Saltykov-Ščedrin in un ritratto di Kramskoj del 1879

Michail Saltykov-Ščedrin, «I signori Golovlëv» ovvero della degenerazione – Prima parte

Né nel passato né nel presente si vedeva alcun pilastro morale, al quale appoggiarsi. Niente altro che avarizia miserabile da una parte e insensata sterilità dall’altra. Invece di pane, pietre; invece di insegnamenti, bastonate.

Introduzione. Una vetta

Pubblicati nel 1880 sulla rivista «Annali patrii», diretta per sette anni da Saltykov-Ščedrin, I signori Golovlëv sono una delle vette più elevate della letteratura russa dell’Ottocento, ovvero di quella eccezionale fase creativa che, inaugurata da Puškin, e da una sua opera in particolare, l’Evgenij Onegin [1], non ha probabilmente eguali nella storia del genere umano (a livello letterario, naturalmente). Nel suo capolavoro Saltykov-Ščedrin, tagliente scrittore satirico condannato dalle autorità zariste a un lungo esilio per le sue tendenze liberal-progressiste (impiegato nel 1844, appena diciottenne, nel Ministero della guerra a Pietroburgo, nel 1848 è costretto a trasferirsi a Vjatka, «con la semplice qualifica di copiatore di documenti ufficiali dell’amministrazione provinciale» [2], la stessa mansione di Akakij Akakievič Bašmačkin, il protagonista del Cappotto di Gogol’ [3]), narra le vicende di una famiglia della piccola nobiltà terriera russa, sulla quale pesa una «ineluttabile predestinazione», che, serpeggiante nell’ombra per generazioni, si manifesta in tutta la sua distruttiva inesorabilità con l’abolizione della servitù della gleba, sorta di ultima, estrema difesa, travolgendo, spazzando via tutto e tutti, beni e persone, servi e padroni.

Nei Signori Golovlëv Saltykov-Ščedrin mostra tutta la sua abilità, la sua maestria nella rappresentazione del disfacimento psico-fisico dell’uomo. Sono davvero memorabili le pagine del romanzo dedicate allo sfacelo di Stëpka-babbeo e Paška-taciturno, di Arina Petrovna e Porfiša-Sanguisuga-Iuduška. I personaggi dei Signori Golovlëv poi non sono esseri pensanti o sovra-pensanti come quelli che affollano le opere di Turgenev, Tolstoj e Dostoevskij, ma creature elementari tutte concentrate nei loro bisogni primari e bestiali, come il vizio e l’accumulo insensato di beni. Non vedono al di là del loro desiderio materiale e si distruggono inesorabilmente in esso, in un totale stato di incoscienza, ridotti ai minimi termini a livello spirituale e morale. Incoscienti e poveri di spirito: ecco cosa sono i signori Golovlëv, di cui certamente nessuno rimpiangerà l’inevitabile estinzione.

1. Stëpka-babbeo

Il romanzo si apre con il ritorno a Golovlëvo, la grande, rigogliosa e produttiva tenuta di famiglia, di Stëpka-babbeo, il maggiore dei fratelli Golovlëv, buffone quarantenne che ha dilapidato tutto il proprio patrimonio e non ha saputo mantenersi neppure uno dei tanti impieghi statali procuratigli dalla madre, la dispotica Arina Petrovna, che, rinchiuso il marito depravato in una stanza, gestisce con grande abilità e scaltrezza gli affari di famiglia, accumulando una fortuna. A Stëpka-babbeo, uno dei più grandi inetti della letteratura russa dell’Ottocento, completamente escluso dalla vita, perfettamente incapace, anche solo di formulare un pensiero più o meno sensato, e inutile, ma inutile davvero, non come gli uomini superflui, la cui inutilità è decretata dalla storia e dalla società [4], viene riservato lo stesso trattamento riservato al padre e agli altri «svergognati» della famiglia: viene cioè relegato da Arina Petrovna in una stanza della grande casa padronale e ridotto più o meno a pane e acqua.

D’estate la prigionia di Stëpka-babbeo è, tutto sommato, accettabile. Con l’arrivo dell’autunno diviene drammatica. Le strade di Golovlëvo si riempiono di fango, il cielo è ininterrottamente coperto di nubi immobili che gettano acqua senza sosta, come se venisse giù il diluvio universale. Nonostante l’oscurità, il freddo, la pioggia e il fango i contadini sgobbano, terminano di accumulare provviste per l’inverno (provviste destinate ad andare a male, a marcire a causa dell’avarizia di Arina Petrovna, che tiene tutti, familiari e servi, a stecchetto), «puntini neri» che si dibattono e riescono sempre, in un modo o nell’altro, a sistemarsi, si difendono, si rafforzano, mentre Stëpka-babbeo, che li osserva dalla sua piccola, lurida stanza buia (la madre gli nega persino un mozzicone di candela), se ne resta immobile, con le mani in mano, incapace di scuotersi, di reagire, di ribellarsi, divorato dall’angoscia, un’angoscia tutta istintiva, elementare, animalesca, propria di un uomo vuoto e incosciente, vittima di un irreversibile processo di decerebramento. A Stëpka-babbeo resta solo un conforto, quello dell’alcol, il vizio per eccellenza della famiglia Golovlëv. Stëpka-babbeo inizia a bere tutte le notti, solo nel buio terribile della sua stanza-cella, ed è straordinario il racconto delle sue solitarie e disperate sbronze notturne:

La torpida fantasia si sforzava di creare delle immagini; la memoria mortificata cercava di irrompere nella sfera del passato; ma quelle immagini riuscivano spezzate e insensate, incapaci di riflettere alcun ricordo né amaro, né luminoso, come se fra esso e il momento attuale si fosse eretta una grossa muraglia. Davanti a lui c’era solo il presente sotto forma di una prigione ermeticamente chiusa, nella quale era annegato il concetto di tempo e di spazio. La camera, la stufa, le tre finestre del muro esterno, il cigolante letto di legno col sottile materasso schiacciato, la tavola con su la fiaschetta formavano l’orizzonte, oltre il quale i suoi pensieri non spaziavano. Ma a mano a mano che diminuiva il contenuto della fiaschetta, a mano a mano che la testa gli s’infiammava, anche quell’esile riflesso del presente superava le sue forze. Il suo borbottio, che da principio aveva una certa forma, diventava alla fine del tutto incoerente; le pupille nello sforzo di distinguere qualche cosa nell’oscurità si dilatavano a dismisura; finché la tenebra stessa spariva e in sua vece appariva uno spazio pieno di luce fosforescente. Vi era un vuoto sconfinato, morto, che non riecheggiava alcun suono vivo, minaccioso. Egli lo inseguiva seguendo le orme dei suoi passi. Non esisteva più nulla, né pareti né finestre: solo un vuoto luminoso, esteso all’infinito. La paura cominciava a impadronirsi di lui; sentiva il bisogno di soffocare violentemente il sentimento della realtà, perché non vi fosse neppure quel vuoto. Ancora qualche sforzo e lo scopo era raggiunto. Le gambe vacillanti portavano da una parte all’altra il suo corpo inerte; dal petto non gli uscivano più brontolii, ma grida; la sua stessa esistenza sembrava interrotta. Una strana rigidezza l’invadeva, e in essa spariva ogni sintomo di vita cosciente, mentre emergevano le forme di un’altra vita che si sviluppava indipendente, estranea a qualsiasi contingenza reale. Gemiti su gemiti gli uscivano dal petto, senza tuttavia interrompergli il sonno; la malattia dell’organismo continuava il suo lavorio demolitore, ma apparentemente non provocava in lui alcuna sofferenza fisica [5].

La vodka permette a Stëpka-babbeo di evadere, di entrare, almeno per qualche ora, in un’altra dimensione, una dimensione infinita e luminosa che svanisce una volta superata la sbornia. Al mattino tornano a tormentarlo la tristezza, il disgusto e l’odio, un odio sordo, cieco, insensato, «senza protesta e senza ragione, l’odio contro qualcosa d’indefinito, che non aveva forma» (67). Stëpka-babbeo passa le interminabili ore del giorno senza pensieri, senza desideri, la testa depensante piena dell’immagine dell’oggetto fissato dal suo sguardo smorto (la stufa, la finestra ecc.), in attesa di una nuova notte di libertà e beatitudine, «allorché la terra spariva sotto i piedi e invece di quattro muri schifosi, si riapriva davanti agli occhi un vuoto sconfinato e luminoso» (68).

Arina Petrovna trascura completamente quello «stallone perticone» del primogenito (i soprannomi dei figli sono suoi), e senza intenzione. Semplicemente si è dimenticata del figlio, termine che, nel vocabolario dell’autoritaria padrona, ha significati esclusivamente negativi (la procreazione è per lei una sorta di inevitabile effetto collaterale dell’esistenza, di cui avrebbe fatto volentieri a meno):

Non c’era alcuna intenzionalità nel suo modo d’agire verso il babbeo: era una semplice dimenticanza. Non le passava nemmeno per la mente che lì vicino, nell’ufficio, viveva una creatura legata a lei con vincoli di sangue e che probabilmente languiva di nostalgia per la vita. Come lei, entrata una volta sul binario dell’esistenza, riempiva questa quasi macchinalmente sempre con lo stesso contenuto, così credeva che in egual modo dovessero agire anche gli altri (ibidem).

Arina Petrovna torna bruscamente alla realtà quando le comunicano che Stëpka-babbeo è scomparso, è evaso fisicamente dalla sua stanza-cella, piccola, buia, lurida, puzzolente di vodka, tabacco e pelliccia di montone rancida. Ricondotto presto a casa, Stëpka-babbeo non apre più bocca, si rinchiude in un silenzio ostinato, inespugnabile e passa le giornate camminando su e giù nella sua camera, muovendo ininterrottamente le labbra, ma senza dire niente: i suoi pensieri sono così deboli da svanire subito nel nulla, nel vuoto della sua incoscienza. In realtà Stëpka-babbeo non pensa affatto, sprofondato in quelle «tenebre senza alba, nelle quali non c’è posto non solo per la realtà, ma nemmeno per la fantasia. Il suo cervello elaborava qualcosa, ma questo qualcosa non aveva alcuna relazione né col passato, né col presente, né col futuro. Era come se lo avvolgesse da capo a piedi una nuvola nera e lui la guardasse e ne spiasse il fluttuare, riscotendosi ogni tanto come per difendersene. In questa nuvola enigmatica era immerso tutto il suo mondo fisico e spirituale…» (72). Stëpka-babbeo muore in queste condizioni, come tutti gli altri svergognati della famiglia Golovlëv. Non è il primo, non sarà l’ultimo.

2. Paška-taciturno

È l’abolizione della servitù della gleba, decretata dallo zar Alessandro II nel 1861, a interrompere per sempre l’autoritario dominio di Arina Petrovna, che si lascia travolgere dalle sue fosche, del tutto immotivate fantasie (l’atavica propensione alla fantasticheria dei Golovlëv è sintomo della loro «insensata sterilità»), fino a trascurare gli affari. Esortata da Porfiša-Sanguisuga, detto anche Iuduška, piccolo Giuda, il più subdolo, strisciante e ipocrita dei suoi figli, indosso la maschera permanente di rampollo devoto e cristiano virtuoso, Arina Petrovna divide la grande tenuta di Golovlëvo ai due figli che le restano, Porfiša-Sanguisuga appunto, che si accaparra la parte migliore della proprietà, e Paška-taciturno, trattenendo per sé solo il capitale.

Come Stëpka-babbeo anche Paška-taciturno, dal quale si è trasferita Arina Petrovna, animata da un odio profondo verso Iuduška, alla fine dei suoi giorni precipita nell’alcol. Rintanato nel suo ammezzato, dove le caraffe di vodka si susseguono una dietro l’altra, Paška-taciturno «aveva cominciato a detestare la compagnia delle persone vive e, in loro vece, si era creato una realtà particolare, fantastica» (92), nella quale, in un «intero romanzo stupidamente eroico», si misura con l’odiatissimo fratello Iuduška, di cui teme persino lo sguardo e la voce, perché nell’assurda fantasia dell’ubriacone il primo irradia un «veleno ammaliatore», mentre la seconda striscia «nell’animo come una serpe» e paralizza «ogni volontà». Nella sua realtà parallela Paška-taciturno sogna di sconfiggere finalmente Porfiša-Sanguisuga:

Nella fantasia riscaldata dal vino si creavano interi drammi, nei quali erano vendicate tutte le offese e nei quali l’offensore non era più Iuduška, ma lui. Una volta si immaginava di aver vinto il premio di duecentomila rubli e di essere andato a comunicare la notizia a Porfiša (una completa scena dialogata) al quale si torceva perfino il viso per l’invidia. Un’altra volta si immaginava che fosse morto un nonno (di nuovo una scena dialogata sebbene non esistesse nessun nonno), che gli aveva lasciato un milione e a Porfiša-Sanguisuga nemmeno una copeca. Poi fantasticava di aver inventato il modo di rendersi invisibile e poter così tormentare Porfiška con ogni sorta di bassezze, da farlo gemere. Nell’inventare quei dispetti era inesauribile e il suo riso assurdo rintronava dall’ammezzato […] (93).

L’alcol abbatte anche Paška-taciturno e la morte imminente del figlio che l’ha presa con sé precipita Arina Petrovna nella disperazione. La vecchia donna, vedendo il destino cupo, misero che la attende piange lacrime amare, e scopre di essersi ammazzata di lavoro per niente, di aver accumulato beni per nessuno, o meglio, per uno spettro, quello spettro chiamato «famiglia» che le stava sempre sulle labbra, ma che non esiste, non è mai esistito:

In tutta la sua vita aveva cercato sempre di sistemare qualcosa, si era sempre mortificata per qualcosa ed ora risultava che s’era ammazzata sopra un fantasma. In tutta la sua vita la parola «famiglia» era stata sempre sulle labbra; nel nome della famiglia aveva sottoposto se stessa alle privazioni, si era torturata, aveva rovinato la propria esistenza, e ad un tratto, proprio una famiglia le mancava (95).

Iuduška, che sente puzza di carogna a decine e decine di verste di distanza, si reca dal fratello Paška-taciturno, oramai moribondo, e lo tormenta con la sua ipocrisia, con la sua commedia, che recita con una naturalezza diabolica. Esasperato, torturato, Paška-taciturno «aveva l’impressione di essere messo vivo nella bara, come incatenato in un sonno letargico senza possibilità di muovere né braccia né gambe e di essere costretto ad ascoltare come Sanguisuga imprecasse sul suo corpo…» (110). Paška-taciturno muore tra i tormenti.

3. Arina Petrovna

Rimasta sola, completamente sola, e inattiva, Arina Petrovna scivola poco a poco in una «sonnolenta inerzia» che la svuota, la prosciuga: «Della donna forte e discreta che nessuno si sarebbe permesso di chiamare vecchia, restava ormai un rudere per cui non esistevano né passato né futuro, ma solamente l’attimo in cui doveva vivere» (135). Chiusa in una stanza, sola, abbandonata, stanca, assonnata, Arina Petrovna, incapace persino di ricordare, di tanto in tanto, come per caso, è colpita da qualche lontano particolare della sua storia passata, da un’offesa «amara e insopportabile», perché avara di gioie è stata la sua vita, e piange, piange «pesantemente, con sofferenza, […] come piange la vecchiaia miserabile quando le lacrime sgorgano sotto il peso di un incubo» (136). E così Arina Petrovna si trascina, «senza prender parte personalmente alla vita, ma solo in forza della circostanza che in quella rovina ancora si conservavano alcuni dimenticati residui che si dovevan raccogliere, calcolare e portare a conclusione» (ibidem). Così il giorno; peggio, molto peggio la notte, in cui Arina Petrovna è tormentata dalla paura, una paura nera come l’oscurità che la avvolge, dei ladri, degli spettri, dei diavoli, ovvero «di tutto ciò che costituiva il prodotto della sua educazione e della sua vita» (137).

Quanto più Arina Petrovna si fa decrepita, quanto più in lei si sviluppa il sentimento della propria inesorabile decrepitezza, tanto più si manifesta in lei il desiderio di vivere, di «godere», accompagnato da una completa incoscienza della morte: «Prima ella aveva paura della morte; adesso sembrava averla del tutto dimenticata» (139). Arina Petrovna sogna Golovlëvo, nelle mani del solo Iuduška, che si è preso tutto, la sua abbondanza, la sua vitalità. Ogni giorno di più avvinta dal destino di parassita che la attende inesorabile alla fine della sua parabola esistenziale, Arina Petrovna si riavvicina a Porfiša-Sanguisuga, per saziare i propri desideri di «buona vita», e Iuduška finisce per assumere su di sé questa vecchia e decrepita croce, perché non c’è niente che egli tema di più della maledizione della madre, il cui pensiero terribile lo trattiene «da molte porcherie nelle quali era grande maestro» (141).

NOTE

[1] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Aleksandr Puškin, «Evgenij Onegin»: il coraggio di rinunciare. Prima parte, Seconda parte.

[2] Matteo Compagnucci, Nota sull’autore, in Michail Saltykov-Ščedrin, I signori Golovlëv, Quodlibet, Macerata 2022, p. 370.

[3] Per un approfondimento sul racconto rimando al contributo Nikolaj Gogol’, «Il Cappotto»: storia straordinaria del consigliere titolare Akakij Akakievič Bašmačkin.

[4] Per un approfondimento su questa fondamentale categoria di personaggi della letteratura russa dell’Ottocento rimando al contributo Ivan Turgenev, «Diario di un uomo superfluo»: la triste storia di Čulkaturin.

[5] Michail Saltykov-Ščedrin, I signori Golovlëv, traduzione di Ettore Lo Gatto, cit., pp. 66-67. D’ora in avanti il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

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