2. La scoperta dell’assurdo
2.1. L’annegata
La vita meravigliosa di Clamence si spezza, si strappa di colpo una notte di novembre, sul lungosenna. È l’una e c’è poca gente in giro, anche a causa della pioggia. Tornando a casa Clamence, come al solito felice e pago di sé, passa dietro a una figura femminile, che si sporge sul parapetto. La nota, ne scorge, o meglio intuisce la bellezza, e la supera. Dopo una cinquantina di passi, ecco il tonfo sordo nell’acqua, seguito da un grido terribile, ripetuto, che scende il fiume, riecheggia nella quiete della notte parigina, squarciandola, e poi si spegne all’improvviso, come inghiottito dal nulla. Clamence vorrebbe correre, tornare indietro, soccorrere la donna, ma è inchiodato a terra; dice a se stesso di sbrigarsi, di fare in fretta, ma una «debolezza irresistibile» lo pervade e irretisce. Resta fermo, immobile, in ascolto, quindi se ne va, lentamente, sotto la pioggia, senza avvisare nessuno. «Troppo tardi, troppo lontano», pensa.
Questo terribile episodio incrina le certezze di Clamence, che precipita dalle sue virtuose altezze: si comportano forse così superuomini e predestinati, ammesso che esistano? Clamence delude se stesso e conosce il senso di colpa. Una macchia, destinata ad allargarsi a dismisura, come un morbo, sporca la sua coscienza, sino a quel momento immacolata, dinanzi a sé e agli altri. Clamence perde la propria innocenza, o almeno la convinzione della propria innocenza, e inizia a temere di essere giudicato, di cadere sotto i colpi dell’«insopprimibile vocazione» degli uomini:
Le confiderò un grande segreto, mio caro. Non aspetti il Giudizio universale. Avviene tutti i giorni [1].
Stando così le cose, il grandioso affresco di Michelangelo (associazione banale, ma inevitabile, almeno per quanto riguarda il sottoscritto) si configura non più coma una straordinaria rappresentazione della parusia, ma della vita e della condizione umana.

Clamence scopre non solo di essere uguale a quegli uomini che tanto disprezza e che dominava dalle sue irreprensibili vette, ma di essere persino peggiore di molti di loro. La sua vita «riuscita» non è che un’illusione, una menzogna, e questa improvvisa, lacerante consapevolezza genera in lui una profonda crisi esistenziale che finirà per travolgere e sconvolgere tutto. Niente, da quella notte di novembre, sarà più come prima.
2.2. La risata
Accanto all’episodio dell’annegata, che rivela la ragione del singolare voto di Clamence annunciato in apertura del romanzo, si colloca, nel traumatico processo di consapevolezza del protagonista, la risata, quella risata che egli sente per la prima volta sul Pont des Arts, proprio mentre il suo cuore è colmo di una «grande sensazione di potenza e, diciamo così, di compiutezza». Clamence sente ridere dietro di sé e si volta, ma non c’è nessuno. Il suo cuore si sgonfia di colpo e inizia a battere affannosamente, come se qualcosa lo minacciasse, sebbene quella risata non risulti affatto misteriosa e inquietante, anzi: «era una bella risata, spontanea, quasi amichevole, che rimetteva le cose a posto» (26). È la coscienza di Clamence, finalmente risvegliata, che ride di lui, della sua menzogna, di quella «sensazione di potenza» ridicola, smentita dai fatti. Clamence non ha più scampo: l’«eterna risata» lo tormenta, agisce su di lui come una vera e propria chiamata, costringendolo anzitutto, per la prima volta nella sua vita, a vedere chiaramente dentro di sé. Fino a questo momento Clamence si è sempre e solo guardato, come ci si guarda superficialmente allo specchio, soddisfatto di sé, del proprio aspetto piacente e della propria condotta virtuosa, come ogni Narciso che si rispetti. Ma ora è giunto il momento di rivolgere lo sguardo dentro di sé, di spingerlo in profondità e scoprire la propria natura.
2.3. La crisi
Clamence inizia così a studiare se stesso e, dopo essersi esaminato a lungo, scopre la «duplicità profonda della creatura umana». Comprende che la modestia lo «aiutava a brillare, l’umiltà a vincere e la virtù a opprimere». Clamence ha sempre fatto la guerra, sebbene con «mezzi pacifici», e, mostrandosi disinteressato, ha sempre ottenuto ciò che desiderava. Insomma, dietro la facciata delle sue virtù si nasconde un rovescio decisamente meno nobile, in cui domina incontrastato l’egoismo. Clamence si avvede che per lui la vita non ha mai avuto niente di serio e che egli si è sempre limitato a recitare la propria parte nel miglior modo possibile. Vive in mezzo agli uomini, d’accordo, ma senza condividerne gli interessi, e non ha mai creduto a nessuno degli impegni presi: tutto fa parte della rappresentazione, della commedia, stando alla risata che Clamence sente riecheggiare dentro e attorno a sé, niente di più.
Ma il tormento più grande di Clamence in quell’epoca di crisi, di lacerazione e rivolgimento interiore, è il pensiero della morte, quel pensiero terribile che, scrive Camus nel Mito di Sisifo, precipita l’uomo finalmente consapevole del proprio destino mortale nell’assurdo [2]:
Contavo gli anni che mi separavano dalla fine. Cercavo esempi di uomini della mia età che fossero già morti. Ed ero tormentato dall’idea che non avrei fatto in tempo a portare a termine il mio compito. Quale compito? Non lo sapevo (57).
La consapevolezza della propria morte distrugge il più grande desiderio di Clamence, e di ogni uomo incosciente, in fondo, l’immortalità, ed egli è terrorizzato dall’idea di morire senza aver confessato, a un amico oppure a una donna amata, tutte le proprie menzogne:
se nella vita si fosse celata anche una sola bugia, la morte l’avrebbe resa definitiva. Nessuno avrebbe mai più conosciuto la verità (57-58).
Il malessere di Clamence cresce di giorno in giorno, la morte non lo lascia più, diventa la sua fedele, inseparabile compagna, e i complimenti degli altri, che prima lo appagavano tanto e lo facevano salire, salire, salire… ora gli diventano odiosi. Definitivamente consapevole della falsità e dell’assurdità della propria vita, costruita su un basamento di bugie e ipocrisie andato finalmente distrutto per sempre, Clamence non sopporta le immeritate lodi, che accrescono a dismisura la menzogna, rischiando di renderla irreversibile.
2.4. La reazione
Clamence reagisce in maniera scomposta: inizia a odiare gli oppressi per i quali si prodigava tanto, ciechi, orfani, vedove; maledice pubblicamente lo spirito umanitario; fa allontanare i mendicanti dai ristoranti; loda davanti a tutti il disumano proprietario russo che frusta i suoi contadini, sia quelli che lo salutano che quelli che non lo salutano, indistintamente; scandalizza i filosofi umanisti di professione con le sue bestemmie; scrive inni alla polizia e alla ghigliottina. Clamence si sforza di distruggere quel «bel manichino» che, prima della scoperta della propria colpevolezza e dell’assurdo, esibiva ovunque con disinvoltura, incantando tutti. In una conferenza per giovani avvocati, dopo gli straordinari elogi del presidente del collegio forense, prende la parola e getta via la maschera, definendosi un «cittadino-sole quanto all’orgoglio, un capro di lussuria, un faraone nella collera, un re della pigrizia». Tutti scoppiano a ridere, credendolo uno scherzo.
La strategia di auto-denigrazione, chiamiamola così, non porta Clamence da nessuna parte. Disorienta, certo, l’opinione pubblica, ma non la disarma, non gli reca alcun sollievo e, soprattutto, non placa la risata, che continua ad aleggiargli intorno e a fargli male, con quella particolarissima nota di benevolenza e di tenerezza che la caratterizza. No, non è questa la via. Clamence decide allora di lasciare la società degli uomini e di rifugiarsi dalle donne, presso le quali ha sempre avuto un enorme successo, interpretando il ruolo di amante ideale (sempre e solo amante, mai compagno o marito, perché Narciso non può amare nessuno all’infuori di se stesso e se ricorre alla conquista è soltanto per saziare il proprio egoismo, la propria fame di potenza, oltreché le esigenze carnali, naturalmente). Per la prima volta nella vita, Clamence si impegna in qualche relazione, ma non funziona, non può funzionare: si ama troppo per amare un altro. Clamence abbandona così anche le donne e si getta nella vita dissoluta: puttane e alcol. Questa volta è il suo fisico, spinto quotidianamente al limite, a ribellarsi e mostrargli l’impossibilità della vita dissipata. Ma la dissoluzione si rivela a suo modo utile: «Ogni eccesso riduce la vitalità, quindi la sofferenza» (68). Clamence s’illude di aver superato la crisi, torna a una vita più o meno regolare, ma ecco che, a bordo di un transatlantico, la vista di un grosso punto nero nell’oceano lo riporta di colpo a quella terribile notte di novembre sul lungosenna. È soltanto un rifiuto, ma Clamence ha pensato subito a un annegato:
Capii allora, senza rivolta, come ci si rassegna a un’idea di cui si conosce da tempo la verità, che il grido che anni prima aveva riecheggiato sulla Senna, dietro di me, non aveva mai smesso, portato dal fiume verso le acque della Manica, di andare per il mondo, attraverso la distesa sconfinata dell’oceano, e lì mi aveva aspettato fino al giorno in cui l’avevo incontrato. Capii anche che avrebbe continuato ad aspettarmi sui mari e sui fiumi, ovunque infine ci fosse stata l’acqua amara del mio battesimo (70).
Clamence comprende di non essere ancora guarito e di trovarsi, di fatto, in trappola. Possibile che non ci sia un modo per far tacere quel grido e quella risata che gli riecheggiano dentro avvelenando tutto?
2.5. Tutti colpevoli
È l’idea della colpevolezza di tutti gli uomini, tutti, nessuno escluso, che permette a Clamence di superare la crisi e di riabilitarsi alla vita, ma una vita completamente diversa dalla precedente, una vita assurda:
non possiamo sostenere l’innocenza di nessuno, mentre possiamo sostenere a colpo sicuro la colpevolezza di tutti. Ogni uomo testimonia il crimine di tutti gli altri, è questa la mia fede e la mia speranza (71).
È questo il modo di Clamence di adattarsi all’«universo ardente e gelato, trasparente e limitato, dove nulla è possibile, ma tutto è dato; e dopo il quale vi è lo sprofondamento e il nulla» [3], che si spalanca dinanzi all’uomo assurdo.
Nessun uomo è innocente, neppure Cristo, e Clamence individua la ragione della sua morte proprio nella consapevolezza della propria colpa. Ma di cosa è colpevole Cristo? Della strage degli innocenti, avvenuta per causa sua, seppur involontariamente:
E la tristezza che si avverte in tutti i suoi atti non era forse l’inguaribile malinconia di chi udiva notte dopo notte la voce di Rachele che piangeva i suoi bambini e rifiutava ogni consolazione? Il lamento si levava nella notte, Rachele chiamava i figli uccisi per causa sua, e lui era vivo! (72-73)
Cristo non riesce a sostenere il peso della propria colpa (una colpa innocente, ma pur sempre una colpa) e così si lascia uccidere, «per non essere più solo a vivere e per andare altrove, là dove forse l’avrebbero sostenuto». In realtà, non solo Cristo non trova alcun sostegno, ma viene persino censurato, dall’evangelista Luca, che cancella il suo grido umano, troppo umano, ribelle e blasfemo, in punto di morte: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È per questo grido, che dimostra come in lui non ci fosse nulla di sovrumano, che Clamence ama Cristo, morto senza sapere, ignaro della terribile verità. Naturalmente, non può mancare un accenno al successivo traviamento del messaggio di Cristo da parte della Chiesa e della società in genere, in nome del quale si giudica e si condanna senza pietà:
In nome del Signore, questo è quello che devi pagare. Il Signore? Non chiedeva tanto, il mio amico. Voleva essere amato, niente di più (74).
La condanna regna ovunque, incontrastata, «sull’innocenza morta pullulano i giudici, i giudici di tutte le razze, quelli di Cristo e quelli dell’Anticristo» (74-75). E poiché tutti gli uomini sono giudici, tutti sono colpevoli l’uno di fronte all’altro, «cristi alla nostra bruttissima maniera, crocifissi uno a uno, sempre senza sapere» (75).
3. Giudice-penitente
3.1. I giudici integri
Clamence conserva nel proprio appartamento veermeriano uno dei pannelli del Polittico dell’Agnello Mistico di Jan e Hubert van Eyck, quello intitolato I giudici integri (il primo a partire da sinistra nel registro inferiore), rubato nella cattedrale di San Bavone, a Gand, nel 1934, e mai più ritrovato.

Il pannello staccato, diviso dal Polittico rappresenta la separazione permanente della giustizia dall’innocenza, separazione che permette a Clamence di esercitare con la coscienza a posto, in tutta serenità, la professione di giudice-penitente. In realtà, sarebbe forse meglio invertire i termini, perché è proprio quello che fa il protagonista: mentre tutti i giudici finiscono per diventare penitenti (ma la separazione della giustizia dall’innocenza interrompe questo processo di redenzione, definiamolo così), Clamence compie il percorso inverso, da penitente si trasforma in giudice, come vedremo tra poco, analizzandone brevemente il metodo.
3.2. La servitù
In passato, quando era un avvocato noto e apprezzato, Clamence parlava per non dire niente. Ora le cose sono cambiate. Sebbene talvolta possa sembrare che si compiaccia della sua stessa eloquenza (in alcuni momenti è più di una semplice impressione), sfociando nel vaniloquio, Clamence parla con uno scopo, che è quello di far tacere la risata e di sottrarsi al giudizio, i suoi tormenti più grandi, dai quali, evidentemente, non è ancora guarito:
Quel che davvero impedisce di evitarlo [il giudizio] non è forse il fatto che siamo noi i primi a condannarci? Occorre quindi cominciare con l’estendere la condanna a tutti, senza distinzioni, così da stemperarla (84).
Mal comune mezzo gaudio, insomma. Siamo colpevoli, certo, e a quanto pare per il semplice fatto di essere venuti al mondo (neanche lo avessimo deciso, di nascere), ma tutti, e questo tutti ridimensiona decisamente la nostra colpa, che, al di là dei singoli crimini, più o meno gravi, appare come una condizione necessaria dell’essere: pecco dunque sono, è questa la nuova formula cartesiana elaborata da Clamence [4].
Nella sua implacabile attività-missione di giudice-penitente, che esercita con un trasporto, un entusiasmo mai provati prima, Clamence non ammette alcuna giustificazione, mai, per nessuno, alcun errore in buona fede, alcun passo falso, alcuna circostanza attenuante. Ascolta, fa il conto e tira le somme, anzi, la somma: pervertito, satiro, mitomane, pederasta, artista ecc. Giudizio lapidario, secco, sparato a bruciapelo, senza se e senza ma. E non esistono altri gradi, non esiste cassazione: l’uomo è ciò che Clamence sentenzia, punto e basta. Non c’è altro. Un approccio tutt’altro che liberale, e infatti il protagonista si dichiara favorevole a tutte le teorie filosofiche e politiche che negano l’innocenza dell’uomo e lo trattano da colpevole:
Lei ha di fronte, mio caro, un sostenitore illuminato della servitù (ibidem).
La libertà è troppo pesante, troppo faticosa da sostenere, soprattutto quando si è soli, il peso dei giorni è «terribile» e conviene scegliersi un padrone. La libertà fa paura, schiaccia e rende solitari, mentre la servitù è collettiva e democratica: mal comune mezzo gaudio, di nuovo. Giunto, con la traumatica scoperta del proprio destino mortale, alla libertà assoluta, la libertà assurda, Clamence si ritrae spaventato, incapace di sostenerne coraggiosamente il peso, e si getta nel suo opposto, tra le braccia rassicuranti della servitù. Clamence incontra il Grande Inquisitore [5] e Šigalëv [6], il più oscuro dei demòni di Dostoevskij.
3.3. Il metodo
Ecco il metodo di Clamence. Anzitutto la confessione: egli accusa se stesso in lungo e in largo, disegnando a poco a poco una maschera, il più possibile generica, nella quale l’interlocutore possa infine specchiarsi. Quindi passa dal singolare al plurale, dall’io al noi: siamo tutti uguali, ci troviamo tutti sulla stessa barca, la barca di Caronte, che naviga nell’inferno della vita, ma io, Clamence, lo so, e questo mi dà il diritto di parlare. Insomma, più Clamence si accusa, più acquisisce il diritto di giudicare l’interlocutore, fino a spingerlo a giudicarsi da sé, a confessarsi, a cadere. È questo il modus operandi del giudice-penitente, di cui il romanzo rappresenta dunque la prima, importantissima fase.
3.4. La felicità assurda
Attraverso l’attività di giudice-penitente Clamence ha raggiunto finalmente la felicità che gli si addice; della sua innata e invincibile duplicità non ha fatto un cruccio, una maledizione, una malattia, ma un’opportunità, accettandola e trovando in essa la propria soddisfazione, quell’«agio» rincorso invano per tutta la vita. Perché la cosa più importante per un uomo non è evitare il giudizio, ma «potersi permettere tutto, anche proclamando talora a gran voce la propria indegnità» (90, corsivo mio). Clamence non è cambiato affatto, è lo stesso di prima, lo stesso di sempre:
Mi permetto tutto, di nuovo, e questa volta sul serio. Non ho cambiato vita, continuo ad amare me stesso e a usare gli altri. Ammettendo le mie colpe, però, posso ricominciare con più leggerezza e godere due volte, prima della mia natura, e poi di un pentimento squisito (ibidem).
Clamence si abbandona a tutto e finalmente regna, regna davvero e «per sempre». Certo, la risata si fa ancora sentire di tanto in tanto, ma lui reagisce annientando «tutto, creature e creazione», sotto il peso della propria «infermità», e subito torna «in forma». Clamence vive per mostrare agli uomini quanto siano «spregevoli», tutti, senza distinzioni:
Non posso farne a meno, né rinunciare a quei momenti in cui uno di loro crolla, in preda all’alcol, e si batte il petto. Allora mi sento ingigantire, carissimo, sempre più, e respiro liberamente, sono in cima alla montagna, la pianura si estende sotto i miei occhi. Che ebrezza sentirsi il Padreterno e distribuire patenti definitive di vita e costumi reprobi. Troneggio fra i miei cattivi angeli, alla sommità del cielo olandese, e dalle nebbie e dall’acqua guardo uscire e salire verso di me la folla del Giudizio universale. Lentamente s’innalzano, già vedo arrivare il primo di loro. Sul volto smarrito, mezzo nascosto da una mano, leggo la tristezza della condizione comune, e la disperazione di non avere scampo. E io compatisco senza assolvere, capisco senza perdonare e soprattutto, ah, sento finalmente di essere adorato! (91)
Giudice severo e implacabile, Clamence fa cadere tutti gli uomini che incontra, uno a uno, e del mondo in cui vive fa il proprio mondo, la propria creazione. L’Europa, l’intera Europa è sottomessa a lui e lui trionfa, felice, perfettamente a proprio agio nella parte di Cristo giudice.

Epilogo. Un falso profeta dell’assurdo
I
L’uomo assurdo non conosce speranza [7]. Non così Clamence, che spera di essere arrestato per il furto dei Giudici integri:
Ecco, adesso che mi parlerà di lei saprò se ho ottenuto uno degli scopi della mia vibrante confessione. Spero sempre, infatti, che il mio interlocutore sia un poliziotto e che mi arresti per il furto dei Giudici integri. Per tutte le altre cose, sa, nessuno può arrestarmi. Quel furto, invece, è punibile per legge e dal canto mio ho fatto il possibile per esserne complice: detengo il quadro e lo mostro a chiunque voglia vederlo (93).
Clamence spera che la giustizia venga finalmente ricongiunta all’innocenza. E poi l’arresto potrebbe condurre, chissà, a una condanna a morte, che finalmente lo libererebbe dalla paura di morire (Clamence, in tutta la sua vita, non ha fatto altro che mettersi in salvo, sempre) e dalla sua ipocrita missione:
Ogni cosa sarebbe consumata, avrei concluso, come se niente fosse, la mia carriera di falso profeta che grida nel deserto e si rifiuta di uscirne (ibidem).
II
La rivolta è l’unico atteggiamento coerente con l’assurdo [8]. Clamence non si ribella al regime della condanna che domina incontrastato nella società borghese, ma si adegua ad esso, trovando in ciò la propria soddisfazione e la propria felicità. Clamence non insorge, ma si compiace di se stesso, sempre, non giunge a una vera redenzione, a una vera purificazione nell’assurdo, ma recita, recita in continuazione la parte del penitente per potersi permettere il diritto di giudicare, di condannare gli altri e fare tutto quello che gli pare. Sono altri i personaggi di Camus che si ribellano, che non si rassegnano al destino schiacciante, al dolore, alla morte dei bambini: Rieux e Tarrou, per esempio, che lottano contro la peste e mettono a repentaglio ogni giorno la propria vita [9], cosa che Clamence ha sempre evitato di fare, innamorato troppo di se stesso per sacrificarsi.
III
L’uomo assurdo vive innumerevoli vite, punta tutto sulla quantità, non sulla qualità [10], mentre Clamence vive in continuazione sempre la stessa vita, schiavo del ricordo.
IV
Camus rimprovera ai pensatori e agli scrittori esistenzialisti (Kierkegaard, Dostoevskij, il Kafka del Castello) di divinizzare l’assurdo e tornare in Dio [11]. Clamence non torna in Dio, ma fa di se stesso Dio, non si accontenta di sedere alla sinistra del Signore, dove i van Eyck, secondo il modello della deesis, collocano Giovanni Battista nel Polittico dell’Agnello Mistico: lui stesso deve essere il Signore, giudice e creatore.
V
Per tutti questi motivi, ai quali si aggiunge il rinnegamento della libertà in favore della servitù illimitata, Clamence, dell’assurdo, è soltanto un falso profeta. Del resto, di profeti, l’assurdo non ha bisogno: è qui, intorno a noi, dentro di noi, gli apparteniamo, nella misura in cui apparteniamo alla morte, tutti, indistintamente. Non la servitù, ma la morte è collettiva e democratica.
NOTE
[1] Albert Camus, La caduta, traduzione di Yasmina Melaouah, Bompiani, Milano 2021, p. 72. D’ora in avanti il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[2] «Alla luce del destino mortale, appare l’inutilità. Nessuna morale, nessuno sforzo sono giustificabili a priori davanti alla sanguinante matematica che regola la nostra condizione» (Albert Camus, Il mito di Sisifo, traduzione di Attilio Borelli, Bompiani, Milano 2020, p. 17. Per un approfondimento sul saggio rimando al contributo Albert Camus, «Il mito di Sisifo»: la grande opportunità dell’Assurdo. Prima parte, Seconda parte).
[3] Ivi, p. 56.
[4] Il concetto di peccato è qui utilizzato come sinonimo di colpa, senza implicazioni semantiche religiose, del tutto assenti nella visione filosofica di Clamence. Lo stesso Cristo è citato esclusivamente nella sua dimensione umana, la sola ammissibile per un uomo assurdo come Clamence, secondo l’esempio di Kirillov.
[5] «Non vi è affanno più tormentoso e continuo per l’uomo, rimasto libero, che il ricercare al più presto un essere di fronte al quale prostrarsi» (Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 265. Per un approfondimento sul grandioso poema di Ivan Karamazov rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso. Capitolo quinto – Ivàn, il nichilista estremo – V-VI).
[6] «Partendo dal principio della libertà illimitata ho dovuto concludere con il dispotismo illimitato» (Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Giovanni Buttafava, BUR, Milano 2006, p. 452. Per un approfondimento sul personaggio rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «I demòni»: del male e della (auto)distruzione. Capitolo quarto).
[7] «Un uomo divenuto cosciente dell’assurdo, è legato a questo per sempre. Un uomo senza speranza, e cosciente di esserlo, non appartiene più all’avvenire» (Albert Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 31).
[8] «una delle sole posizioni filosofiche coerenti è la rivolta, che è un perpetuo confronto dell’uomo e della sua oscurità; che è esigenza di una trasparenza impossibile, e che mette in dubbio il mondo a ogni istante. […] la rivolta metafisica estende la coscienza per tutto il campo dell’esperienza: essa è la costante presenza dell’uomo a se stesso. Tale rivolta non è aspirazione, poiché è senza speranza; è la certezza di un destino schiacciante, meno la rassegnazione che dovrebbe accompagnarla» (Ivi, pp. 50-51).
[9] Non si tratta di eroismo, come insinua Rambert, ma di onestà, come sostiene Rieux: «Farà magari ridere, come idea, ma il solo modo di lottare contro la peste è l’onestà» (Albert Camus, La peste, traduzione di Yasmina Melaouah, Bompiani, Milano 2017, p. 175. Per un approfondimento sul romanzo e i relativi personaggi rimando al contributo Albert Camus, l’uomo nella «Peste». Prima parte, Seconda parte).
[10] «ciò che importa non è vivere il meglio, ma il più possibile» (Albert Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. 56).
[11] «Quegli autori abbracciano il Dio che li divora. La speranza si insinua attraverso l’umiltà, poiché l’assurdo di questa esistenza dà loro un po’ più di sicurezza sulla realtà soprannaturale. Se il cammino della vita sfocia in Dio, vi è dunque, una via d’uscita; e la perseveranza, l’ostinatezza con cui Kierkegaard, Chestov e gli eroi di Kafka ripetono i loro itinerari, sono una singolare garanzia del potere esaltante di questa certezza» (Ivi, p. 134.