Vasilij Perov, Ritratto di Dostoevskij, 1872

Quattordici anni di passione: Dostoevskij nelle «Memorie» della moglie Anna – Prima parte

O saremo infelici e, dopo aver sofferto insieme alcuni anni, ci separeremo, oppure ci troveremo bene insieme e saremo felici per tutta la vita che ci resta.

Dostoevskij alla moglie Anna

1. Il primo incontro

Ottobre 1866. Dostoevskij, tanto per cambiare, è in un momento difficile: tormentato dall’epilessia, che dopo un attacco gli guasta l’umore per giorni e giorni, oppresso dai debiti, spolpato dai parenti-sanguisughe, precipitato in un vertiginoso vuoto d’amore spalancatosi dentro e attorno a lui due anni prima con la morte della prima moglie e, soprattutto, dell’amatissimo fratello Michail, ha un mese, appena un mese di tempo per consegnare all’editore Stellovskij un nuovo romanzo di almeno 200 pagine, pena la perdita dei diritti sulle future opere. Per velocizzare il lavoro (come se non bastasse Dostoevskij è impegnato nella scrittura di Delitto e castigo, non esattamente un libro qualunque, in corso di pubblicazione) gli consigliano di assumere una stenografa, e così il 4 ottobre si presenta a casa di Dostoevskij, alle undici e trenta del mattino, la giovane stenografa Anna Grigor’evna Snitkina. Lo scrittore abita in un grande edificio fatto di tanti piccoli appartamenti abitati da mercanti e artigiani, nel vicolo Stoljarnyj, a Pietroburgo naturalmente: vedendolo, Anna, che di Dostoevskij è una grande ammiratrice e ha pianto leggendo le Memorie di una casa morta, rievocazione artistica dei quattro anni di lavori forzati vissuti dallo scrittore dal 1850 al 1854, viene subito in mente il caseggiato nel quale abita Raskol’nikov.

Davanti ad Anna, che ha appena vent’anni, compare un uomo all’apparenza piuttosto vecchio, che però, quando inizia a parlare, dimostra non più di trentasette anni (ne ha in realtà quarantacinque). Un uomo di statura media, dai capelli castani, tendenti al rosso, pettinati con cura, e dal volto pallido, malsano, ma rassicurante, familiare. Ciò che colpisce di più Anna sono gli occhi, diversi uno dall’altro: «uno era castano, mentre nell’altro la pupilla era così dilatata che non si vedeva più l’iride. Questa diversità tra i due occhi dava al suo sguardo un’espressione vagamente enigmatica» [1]. Dostoevskij porta impressi sul volto i segni dell’epilessia: qualche giorno prima, cadendo durante un attacco, ha urtato contro un oggetto appuntito e si è ferito gravemente a un occhio; la pupilla dilatata è effetto di un farmaco.

Dostoevskij ha un aspetto affranto, malato e confessa subito ad Anna di soffrire d’epilessia. Fuma una sigaretta dietro l’altra e cammina su e giù per la stanza senza dire niente, rimuginando tra sé, come se Anna non ci fosse. È distratto. Le chiede come si chiama e subito se ne dimentica. Glielo chiede di nuovo. Le offre una sigaretta, ma lei rifiuta, perché non fuma. Gliela offre di nuovo. Alla fine Dostoevskij rimanda Anna a casa e le domanda di tornare più tardi, alle otto di sera. Anna se ne va, triste e delusa: il primo incontro con il suo scrittore preferito le lascia un’impressione «penosa».

2. Il secondo incontro

Durante il secondo incontro, quello delle otto di sera (per Dostoevskij, che scrive di notte, le undici e trenta del mattino sono l’alba, più o meno), Dostoevskij finalmente si scioglie e parla ad Anna della condanna a morte [2], di quel giorno terribile e al tempo stesso grandioso in piazza Semënovskij, e l’impressione della giovane stenografa muta radicalmente: ora le sembra di conoscere lo scrittore da molto tempo e prova un sentimento di leggerezza e gioia. Dostoevskij racconta con trasporto gli istanti drammatici in attesa dell’esecuzione della pena e poi l’esplosione di gioia seguita alla grazia, culminante in un canto a squarciagola (sì, anche Dostoevskij un giorno cantò a squarciagola, perché, come scrive al fratello Michail subito dopo aver ricevuto la grazia, la vita è vita ovunque, purché sia vita [3]):

Mi ricordo […] in piedi nella piazza d’armi Semënovskij, in mezzo ai compagni condannati a morte come me, e che, vedendo i preparativi, mi resi conto che mi rimanevano soltanto cinque minuti di vita. Ma questi minuti mi apparivano come anni, decenni di vita, cosicché mi rimaneva ancora molto tempo da vivere! Ci avevano fatto indossare la camicia dei condannati a morte e ci avevano messo in fila per tre. Io ero l’ottavo della terza fila. I primi tre erano già stati legati ai pali. In due o tre minuti le due prime file sarebbero state fucilate e poi sarebbe toccato a me. Mio Dio, come desideravo vivere in quel momento! Come mi era cara la vita, quanto di buono e di bello avrei potuto ancora fare! Mi tornò alla mente tutto il mio passato, come ne avevo fatto un uso non del tutto buono, provai un tale desiderio di sperimentare ancora tutto di nuovo e di vivere a lungo, a lungo… Ma a un tratto arrivò la revoca della sentenza e io ripresi coraggio. I miei compagni furono slegati dai pali e riportati al loro posto. Venne letta la nuova sentenza: io ero stato condannato a quattro anni di lavori forzati. Non ricordo un giorno più felice di quello! Andavo avanti e indietro per tutta la casamatta nel rivellino Alekseevskij cantando a squarciagola, tant’ero felice per la vita che mi era stata donata! [4]

Anna comprende che la chiusura e la severità di Dostoevskij sono soltanto apparenti, ma di lavorare proprio non se ne parla, perché, ancor più che di una stenografa, o almeno tanto quanto una stenografa, lo scrittore ha bisogno di un’anima benevola accanto a sé. Spiritualmente solo, vedovo e con almeno un paio di proposte di matrimonio fallite alle spalle, prigioniero di un vuoto affettivo che, complice la sua natura estrema, intollerante alle mezze misure, non riesce in alcun modo a colmare, Dostoevskij spalanca ad Anna, una ragazza di vent’anni mai vista prima, il proprio cuore sofferente, e nella giovane stenografa nasce subito un «sentimento di profonda compassione e di pietà» per quel vecchio scrittore infelice abbandonato da tutti.

3. In attesa della felicità

Giorno dopo giorno, dettatura dopo dettatura (Il giocatore prende velocemente forma), il rapporto tra Dostoevskij e Anna si fa sempre più intimo e confidenziale. Lo scrittore descrive alla giovane collaboratrice gli otto mesi di reclusione nella fortezza di Pietro e Paolo, antecedenti all’esecuzione-farsa del 22 dicembre, i quattro anni di lavori forzati in Siberia e il primo, tristissimo matrimonio con Marija Dmitr’evna, donna piuttosto complicata, utilizzando un eufemismo. Anna, con la sua giovanile vitalità, gli domanda perché rievochi soltanto le disgrazie e non le parli dei giorni felici. Dostoevskij risponde di non essere mai stato felice:

I giorni felici? La felicità nella mia vita ancora non c’è stata, perlomeno la felicità che ho sempre sognato. Sono in attesa. Qualche giorno fa ho scritto al mio amico, il barone Vrangel’, che, nonostante tutti i dolori che mi hanno colpito, continuo ancora a sognare di cominciare una vita nuova, felice [5].

Nonostante le innumerevoli sofferenze (l’arresto, la prigionia, la condanna a morte, i lavori forzati, l’esilio, le morti della prima moglie e del fratello Michail, la malattia, i debiti), Dostoevskij non smette di attendere e di sognare la felicità, non smette di credere nella felicità, anche perché, come scrive in un bellissimo appunto su Delitto e castigo, un appunto che illumina il senso ultimo, più profondo del romanzo e dell’esistenza umana in generale, secondo la visione dostoevskiana della vita, è proprio attraverso il dolore che l’uomo si guadagna la gioia:

Non c’è felicità nel confort, la felicità si acquista con la sofferenza. L’uomo non nasce per la felicità. L’uomo si guadagna la sua felicità, e sempre con la sofferenza [6].

Un messaggio straordinario, ribadito da Dostoevskij nel suo testamento letterario, I fratelli Karamazov, attraverso lo starec Zosima, che prima di morire esorta Alëša a trovare la felicità nel dolore:

Che hai? Il tuo posto per ora non è qui. Ti consacro a una grande opera nel mondo. Dovrai percorrere ancora molta strada. E dovrai sposarti, dovrai farlo. Dovrai sopportare ogni cosa, prima di ritornare qui. E ci sarà molto da fare. Ma non dubito di te, ed è per questo che ti mando. Cristo è con te. Custodiscilo in te ed Egli ti custodirà. Conoscerai un grande dolore e nel tuo dolore sarai felice. Eccoti il mio testamento: nel dolore cerca la felicità. Lavora, lavora senza posa. Ricorda sempre quanto ti ho detto oggi, perché, anche se avremo modo di parlare ancora, non solo i giorni, ma anche le mie ore sono contate [7].

Il 29 ottobre ha luogo l’ultima dettatura. Il giocatore è concluso, Dostoevskij è salvo. E ora? Possibile che lo scrittore e la sua preziosissima collaboratrice e amica debbano separarsi per sempre?

4. La proposta di matrimonio

Durante una delle loro tante conversazioni, un angosciatissimo Dostoevskij spiega ad Anna che dinanzi a lui si aprono tre vie: la via dello spirito, che prevede la fuga in Oriente, a Costantinopoli oppure a Gerusalemme; la via della passione, che prevede la fuga in Occidente e la resa incondizionata al demone del gioco; la via dell’amore, che prevede un nuovo matrimonio e la ricerca della felicità nella famiglia. Dostoevskij, che dopo la morte della prima moglie ha già proposto il matrimonio, senza successo, ad Apollinarija Suslova, la Polina del Giocatore, e ad Anna Krukovskaja [8], decide di puntare ancora su questa terza via e l’8 novembre, poco più di un mese dopo il loro primo incontro, dichiara ad Anna il proprio amore e le propone di sposarlo. Terrorizzato dall’ennesimo rifiuto (le premesse per un no ci sono ragionevolmente tutte), Dostoevskij si dichiara e avanza la proposta di matrimonio in un modo molto particolare, artistico oserei dire, raccontando ad Anna la trama di un nuovo, ipotetico romanzo, la storia di un vecchio pittore malato e oppresso dai debiti che s’innamora di una giovane di buon cuore. Descrivendo il protagonista del romanzo Dostoevskij descrive in realtà se stesso, onestamente, senza tralasciare gli aspetti più oscuri e tristi di se stesso e della propria storia:

Ne veniva fuori un uomo prematuramente invecchiato, malato di una malattia inguaribile, con un braccio paralizzato, tetro, sospettoso, con un cuore tenero, certo, ma incapace di esprimere i propri sentimenti, un pittore di talento ma che nemmeno una volta in vita sua era riuscito a incarnare le sue idee nelle forme da lui sognate e per questo eternamente tormentato [9].

Il disgraziato pittore conosce una ragazza, Anja, più giovane di lui di venticinque anni, e se ne innamora, convinto di poter trovare finalmente la felicità al suo fianco. Dostoevskij chiede ad Anna un parere, le domanda se si tratti di una storia psicologicamente verosimile. Certo, risponde Anna, se la ragazza è mite, intelligente e buona come lui l’ha descritta. Se Anja non è vuota e leggera, ma ha buon cuore, perché non dovrebbe amare il pittore? Cosa le importerebbe della malattia, della povertà, dell’estetica, della differenza d’età? «Se lo ama, sarà felice anche lei e non si pentirà mai!», conclude Anna con tutto l’entusiasmo dei suoi vent’anni. Rinfrancato da queste parole, Dostoevskij chiede ad Anna di mettersi nei panni della ragazza e di supporre che il pittore sia lui. Cosa risponderebbe alla dichiarazione d’amore e alla proposta di matrimonio? «Vi risponderei che vi amo e che vi amerò per tutta la vita!» [10]. Dopo anni e anni di sofferenza, finalmente una gioia. L’azzardo di Dostoevskij questa volta si rivela vincente.

5. Timori

L’insperato assenso di Anna dona a Dostoevskij una felicità immensa (la servitù, con una certa ironia, inizia a chiamarlo «il fidanzato»), ma i timori, relativi alle enormi differenze di carattere, di salute, d’esperienze e d’età, restano:

Io sono quasi vecchio e tu quasi una bambina. Io sono affetto da una malattia incurabile, sono tetro e collerico, mentre tu sei sana, energica e piena di gioia di vivere. Io sono quasi alla fine della mia esistenza e nella mia vita c’è stato tanto dolore, mentre tu sei sempre vissuta felice e hai tutta la vita davanti! Infine, io sono povero e oppresso dai debiti. Che cosa ci si può aspettare da tutte queste disuguaglianze? O saremo infelici e, dopo aver sofferto insieme alcuni anni, ci separeremo, oppure ci troveremo bene insieme e saremo felici per tutta la vita che ci resta» [11].

I timori di Dostoevskij si riveleranno infondati: lui e Anna resteranno insieme per tutta la vita, ovvero per i successivi quattordici anni, fino alla morte dello scrittore. Quattordici anni di passione, anzitutto nel senso di sofferenza, perché se ogni vita umana è una via dolorosa, beh, quella di Dostoevskij lo è stata in particolar modo.

NOTE

[1] Anna Grigor’evna Dostoevskaja, Dostoevskij mio marito, a cura di Luigi Vittorio Nadai, Castelvecchi, Roma 2014, p. 66.

[2] Per un approfondimento sull’esecuzione-farsa di cui è stato vittima Dostoevskij insieme agli altri componenti del circolo fourierista Petraševskij, rimando ai contributi Dostoevskij e l’esperienza di vita della Katorga: lettura delle «Memorie di una casa morta». Introduzione, Fëdor Dostoevskij ovvero della sofferenza (e della felicità, forse).

[3] «Fratello, io non mi sono abbattuto, non mi sono perso d’animo. La vita è vita dappertutto; la vita è dentro noi stessi, e non in ciò che ci circonda all’esterno. Intorno a me ci saranno sempre degli uomini, ed essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, in qualsiasi sventura, non abbattersi e non perdersi d’animo, ecco in che cosa sta la vita, e in che cosa consiste il suo compito. Io mi sono reso conto di questo, e questa idea mi è entrata nella carne e nel sangue» (lettera del 22 dicembre 1849, in Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, p. 28).

[4] Anna Grigor’evna Dostoevskaja, Dostoevskij mio marito, cit., pp. 70-71.

[5] Ivi, p. 80.

[6] Citato in Paolo Nori, Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2021, p. 239.

[7] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2011, p. 93.

[8] Illuminanti le ragioni del rifiuto di Anna Krukovskaja, che rivelano quanto fosse difficile per una donna amare Dostoevskij: «[…] qualche volta mi sorprendo perfino con me stessa per il fatto che non lo amo. È una persona talmente meravigliosa. All’inizio pensavo che sarei riuscita ad amarlo. Ma lui ha bisogno di un tipo di moglie del tutto diverso da me. Sua moglie deve dedicarsi a lui interamente, rinunciare a tutta la sua vita per lui, non pensare a nient’altro che a lui. E io non ci riesco… Voglio vivere anch’io. E poi, è così nervoso e esigente. Mi sembra sempre che si impossessi di me e di essere risucchiata. Quando sono con lui, non mi sento mai me stessa» (citato in Paolo Nori, Sanguina ancora, cit., p. 187). Come tutte le nature estreme, ardenti, passionali, che in ogni cosa oltrepassano il limite, Dostoevskij esige un’attenzione esclusiva che assorbe l’altro.

[9] Anna Grigor’evna Dostoevskaja, Dostoevskij mio marito, cit., p. 99.

[10] Ivi, p. 101.

[11] Ivi, p. 119.

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