Vasilij Perov, Ritratto di Dostoevskij, 1872

Quattordici anni di passione: Dostoevskij nelle «Memorie» della moglie Anna – Terza parte

17. Venticinquemila rubli di debiti

Al rientro in Russia, nel 1871, i debiti dei Dostoevskij sono lievitati a venticinquemila rubli, una cifra enorme, insostenibile per una famiglia che vive di letteratura. Ora, gran parte di questi debiti non sono di Dostoevskij, ma del fratello Michail, tuttavia, nella loro crescita esponenziale, inarrestabile lo scrittore ha le sue responsabilità: del tutto privo di senso pratico e dotato di un’ingenua fiducia negli uomini, Dostoevskij firma cambiali a chiunque dichiari di avere dei debiti con il fratello, e in molti approfittano di questa sua debolezza. A ciò si aggiunga il totale disinteresse degli amici, o presunti tali, che hanno compassione di lui, ma «solo a parole», come scrive Anna con amarezza, che a causa dei debiti vede la sua salute e la sua giovinezza distrutte per sempre. Soltanto un anno prima della morte dello scrittore i Dostoevskij, grazie all’impegno quotidiano di Anna, ai suoi sacrifici e alla sua scaltrezza in campo editoriale, riusciranno a estinguere interamente i debiti.

La continua, impellente necessità di denaro costringe Dostoevskij a scrivere in fretta le sue opere, tradendo spesso l’idea che ne sta alla base. Molti critici lo accusano di essere troppo complicato e confuso, caotico, grossolano, di non avere una forma artistica pura, curata, pulita come Turgenev e Tolstoj. Le opere di Dostoevskij nascono in condizioni estreme e ciò rivela tutta la sua grandezza: pensate cosa avrebbe creato se avesse potuto scrivere con calma e serenità! Ma forse è proprio questa frenesia nervosa, questa tensione permanente, questa incessante corsa contro il tempo, che si riflette nelle sue opere e nei suoi personaggi, che contribuisce a rendere grandiosi i suoi testi. Dostoevskij ha scritto soltanto un libro senza l’acqua alla gola, il primo:

In tutta la sua vita, Fëdor Michajlovič non scrisse mai un romanzo, eccetto il primo, Povera gente, senza doversi affrettare e pensando punto per punto al piano dell’opera. Il destino non volle accordargli questa fortuna, che per lui restò sempre un sogno [1].

I Dostoevskij vivono davvero alla giornata, senza un orizzonte futuro. Anna è costretta a impegnare quotidianamente degli oggetti preziosi per tirare avanti, per avere qualcosa da mangiare, e tra le tante sanguisughe non ci sono soltanto i creditori, che minacciano in continuazione di far arrestare lo scrittore, ma anche i parenti: il fratello Kolja, che riceve cinque rubli ogni volta che va a trovare i Dostoevskij, il figliastro Pavel, odioso parassita che vive alle spalle dello scrittore esigendo denaro quasi ogni giorno.

18. Il momento della creazione

All’inverno 1871-1872 risale il celebre ritratto di Dostoevskij realizzato da Vasilij Perov, pittore di grande talento che rappresenta ed eterna lo scrittore nel sacro, quasi misterioso «momento della creazione»:

Tale espressione io l’avevo notata spesso sul viso di Fëdor Michajlovič entrando nel suo studio: sembrava che guardasse dentro di sé. In quei momenti io uscivo dallo studio senza pronunciare parola. Lui era talmente assorto nei propri pensieri, che non mi aveva né visto né sentito, né poi voleva credere che fossi entrata nella sua stanza [2].

Dostoevskij guarda dentro di sé e trova l’uomo.

Vasilij Perov, Ritratto di Dostoevskij, 1872

19. Il cipresso

Nell’estate del 1874 Dostoevskij si reca a Ems per ragioni di salute. A causa del poco denaro a disposizione rinuncia all’idea di andare a Parigi, dove è stato per quasi un mese durante il suo primo viaggio in Europa, nell’estate del 1862, ma non a quella di tornare a Ginevra per visitare la tomba della sua piccola Sonja:

A Ginevra andò due volte al cimitero, mi portò alcuni rami del cipresso cresciuto in quei sei anni sulla tomba della bambina [3].

20. Alëša

Anna porta al collo un medaglione con due ritratti, quello del marito e quello della sua prima bambina, Sonja. Sonja che non resta l’unica vittima tra i figli dei Dostoevskij: il 16 maggio (dannato mese!) 1878 muore anche il piccolo Alëša, l’ultimo nato, stroncato nel giro di poche ore da una crisi epilettica. Per lo scrittore è, naturalmente, un colpo durissimo, aggravato dal fatto che il bambino sia morto a causa di una malattia ereditata da lui:

Fëdor Michajlovič ebbe un profondo dolore per quella morte: amava Alëša in modo particolare, di un amore quasi morboso, come se avesse il presentimento che dovesse perderlo presto. E il bambino era morto di epilessia, malattia ereditata dal padre [4].

Mentre Anna, distrutta, sprofonda nella disperazione, diventando indifferente a tutto e a tutti, persino al marito e ai figli, Dostoevskij parte per l’eremo di Optina, insieme al filosofo Vladimir Solov’ëv, suo giovane e caro amico, dove incontra il celebre starec Amvrosij, che incarica lo scrittore di portare la sua benedizione ad Anna, mater dolorosa.

È bello pensare che nella scelta del nome del più giovane dei Karamazov, l’autentico protagonista del romanzo, Dostoevskij abbia omaggiato il suo bambino [5].

21. Tormenti

Quanto Anna, e i bambini, e la società russa siano diventati necessari per Dostoevskij, lo dimostrano le lettere cupe e tormentose che egli scrive da Ems, dove si è recato per curare l’enfisema, nell’estate del 1879. Lo scrittore non riesce più a sostenere la solitudine, che lo angoscia a tal punto da fargli dichiarare che i lavori forzati sono meglio di quella condizione di isolamento in terra straniera. A ciò si aggiunga il ricordo dolorosissimo del fratello Michail, stimolato dalla morte della moglie Emilja:

Domani mi resteranno precisamente due settimane da passare in assoluto silenzio, perché non è più una solitudine, ma un assoluto silenzio. Non so più parlare, parlo con me stesso come un pazzo… [6]

E ancora:

La solitudine mi ha reso molto sospettoso e mi sembra di vedere in tutto e in tutti il male e la tristezza, senza alcuna speranza. La mia tristezza è indescrivibile. Ho dimenticato come si fa a parlare e sono stupito quando, per caso, dico una parola ad alta voce. Sono già quattro settimane che non sento la mia stessa voce [7].

Impensierito dalle sue precarie condizioni di salute, Dostoevskij dichiara ad Anna di pensare «sempre» alla morte, ma di pensarci «seriamente», come di una realtà imminente: la fine si avvicina. Almeno è impegnato nella scrittura dei Fratelli Karamazov, ai quali affida il proprio nome:

Ora ho da pensare ai Fratelli Karamazov, che bisogna finire bene. Bisogna che io ne faccia un’opera d’arte, ed è molto difficile. Questo lavoro per me è fatale: dovrà affermare il mio nome, altrimenti non ci sarà più speranza per me [8].

22. Minuti d’immensa felicità

Nel maggio del 1880 Dostoevskij si reca a Mosca per partecipare alle celebrazioni in onore di Puškin organizzate in occasione dell’inaugurazione del monumento dedicato al grande poeta. Lo scrittore pronuncia il suo celebre Discorso su Puškin, apprezzato da tutti, slavofili e occidentalisti, compreso Turgenev, suo acerrimo rivale. È il momento di maggiore soddisfazione professionale nella vita di Dostoevskij, che, al culmine della gioia e dell’esaltazione, nonostante la stanchezza si reca in piena notte ai piedi del monumento innalzato a Puškin e vi depone una corona d’alloro:

Mi raccontò, tra l’altro, di come era ritornato dalla seconda e ultima serata, con la quale si erano concluse le manifestazioni puškiniane, terribilmente stanco ma anche felicissimo dell’accoglienza entusiastica che gli aveva riservato il pubblico di Mosca nel congedarsi da lui. Distrutto, si era coricato per riposare ma poi, a tarda notte, si era recato di nuovo al monumento. La notte era tiepida ma le strade erano quasi deserte. Arrivato in piazza, aveva sollevato con fatica l’enorme corona di alloro che gli era stata offerta dopo il suo discorso e l’aveva deposta ai piedi della statua del suo grande maestro, inchinandosi fino a terra davanti a lui. La sincera contentezza al pensiero che, finalmente, la Russia aveva compreso e apprezzato l’alto valore del genio di Puškin e gli aveva elevato un monumento nel cuore del Paese, a Mosca, la gioiosa consapevolezza che lui, fin dalla gioventù fervido lettore del grande poeta popolare, aveva avuto la possibilità di rendergli omaggio col suo discorso, e infine l’ebbrezza dovuta alle ovazioni che il pubblico aveva tributato al suo stesso talento, tutto questo aveva donato a Fëdor Michajlovič, come disse, «minuti di immensa felicità». Mentre mi raccontava le sue sensazioni di quei giorni, aveva un aspetto ispirato, come se stesse rivivendo quei momenti indimenticabili [9].

C’è una foto scattata da Panov in quegli entusiasmanti giorni moscoviti, che riproduce l’espressione di Dostoevskij nei momenti di massima felicità.

Dostoevskij ritratto da Panov

23. L’ultima gioia

Il successo dei Fratelli Karamazov, pubblicati nel dicembre del 1880 in edizione separata, è l’ultimo avvenimento felice della vita di Dostoevskij, «così piena di sofferenze di ogni genere».

24. Non trattenermi

Sul letto di morte, Dostoevskij prega Anna di prendere il Vangelo, quello stesso Vangelo regalatogli trent’anni prima, a Tobolsk, mentre si recava ai lavori forzati, dalla moglie del decabrista Armenkov e da sua figlia Olga, dal quale lo scrittore non si è mai separato, di aprirlo e di leggere le righe che le capitano sotto gli occhi. Anna apre il Vangelo di Matteo al capitolo terzo e legge il seguente passo: «Ma Giovanni lo trattenne e disse: io devo essere battezzato da te e non tu da me. Ma Gesù gli rispose: non trattenermi…». «Senti, Anja», la interrompe Dostoevskij, certo di morire quel giorno stesso, «”non trattenermi” vuol dire che devo morire» [10]. Anna scoppia a piangere e Fedja – è così che lei chiama affettuosamente il marito, ed è così che lo chiamiamo noi ora, perché in punto di morte Dostoevskij è semplicemente Fedja -, la consola, le fa coraggio, ringraziandola per la vita felice vissuta al suo fianco ed esortandola ad avere fiducia in se stessa, nelle proprie capacità di prendersi cura dei bambini, di crescerli, di amarli, di proteggerli. «Poi», aggiunge Anna, «mi disse ciò che pochi mariti possono dire alla moglie, dopo una vita coniugale di dodici anni: “Ricordati, Anja, ti ho sempre amato molto e non ti ho tradito neanche col pensiero…”» [11].

Dostoevskij muore il 28 gennaio 1881, verso le otto di sera, dopo sessant’anni di sofferenze d’ogni tipo. Il suo volto è sereno, non sembra che sia morto, ma che stia dormendo. Sembra persino sorridere, come se sognasse.

Ivan Kramskoj, Dostoevskij sul letto di morte, 29 gennaio 1881

25. Il respiro di Dostoevskij

Tutti parlano ad Anna del significato dell’arte del marito, delle sue nobili idee e della grave perdita subita dalla Russia. Ma ad Anna, disperata, erosa da un dolore inesprimibile, senza nome, cosa importa della Russia?

Mi disperavo e mi chiedevo: ma che cos’è per me la perdita della Russia, quando io ho perso l’uomo migliore del mondo, la mia gioia, il mio orgoglio, il mio sole, il mio dio? Abbiate compassione di me, e non parlatemi della Russia in simili momenti [12].

L’amore esiste, esiste davvero, e queste parole lo testimoniano. Anna giura a se stessa di vivere soltanto per i figli e di dedicare il resto della vita alla diffusione delle idee del marito e alla celebrazione della sua memoria. Anna manterrà la promessa, pubblicando ben sette edizioni delle opere complete di Dostoevskij e mantenendo vivo il suo respiro, come testimonia il celebre attore Leonidov:

Ho visto e ascoltato “qualcosa” che non assomiglia a nient’altro al mondo ma, attraverso questo “qualcosa”, attraverso questo incontro durato dieci minuti, attraverso la sua vedova ho sentito Dostoevskij: cento libri su di lui non mi avrebbero dato tanto, quanto questo incontro. Ho avvertito attorno a me il suo respiro, il respiro di Dostoevskij [13].

Un respiro che si ritrova anche nelle Memorie di Anna Grigor’evna, nata Snitkina, coniugata Dostoevskaja.

NOTE

[1] Anna Grigor’evna Dostoevskaja, Dostoevskij mio marito, a cura di Luigi Vittorio Nadai, Castelvecchi, Roma 2014, pp. 248-249. Per un approfondimento sul primo romanzo dello scrittore rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Povera gente»: la nascita del genio.

[2] Ivi, p. 255.

[3] Ivi, p. 304.

[4] Ivi, p. 366.

[5] Per un approfondimento sul personaggio rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso. Capitolo ottavo – Alëša, il midollo dell’universale.

[6] Anna Grigor’evna Dostoevskaja, Dostoevskij mio marito, cit., p. 382.

[7] Ivi, pp. 382-383.

[8] Ivi, p. 383.

[9] Ivi, pp. 403-404.

[10] Ivi, p. 416.

[11] Ibidem.

[12] Ivi, p. 420.

[13] Citato in Sergej Belov, Vladimir Tunimanov, Introduzione a Anna Grigor’evna Dostoevskaja, Dostoevskij mio marito, cit., p. 7.

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