1] Ivan Turgenev, Rudin, traduzione di Ettore Lo Gatto, Mursia, Milano 2022, p. 88.

[2] Ibidem.

[3] Ivi, p. 89.

[4] Ivan Turgenev, Diario di un uomo superfluo, traduzione di Alessandro Niero, Voland, Roma 2011, p. 82.

[5] Ivan Turgenev, Rudin, cit., p. 98.

[6] «Egli non ha alcuna base; è un filo d’erba in balia del vento» (Fëdor Dostoevskij, Discorso su Puškin, traduzione di Ettore Lo Gatto, in Id., Diario di uno scrittore, Bompiani, Milano 2010, p. 1272).

[7] Ivan Turgenev, Rudin, cit., p. 99.

[8] «Il mio più grande desiderio è d’incarnarmi, ma per sempre, senza più tornare indietro, in una grassa mercantessa che pesi più di un quintale, e di avere le sue stesse convinzioni. Il mio sogno è andare in chiesa e accendere una candela con devozione sincera, quant’è vero Iddio. I miei tormenti allora svanirebbero» (Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 622).

[9] Ivan Turgenev, Rudin, cit., p. 111.

[10] «Ci sono persone cattive, buone, intelligenti, sciocche, piacevoli e sgradevoli; ma non… superflue. Cioè, vorrei che mi si capisse: anche di costoro l’universo può fare a meno; ma l’inutilità non rappresenta la loro caratteristica principale, non è il loro tratto distintivo e, quando vi capita di parlare di costoro, ‘superfluo’ non è la prima parola che vi si arrampica sulla punta della lingua. Per quanto riguarda me, invece, altro non si può dire se non: superfluo; e fine del discorso. Una persona in sovrappiù: tutto qua. La natura, evidentemente, non contava sulla mia comparsa e, di conseguenza, mi ha trattato come si fa con un ospite inatteso e incomodo» (Ivan Turgenev, Diario di un uomo superfluo, cit., p. 17).

[11] Ivan Turgenev, Rudin, cit., p. 111.

[12] Ivi, p. 112.

[13] Per un approfondimento sul personaggio rimando al contributo Ivan Gončarov, «Oblomov» ovvero l’uomo superfluo. Prima parte, Seconda parte.

[14] Ivan Turgenev, Rudin, cit., p. 113.

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