Saltykov-Ščedrin in un ritratto di Kramskoj del 1879

Michail Saltykov-Ščedrin, «I signori Golovlëv» ovvero della degenerazione – Seconda parte

4. Porfiša-Sanguisuga ovvero Iuduška

Porfiša-Sanguisuga, detto anche Iuduška, la cui figura domina incontrastata gran parte dei Signori Golovlëv, è uno dei personaggi più odiosi e insopportabili della letteratura russa dell’Ottocento, tanto quanto Foma Fomič Opiškin, il tristemente indimenticabile protagonista del Villaggio di Stepančikovo e i suoi abitanti (1859) di Dostoevskij [1].

Iuduška è anzitutto un ipocrita, ma non nel senso francese del termine. In Francia l’ipocrisia fa parte dell’educazione, delle cosiddette buone maniere e ha un fine politico o sociale. L’ipocrita francese è perfettamente consapevole di essere un ipocrita e di rivolgersi ad altri ipocriti: «Nelle concezioni del borghese francese l’universo non è altro che un vasto palcoscenico, sul quale si svolgono infinite recite dove ogni ipocrita dà la replica a un altro ipocrita» [2] (Saltykov-Ščedrin compendia così l’essenza della società borghese europea, già violentemente criticata e sbeffeggiata da Dostoevskij nelle Note invernali su impressioni estive [3]). Iuduška è invece un ipocrita «nella maniera propria di un russo: era cioè semplicemente un uomo privo di qualunque misura morale, che non conosce altra verità che quella che si trova nei più elementari libri delle scuole elementari. Era di un’ignoranza sconfinata, litigioso, bugiardo, parolaio, e, per coronare tutto ciò, aveva paura del diavolo» (142-143).

In campagna, lontano da occhi indiscreti, senza dover temere i giudizi altrui, Iuduška si sbraca, abbandonandosi alla propria sudiceria. Vive in un completo isolamento dal mondo: ogni legame con l’esterno è rotto. Non legge libri né giornali, non riceve lettere. Uno dei suoi figli, Voloden’ka, al quale ha negato il sostegno economico, si è ucciso, mentre con l’altro, Peten’ka, comunica di rado e brevemente: «Una densa atmosfera d’ignoranza, di pregiudizi e di continuo passaggio dal vuoto all’inconcludente regnava intorno a lui ed egli non sentiva alcuna volontà di liberarsene» (147). Per Iuduška «non esiste né tristezza, né gioia, né odio, né amore»; per lui, «incancrenito funzionario ministeriale», il mondo intero è «una bara che potrebbe servire soltanto come oggetto per paroloni senza numero», quei «vuoti e putridi» aforismi pseudo-religiosi sempre pronti all’uso.

Iuduška dedica volentieri qualche ora alla preghiera, ogni giorno, ma non prega perché ama Dio, bensì perché ha paura del diavolo, affinché Dio lo protegga dal diavolo. La preghiera non è per lui un modo per entrare in comunione con Dio, la preghiera non lo illumina, non lo rinnova, non porta un raggio di luce nella sua cupa, torbida, ipocrita esistenza. Prega così come vive, in modo falso e interessato: «Egli poteva pregare, eseguire tutti i necessari movimenti del corpo e nello stesso tempo guardare attraverso la finestra e osservare se qualcuno non scendesse in cantina senza permesso e via di seguito» (176).

Dinanzi alla disperata richiesta del figlio Peten’ka, che ha perduto al gioco la cassa del reggimento e chiede al padre i tremila rubli da restituire, Iuduška resta impassibile e snocciola uno dietro l’altro i suoi «vuoti e putridi» aforismi: «Tu stesso hai fatto il nodo, e tu scioglilo. Ti è piaciuto scendere in slitta, ora riporta la slitta in salita» (179). Tra Iuduška e Peten’ka va in scena una lite terribile, alla quale mette fine Arina Petrovna, che nel confronto tra il figlio e il nipote vede «in tutta la sua pienezza e nudità la somma dell’intera sua vita» e, ritrovato l’antico ardore, maledice Iuduška. Ma la tanto temuta maledizione della madre non sortisce alcun effetto su Iuduška, che resta irremovibile e nega a Peten’ka, come ha già fatto con Voloden’ka, conducendolo al suicidio, il suo aiuto.

Quella maledizione pronunciata all’improvviso, senza avvisaglie, circostanza che contribuisce a rasserenare Iuduška, svuota completamente Arina Petrovna, la priva delle ultime energie residue e anch’ella, come i due figli deceduti, Stëpka-babbeo e Paška-taciturno, finisce per rinchiudersi in una stanza. Iuduška, che ha un «diabolico fiuto per i moribondi», scivola come un serpente fino al letto di morte della madre e la sua figura «lunga e scarna», vagamente demoniaca, oscilla enigmaticamente nella penombra della camera dall’aria pesante e puzzolente (son tutte così, claustrofobiche e maleodoranti, le stanze nelle quali i Golovlëv si rintanano alla fine dei loro giorni e muoiono). La morte improvvisa di Arina Petrovna segna una svolta negativa nella vita di Iuduška, svolta di cui egli, nella sua incoscienza, nella sua ottusità, naturalmente, non si avvede:

Non capiva che la tomba che si apriva adesso davanti ai suoi occhi portava via il suo ultimo legame col mondo vivo, l’ultima creatura viva con cui egli poteva dividere la polvere che lo riempiva, e che da oggi quella polvere, non trovando sfogo, si sarebbe accumulata fino a soffocarlo del tutto (195).

Iuduška è davvero un uomo vuoto, meschino, squallido, «sprofondato fino alle orecchie nel fango delle inezie per gretta autoconservazione, e la cui esistenza, in conseguenza, non lasciava dietro di sé alcuna traccia» (197). Per fortuna, verrebbe da dire. Poco dopo Arina Petrovna, muore anche Peten’ka, a causa di una malattia non specificata, mentre è in viaggio verso il luogo di confino, al quale è stato condannato per il caso del denaro rubato alla cassa del reggimento, e neanche questa volta Iuduška comprende la gravità della circostanza, perché la morte dell’ultimo figlio rimastogli lo getta «definitivamente nello spazio, a faccia a faccia coi suoi vuoti vaneggiamenti» (199). Il crepuscolo che lo avvolge da sempre s’infittisce e su Golovlëvo sembra abbattersi una sorta di maledizione.

Alcune delle pagine più terribili del romanzo sono quelle dedicate al soggiorno di Annin’ka a Golovlëvo. Iuduška, che divora con gli occhi la procace nipote, attricetta di provincia, avvolge Annin’ka con la sua volgarità e la imprigiona in una infinita rete di parole vuote e stupide, la intrappola con le sue chiacchiere insulse e non la lascia andare, irretendola, svuotandola, stordendola. Iuduška non è un semplice parolaio, no, «ma una piaga fetida, da cui gocciava una continua putredine» (243).

Le disgrazie dei figli e la morte di Arina Petrovna non causano alcun fastidio a Iuduška, al «vuoto della sua anima», non arrestano la sua vuota fantasia, che si dispiega senza incontrare ostacoli in uno spazio sconfinato, immenso. Iuduška si lava le mani e va avanti, affidando tutto alla Provvidenza divina, dando campo libero alle sue misere riflessioni, senza senso e senza fine, perfettamente irresponsabile. Ma anche Iuduška conosce l’angoscia, l’angoscia che irretisce, paralizza e annienta ogni possibilità di divagazione, di irresponsabilità, con l’approssimarsi del parto di Evpraksejuška, la giovane economa di casa Golovlëv che egli, in un impeto di lussuria, ha messo incinta. Con la morte improvvisa di Arina Petrovna, è lui a doversi occupare in prima persona della delicata faccenda ed ecco l’angoscia. Non c’è più nessuno che lo protegga dalle sue nefandezze, dalla sua putredine, dalla sua cenere, non è più possibile distogliere lo sguardo, voltarsi dall’altra parte ed ecco l’angoscia, quell’angoscia mai provata prima in vita sua. La lussuria, «l’accusa di tutta una vita, la dimostrazione della sua intima menzogna» (258), della sua disgustosa ipocrisia, lo tormenta. La scoperta del peccato gli impedirebbe di difendersi dalle accuse dell’opinione pubblica e ciò lo terrorizza. Incredibile ma vero, in questo frangente assistiamo al risveglio della coscienza di Iuduška, sinora sepolta sotto un cumulo di sporcizia, di putredine, anestetizzata dal suo interminabile «pensiero sterile».

Iuduška, mero contenitore vuoto, «bara colma di cenere», è un uomo completamente inetto e falso, del tutto incapace di provare sentimenti positivi come l’affetto e la pietà. All’interno di questo contesto psicologico arido e desolante, vagamente diabolico, s’insinua Ulituška, storica serva dei Golovlëv dalla lingua lingua, animata dal risentimento e dalla maldicenza, già amante umiliata di Iuduška, dal quale si dice che abbia avuto un figlio, finito chissà dove. Ulituška intrappola Evpraksejuška, rimasta disperatamente sola dopo la morte di Arina Petrovna, sua protettrice, in una rete di pettegolezzi, la discredita agli occhi di Iuduška ogni volta che ne ha l’occasione, fornendo sul suo conto continui «rapporti». Ulituška, insomma, alimenta l’odio del signore verso Evpraksejuška, colpevole di portare in grembo il frutto della sua inconfessabile natura, perché nelle nature grette, meschine, vuote e false come Iuduška la paura sfocia sempre nell’odio.

I bagliori di luce della coscienza di Iuduška, sorprendentemente accesi dalla scandalosa gravidanza di Evpraksejuška, si spengono presto ed egli ripiomba nella sua consueta condizione di buio interiore, di povertà spirituale senza rimedio. Iuduška sprofonda di nuovo nel vaniloquio, rifugiandosi nel suo aforisma preferito, che lo ha sempre tratto d’impaccio dalle situazioni imbarazzanti e soffoca il suo tormento: «Io non so niente; non permetto niente e non decido niente» (263). Persino la maligna Ulituška, dinanzi ad una tale inumana indifferenza, getta la spugna, e anche quando comunica al padrone che Evpraksejuška è in fin di vita, con i suoi gemiti che straziano il silenzio mortale di Golovlëvo, Iuduška resta impassibile, adducendo come scusa la preghiera:

Che cosa c’è da vedere? Sono forse medico, io? Posso forse dare consigli? E poi io non so niente, non so nessuna delle vostre faccende. So che in casa c’è un’ammalata, ma di cosa sia ammalata e perché ammalata, confesso di non aver avuto neanche la curiosità di informarmi. In ogni modo, posso consigliarvi questo: se l’ammalata si trova in difficoltà, mandate a chiamare il pop. Mandate a chiamare il pop, pregate insieme con lui, accendete le lampade davanti alle icone… e poi noi col pop berremo il tè (265).

Dinanzi all’assurdo vaniloquio di Iuduška, Ulituška resta di sasso e crede persino di sognare, «come se in sogno le apparisse Satana stesso in veste di predicatore» (ibidem). Evpraksejuška, tra dolori e tormenti, riesce finalmente a partorire e Ulituška porta il neonato al signore, che però non ne vuole sapere, si volta dall’altra parte, disgustato, e dichiara per l’ennesima volta di non sapere niente e di non avere bisogno di sapere niente. Di nuovo ad Ulituška sembra di sognare Satana in persona… Dopo il parto, Iuduška strappa a tradimento il bambino alla madre, ancora incosciente e febbricitante, e lo spedisce a Mosca, al brefotrofio.

L’«agonia» di Iuduška inizia quando le fonti del suo vaniloquio, apparentemente inesauribili, cominciano a prosciugarsi. Tra chi è morto e chi se n’è andato, Iuduška è rimasto solo. Alla solitudine si aggiunge la ribellione di Evpraksejuška, che, manifestandosi sempre la mattina, all’ora del tè, avvelena e scombina le giornate di Iuduška. Vittima di una «incomprensibile indolenza», di una «generale anemia spirituale e morale», Iuduška, impreparato a ogni minimo, sciocco imprevisto, non sa come fronteggiare la rivolta dell’economa. Come di consueto, naufraga nella divagazione…

Dotata, pur nella sua ottusità, di una «particolare pertinacia», Evpraksejuška tormenta Iuduška quotidianamente, come un trapano, e quando, finalmente, allenta la morsa, smettendola di tormentare il signore, lo abbandona del tutto e, con lui, la cura della casa. Nella vecchia casa padronale di Golovlëvo, senza la supervisione dell’economa, regna l’anarchia e Iuduška, terrorizzato dal pensiero di dover intervenire personalmente sulla realtà della vita, quella realtà dalla quale si è sempre ritratto con orrore, chiude un occhio e lascia correre: meglio il caos dell’impegno. Iuduška tiranneggia con il suo vaniloquio, ma non è mai stato un padrone capace e autoritario come la fu Arina Petrovna: è completamente rinchiuso in se stesso, nella propria riflessione incosciente.

Sconvolto il consueto andamento della sua vita, Iuduška si inselvatichisce del tutto. Alla vita non chiede altro che non essere disturbato nel suo ultimo rifugio, il suo studio. Come già tutti gli altri componenti della famiglia Golovlëv, anche lo spazio di Iuduška si riduce infine a una sola stanza. Diviene persino arrendevole; ogni contatto con la vita reale è ormai cessato per lui: «Non sentire niente, non vedere nessuno, questo era quanto egli avrebbe voluto» (300). Iuduška diventa indifferente a tutto. Rinchiuso nel suo studio, completamente isolato dal mondo, dalla realtà, dalla vita, solo con se stesso, Iuduška si abbandona alla malattia che ha già ucciso i suoi fratelli, l’ubriachezza, ma un’ubriachezza tutta particolare, fatta non di alcol, almeno per il momento, ma di «vuote fantasticherie»:

Chiusosi nello studio e sedutosi alla scrivania, dalla mattina alla sera si affaticava su di un lavoro inesistente: costruiva piani irrealizzabili, insegnava a se stesso, conversava con interlocutori immaginari e creava intere scene, alle quali prendevan parte personaggi che gli passavan a caso per la mente… (301)

Iuduška pone al centro delle sue interminabili, patologiche fantasticherie la «sete morbosa di accumulare ricchezze», avvolge liberamente «tutto il mondo con la rete dei suoi cavilli, delle sue oppressioni e delle sue offese», vendicandosi di tutti, della madre, dei fratelli, degli zii, dei servi, di tutti, dei vivi e dei morti. La fantasticheria sfrenata produce gli stessi effetti dell’ubriachezza, alleggerisce Iuduška, lo fa volare, lo fa trionfare ed egli piega l’intero mondo ai suoi piedi: non gli resta più nulla da desiderare. Iuduška raggiunge una sorta di «estasi», la sua immaginazione senza freni, senza limiti crea un’altra realtà, ma tangibile, concreta ed egli muta fisicamente, come in una sorta di amplesso della fantasticheria: Iuduška è felice. Egli si rinchiude completamente nella propria immaginazione, divenuta dipendenza, e tutto ciò che non riguarda questa lo compie in fretta e con ripugnanza.

Conclusione. Il destino dei Golovlëv

Tra le famiglie della piccola nobiltà terriera russa sulle quali pesa una «ineluttabile predestinazione», ce ne sono di fortunate, quelle in cui, da «un sottotenente in congedo e da sua moglie, che vegetano nell’oscurità di un villaggio, esce di colpo una covata di giovani forti, sani, svelti, che sanno far propria molto presto l’essenza della vita» (351). Giovani «intelligenti», in una sola parola, che concludono gli studi e intraprendono brillanti carriere, nel caso dei ragazzi, che combinano matrimoni convenienti e felici, nel caso delle ragazze. Giovani che stringono relazioni importanti, acquistano protezioni influenti, sanno adattarsi a qualunque circostanza, mantenendo sempre aperta una via d’uscita, dotati di una ipocrisia più francese che russa, e, così facendo, arrestano il processo di decadimento, di degenerazione della propria famiglia. Naturalmente non è questo il caso dei Golovlëv:

[…] accanto alle famiglie fortunate, esistono in grande numero quelle ai cui rappresentanti i domestici penati fin dalla culla non regalano evidentemente niente altro che sventure senza vie d’uscita. Improvvisamente una disgrazia o un vizio si attaccano come pidocchi a queste famiglie, e cominciano a divorare da tutte le parti. Si diffondono per tutto l’organismo, penetrano fin nella linfa e rodono una generazione dopo l’altra. Appaiono intere serie di omuncoli beoni, meschini libertini, insensati oziosi, in generale disgraziati. E più il tempo passa e più le generazioni decadono, finché dalle quinte non escono altro che aborti morali che, incapaci di resistere al primo ostacolo, subito periscono (352).

Aborti morali… una definizione che si adatta bene soprattutto ai Golovlëv di seconda generazione, rispetto all’ordine temporale del romanzo, ai giovani della famiglia, tutt’altro che «intelligenti»: i figli di Iuduška, Volod’ka e Peten’ka, le due orfanelle-attrici, Annin’ka e Ljubin’ka. All’interno di questo quadro familiare desolante, degenerato e decadente, Arina Petrovna è stata un’eccezione, è passata «lucente come una meteora» nel caos ebbro dei Golovlëv:

Questa donna, grazie alla sua energia personale, aveva portato al punto più elevato il livello del benessere familiare, ma, ciò nonostante, il suo lavoro era finito in niente, perché ella non solo non aveva trasmesso le qualità a nessuno dei figli, ma era stata lei stessa travolta dalla stessa sterilità di parole e di pensiero (353).

Sembra ancora di sentirlo riecheggiare, nel silenzio mortale di Golovlëvo, il lamento di Arina Petrovna, perfettamente consapevole dell’inutilità delle proprie fatiche: «Per chi ho accumulato, per chi ho vegliato la notte e mi son rifiutata il boccone… Per chi?». Per degli «svergognati», come li chiamava lei stessa, rinchiudendoli in una stanza, dei degenerati concentrati tutti nelle loro assurde fantasticherie e nei loro vizi distruttivi. No, non ci saranno covate miracolose a salvare i Golovlëv, destinati all’estinzione.

Alla fine anche Iuduška cede al male di famiglia, all’ubriachezza, stimolato dalla presenza della nipote Annin’ka, alcolizzata ritiratasi a Golovlëvo dopo una vita di scandali, culminata infine nella prostituzione. Da buoni parenti, i due si ubriacano insieme, ogni sacrosanta sera, e litigano, si feriscono, riaprono piaghe, riesumano antichi torti sepolti, trovando in questo violento, ebbro e squallido confronto, tristissima apoteosi dell’essenza corrotta delle due ultime generazioni dei Golovlëv, persino un piacere velenoso che li inebria:

C’era come un senso di piacere amaro e vendicativo nel riportare a galla quei veleni, nel valutarli e perfino nell’esagerarli. Né nel passato né nel presente si vedeva alcun pilastro morale, al quale appoggiarsi. Niente altro che avarizia miserabile da una parte e insensata sterilità dall’altra. Invece di pane, pietre; invece di insegnamenti, bastonate (355).

I violenti litigi durano fino a quando la vodka lo permette. Alla fine, annichiliti dall’alcol, zio e nipote sprofondano in un «vuoto luminoso», tacciono e si ritirano nelle rispettive stanze, sprofondando nel sonno. La grande casa padronale di Golovlëvo, completamente irrigidita e svuotata, diviene una residenza di spettri, nella quale si muove silenzioso e sinistro uno spettro vivo, Iuduška:

Da tutti gli angoli di quella casa odiosa sembravano strisciar fuori i morti. Ovunque si andasse, ovunque ci si volgesse, dappertutto si muovevano grigi spettri. Ecco il babbino Vladimir Michajlovič, col berrettuccio bianco, che cita Barkov; ecco il fratello Stëpka-babbeo, e accanto a lui il fratello Pavel, Paška-taciturno; ecco Ljubin’ka, ed ecco gli ultimi rampolli della generazione di Golovlëvo: Volod’ka e Peten’ka… E sopra tutti questi fantasmi, un fantasma vivo: lui, Porfirij Vladimiryč Golovlëv, l’ultimo rappresentante della generazione fallita (357).

Il continuo, incessante, martellante ricordo dei Golovlëv che furono risveglia la coscienza di Iuduška, non del tutto assente, come abbiamo già visto nel caso della gravidanza di Evpraksejuška, ma dimenticata, relegata in un angolo, abbandonata a se stessa, naufraga del vuoto e della sterilità interiori. Finalmente Iuduška si avvede della propria rovina, del processo di graduale mortificazione svoltosi inesorabilmente negli anni accanto alla sua esistenza tranquilla e incosciente, della propria solitudine e dell’odio che lo circonda, dell’indifferenza e della morte che hanno scavato un solco incolmabile tra sé e la vita, ma è troppo tardi. A Iuduška, tormentato dal perché?, il terribile quesito che rivela all’uomo l’insensatezza della propria esistenza, non resta altro da fare che ubriacarsi «bestialmente», che annegare nell’alcol la sua sterile coscienza risvegliata, fino alla morte, che, insieme a quella di Annin’ka, conclude I signori Golovlëv.

Appendice. Il niente

Per un lettore come il sottoscritto, indissolubilmente legato alla dimensione morale e filosofica, I signori Golovlëv sono una lettura per molti aspetti impressionante, a tratti persino mostruosa. Estremizzando, potremmo definire il capolavoro di Saltykov-Ščedrin il romanzo del niente. A livello spirituale e intellettuale i personaggi sono completamente vuoti. In ciò credo risieda la grandezza di questo capolavoro assoluto della letteratura russa dell’Ottocento, originale e inedito, nel canone delle grandi opere russe del XIX secolo, tanto quanto Il viaggiatore incantato di Leskov [4]. Scrivere un romanzo come I signori Golovlëv richiede un talento e un genio straordinari, quel talento e quel genio che, nella letteratura russa dell’Ottocento, abbondano come forse in nessun’altra fase creativa nella storia del genere umano.

NOTE

[1] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Il villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti»: Fomà Fomìč, il parassita morso dal serpente dell’amor proprio letterario.

[2] Michail Saltykov-Ščedrin, I signori Golovlëv, traduzione di Ettore Lo Gatto, Quodlibet, Macerata 2022, p.143. D’ora in avanti il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[3] Per un approfondimento sul testo rimando al contributo «Note invernali su impressioni estive»: Dostoevskij nel «paese dei santi prodigi» – Prima parte, Seconda parte.

[4] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Nikolaj Leskov, «Il viaggiatore incantato»: la perduta arte della narrazione.

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