«Note invernali su impressioni estive»: Dostoevskij nel «paese dei santi prodigi» – Seconda parte

3. Il palazzo di cristallo

È nelle Note invernali che compare per la prima volta l’immagine spaventosa e straniante, ripresa poi nelle Memorie dal sottosuolo, del palazzo di cristallo. Edificato a Londra nel 1851, il palazzo di cristallo fu il principale padiglione delle esposizioni universali del 1851 e del 1862, visitato personalmente da Dostoevskij durante il suo primo viaggio in Europa. Lo scrittore ne fa «il simbolo di una società senza Dio nella quale trionfa il materialismo» [1], l’esito terrificante dell’ideale di progresso e benessere proprio della borghesia europea:

E la City, coi suoi milioni e col commercio mondiale, il palazzo di cristallo, l’esposizione universale… Sì, l’esposizione è qualcosa di sbalorditivo. Vi percepite una forza tremenda che ha lì riunito in un unico gregge tutto quell’incalcolabile numero di persone giunte da ogni parte del mondo. Voi avete coscienza d’un pensiero immane: percepite che lì qualcosa è già stato raggiunto, che lì è la vittoria, lì è il trionfo. Cominciate persino come a temere qualcosa. Per quanto siate indipendenti, pure per un qualche motivo sarete assaliti dal timore. “Non è forse questo, realmente, l’ideale raggiunto?” così vi vien da pensare. “Non è questa la fine? E non è già questo, in effetti, l”unico gregge’?” E non bisognerà dunque accettare tutto ciò come la completa verità, e tacere per sempre? Tutto questo è a tal punto solenne, vittorioso e fiero, che cominciate a sentire un peso sul cuore. Guardate queste centinaia di migliaia, questi milioni di persone che docili sono affluite fin qui da tutte le parti del globo terrestre: persone giunte con un unico pensiero, che si affollano tranquillamente, con ostinazione e in silenzio in questo palazzo colossale, e percepite che lì si è realizzato qualcosa di definitivo, si è realizzato e si è concluso. È una sorta di quadro biblico, un’evocazione di Babilonia, una specie di profezia dell’Apocalisse quella che si va realizzando davanti ai vostri occhi. Voi percepite che occorre molta resistenza spirituale e un’eterna capacità di negazione per non cedere, per non soggiacere all’effetto, per non inchinarsi davanti al fatto e per non deificare Baal, e cioè per non accettare quello che esiste come il proprio ideale… [2]

Il palazzo di cristallo è la fine, la meta ultima della società, o meglio, della civiltà occidentale, la perfetta realizzazione del mito moderno per eccellenza, il progresso, in cui tutto è predisposto, calcolato, pesato, controllato, in cui l’individuo, privato della personalità, ridotto a mera materia, secondo un processo di reificazione perfezionato nel corso dei secoli, non ha più nulla da raggiungere, da conquistare, da desiderare, devoto al falso dio Baal, divinità artificiale, meccanica eppure avida di sacrifici umani, insaziabile. L’umanità è ridotta a un «unico gregge», secondo la definizione giovannea, ma un gregge spersonalizzato, composto di automi privi di spirito e di una coscienza critica, che soggiace docile e silenzioso al cospetto della straniante grandezza moderna. Ma non si tratta forse di sciocchezze, delle isteriche, apocalittiche fantasie di un uomo malato di fegato e debole di nervi, di suggestioni scenografiche, di esagerazioni catastrofiche? Forse, ma se «aveste visto com’era fiero lo spirito possente che aveva creato questa colossale scenografia, e con quale fierezza era convinto della sua vittoria e del suo trionfo, anche voi sareste rabbrividiti per questa sua arroganza, per la sua ostinazione, per la sua cecità, sareste rabbrividiti anche per quelli sui quali domina e regna questo spirito fiero» [3]. Baal «schiaccia» la massa affamata, che resta sbalordita dinanzi alla sua artificiale magnificenza e si sottomette silenziosa, cercando conforto nell’alcol e nella depravazione, come vedremo, ormai certa che «così debba essere». La massa intorpidita scivola inesorabilmente in una «inerzia da impero cinese», e se pure in essa si forma di tanto in tanto un briciolo di scetticismo, un piccolo slancio di rivolta, non è abbastanza forte, non è abbastanza consapevole, concretizzandosi infine in ridicole e inutili stravaganze settarie.

4. La massa ovvero i sacrificati a Baal

Le pagine più impressionanti e terribili delle Note invernali sono dedicate alla massa che affolla la metropoli londinese, che si accalca e stordisce al di fuori del palazzo di cristallo, nuovo tempio moderno, ferrigna torre di Babele edificata «non per raggiungere i cieli dalla terra, ma per abbassare sulla terra i cieli» [4]. Dostoevskij lascia entrare nella sua opera la moltitudine umiliata, avvilita, schiacciata, inerte, inconsapevole degli operai londinesi, «negri bianchi» sfruttati senza ritegno, senza vergogna, sacrificati all’utile, che ogni sabato notte si riversa in strada mangiandosi e bevendosi «tutto quello che ha faticosamente messo insieme a forza di duro lavoro e di maledizioni» [5]. È questa l’altra, terribile faccia del progresso: da una parte il palazzo di cristallo, trionfo della materia, dall’altra la massa silenziosa e abbrutita che disperde nel vizio la fatica e la sofferenza, sotto lo sguardo gelido di Baal, che non esige più la sottomissione «perché di essa egli è certo». Nella notte che precede l’agognato giorno di riposo, la moltitudine di operai si abbandona all’ubriachezza, «ma senz’allegria», disperatamente, soltanto perché così, evidentemente, deve essere, e appare «cupa, opprimente», «stranamente silenziosa». Essa non è più popolo, «ma solo un intontimento, una perdita della coscienza, sistematica, sottomessa, incoraggiata» [6]. L’incoscienza agevola il compito dell’autorità, estirpa alla radice l’istinto di rivolta naturalmente proprio di ogni individuo, inibisce qualunque slancio critico, negativo: della massa abbrutita, repressa, abbandonata all’ignoranza si può fare ogni cosa.

Alla folla senza nome, senza volto, senz’anima e senza storia degli operai, si affianca la folla di prostitute raccolta nel quartiere di Hay-Market, sorta di mercato di carne umana dove le madri conducono le figlie ancora minorenni a imparare il mestiere. In questo girone infernale, in questo tempio della depravazione in cui compaiono talvolta come fuggevoli spettri dei volontari cattolici che distribuiscono biglietti di dissuasione, è possibile scovare persino delle bambine di dodici anni, ed è struggente il ricordo dell’incontro di Dostoevskij con una bimba di appena sei anni, ricoperta di lividi, raminga in quell’inferno di corpi senza valore:

Ricordo che una volta, per strada, vidi una bambina di non più di sei anni, tutta stracciata, lurida, scalza, emaciata, e che era stata picchiata: il corpo che s’intravvedeva tra gli stracci era coperto di lividi. Andava come dimentica di sé, senza affrettarsi in alcun luogo, e sa Dio per quale motivo gironzolasse tra quella folla: forse aveva fame. Nessuno le prestava attenzione. Ma quello che sopra ogni altra cosa mi colpì fu che camminasse con una tale aria di dolore, con una tale irrimediabile disperazione sul volto, che il vedere questa creaturina che già portava su di sé tanta maledizione e disperazione era persino in qualche modo innaturale e tremendamente penoso. Continuava a far oscillare la testa arruffata da una parte all’altra, come se stesse discutendo di chissà cosa, allargava le braccine, gesticolando, e poi all’improvviso intrecciava le mani e le premeva sul petto nudo. Tornai indietro e le allungai un mezzo scellino. Ella afferrò la monetina d’argento e mi guardò negli occhi in modo selvaggio, con uno stupore timoroso, e all’improvviso si gettò in avanti correndo con tutte le forze, temendo che le riprendessi i denari. Storielle amene, insomma…

Nel destino terribile, di miseria e di violenza, di questa bambina, picchiata e abbandonata a se stessa, nella sua sofferenza disperata, senza senso e senza nome, sono racchiuse tutte le contraddizioni e le ombre dell’Occidente, del suo presunto mito di civiltà e di benessere, di pace, abbondanza e prosperità. Fin quando i bambini continueranno a soffrire, continueranno a morire non sarà possibile un autentico, reale progresso umano.

5. Liberté, égalitè, fraternitè

Londra e Parigi sono le due grandi metropoli europee del XIX secolo, e come tali sono le due città alle quali Dostoevskij dedica maggiore attenzione nelle Note invernali. Se Londra è il regno di Baal, in cui dominano il palazzo di cristallo e la massa informe degli operai e delle prostitute, Parigi è il regno del borghese, il cui unico scopo nella vita è accumulare quanto più denaro possibile: «Accumulare una fortuna e possedere la maggior quantità possibile di cose: questa è diventata la principale norma di moralità, il catechismo del parigino» [7]. Un catechismo in cui la parte più preziosa dell’uomo, quella spirituale, è mutilata e tutto è subordinato alla materia, alla sostanza, al valore economico, al denaro. Solamente se in possesso di una considerevole somma di denaro si può contare sulla considerazione, sul rispetto, e non solo degli altri, ma anche e soprattutto di se stessi. La vita ha senso solamente se si hanno le tasche piene: allora tutto diviene magicamente possibile. Persino gli operai, che in teoria rappresentano la categoria degli oppressi, dei vessati, delle vittime dell’avidità borghese, aspirano oramai esclusivamente al possesso, all’accumulo, facendone il loro ideale (il proletariato si è imborghesito, insomma, ed è sorprendente il modo in cui Dostoevskij precorre i tempi, intuendo un fenomeno sociale determinante nella storia moderna e contemporanea dell’Occidente; la straordinaria acutezza dello sguardo gli permette di cogliere aspetti essenziali della civiltà europea): «anche gli operai sono diventati tutti dei proprietari, nell’anima: tutto il loro ideale sta nel divenire proprietari e nell’accumulare la maggior quantità di cose possibili: così è la loro natura» [8], secondo un processo di materializzazione secolare che ha agito nel profondo degli uomini.

Analizzando il primo dei tre grandi ideali della rivoluzione francese, Dostoevskij elabora una definizione illuminante e memorabile della libertà nel regno capitalistico del borghese, il nostro regno: si è liberi soltanto se si possiede almeno un milione, e che cos’è un uomo senza un milione? «Un uomo senza un milione è colui che non fa tutto quello che vuole, bensì è colui del quale si fa tutto quello che si vuole» [9]. Dostoevskij formula la legge fondamentale della contro-etica borghese, mercantile, capitalistica, dalla validità universale: la libertà dell’individuo, dunque l’individuo stesso, perché l’individuo si costituisce proprio a partire dalla libertà, come evidenzierà con una lucidità e una chiarezza estreme, spietate il Grande Inquisitore [10], è ridotta alla sua sostanza, al suo patrimonio, al suo conto in banca, diremmo oggi. La libertà ha un costo, e un costo altissimo. Una logica materialista che permette di dividere il mondo occidentale in due macro-categorie: i milionari-padroni da una parte, i non-milionari-schiavi dall’altra. I primi possono fare tutto ciò che vogliono, ai secondi si può fare tutto ciò che si vuole. È il denaro a misurare i diritti ed è comprensibile che gli operai, perfettamente integrati all’interno della logica capitalistica, svuotati spiritualmente, individuino nella proprietà l’unica possibilità di riscatto. Un sistema perfetto, in cui ogni istintivo slancio di rivolta è soffocato sul nascere.

In campo letterario, esattamente nello stesso momento, si ribella al dominio borghese Baudelaire, fondando su questa ribellione la propria poesia rivoluzionaria [11]. Cito Baudelaire perché, figlio della capitale borghese, Parigi, Baudelaire è il poeta anti-borghese per eccellenza, il primo letterato a costituire consapevolmente sulla rivolta contro il regime capitalistico e il suo dio, il dio dell’utile, la propria attività artistico-letteraria. Baudelaire rivendica con forza l’indipendenza dell’arte e dell’artista, fiero della propria inutilità, della propria improduttività: «Essere un uomo utile mi è sempre sembrato qualcosa di molto repellente» [12]. Nella critica del regime borghese e della sua logica mercantile s’incontrano, ma non è certo l’unico punto di contatto, i due autori che maggiormente hanno influenzato la letteratura avvenire, ed è un dato significativo, che dimostra come l’arte rappresenti il principale mezzo di resistenza a una società che riduce tutto, ma proprio tutto, in primis la libertà dell’individuo, a una merce. Baudelaire e Dostoevskij ricordano l’importanza dello spirito in un mondo dominato dalla materia, un mondo di cui il poeta francese, in alcune paginette terribili di Razzi, predice gli effetti devastanti:

Allora, quel che somiglierà alla virtù, – che dico, – tutto quel che non sarà più ardore per Pluto verrà considerato una ridicolaggine immensa. La giustizia, se in quell’epoca fortunata potrà ancora esistere una giustizia, farà interdire quei cittadini che non abbiano saputo far fortuna. – La tua sposa, oh Borghese! la tua casta metà, la cui legittimità è, per te, la tua poesia, introducendo ormai nella legalità un’infamia irreprensibile, amorosa e vigile guardiana della tua cassaforte, non sarà altro che il perfetto ideale della mantenuta [considerevole, in tal senso, che l’ultimo capitolo delle Note invernali sia proprio dedicato al matrimonio tra borghesi, tra bribri e mabiche]. Tua figlia, con infantile nubilità, sognerà nella culla di vendersi per un milione. E tu stesso, oh Borghese – meno poeta ancora di quanto tu oggi non sia – non troverai in tutto questo nulla da ridire; non rimpiangerai nulla [13].

Tornando alle Note invernali, per quanto riguarda gli altri due grandiosi ideali della rivoluzione francese, l’eguaglianza davanti alla legge non è altro che un’«offesa» (come può esistere un’eguaglianza legislativa quando la libertà individuale è determinata esclusivamente dal denaro?), mentre la fratellanza, «principale pietra d’inciampo dell’Occidente», è relegata a una dimensione puramente ideale, impossibile da riscontrare nella realtà. La fratellanza è un sentimento naturale, ma nella natura occidentale, invece della fratellanza, domina il «principio personale, il principio dello starsene per conto proprio, dell’autoconservazione intensiva, dell’autosufficienza, dell’autodeterminazione del proprio Io personale, della contrapposizione di questo Io alla natura tutta e a tutta la restante umanità in quanto singolo principio autonomo, e di per sé assolutamente eguale ed equivalente a tutto quello che esiste al di fuori di esso» [14]. L’etica dostoevskiana va in tutt’altra direzione, individuando il massimo sviluppo della personalità umana nel sacrificio, nel donarsi completamente, incondizionatamente agli altri:

il sacrificio di tutto se stesso a beneficio degli altri, il sacrificio volontario, assolutamente cosciente e non costretto in alcun modo, è a parer mio il segno della massima evoluzione della personalità, della sua massima potenza, del suo massimo autocontrollo, della massima libertà della propria volontà. Sacrificare volontariamente la propria vita per tutti, andare in nome di tutti sulla croce, sul rogo, lo si può fare solo laddove una personalità abbia raggiunto il più alto grado di sviluppo. Una personalità saldamente sviluppata, pienamente convinta del proprio diritto di essere una personalità, e che non prova più alcun timore per se stessa, non potrebbe forse nemmeno fare altro di sé, ovvero nessun altro uso, se non darsi tutta per gli altri, perché anche gli altri diventino esattamente altrettante personalità autonome e felici. Questa è una legge di natura: a ciò tende normalmente l’uomo [15].

Concetti che Dostoevskij ribadirà con rinnovata, quasi mistica convinzione nei Pensieri sulla morte e sull’immortalità [16], scritti il 16 aprile 1864 durante la veglia della salma di Marija Dmitr’evna, la sua prima moglie, e che verranno incarnati dai suoi personaggi laici più luminosi e belli, la Sonja di Delitto e castigo e, soprattutto, il principe Myškin, l’unica figura dostoevskiana dichiaratamente ispirata a Cristo [17].

Conclusione. La resistenza

Nel corso delle Note invernali Dostoevskij lascia progressivamente da parte l’iniziale contrapposizione tra Russia ed Europa, concentrandosi «su un’analisi penetrante del capitalismo nelle sue manifestazioni più “pure”, più spietate» [18]. Ne emerge un quadro cupo, desolato e desolante, del tutto privo di soluzioni: il problema del borghese «è un fenomeno descritto, sviscerato, sbeffeggiato, ma tale resta nel tempo presente e nella storia» [19]. La soluzione presentata da Dostoevskij nelle Note invernali è «altrove», nella dimensione creativa, letteraria, filosofica, più in generale artistica, «è nell’estrema libertà di un narratore che non sottostà a regole, che non accetta limitazioni di sorta, e che solo nella trasgressione (dei generi letterari) e nella denuncia (dei comportamenti umani) trova una sua ironica soddisfazione» [20]. L’arte come rivendicazione della libertà individuale, della coscienza critica, dell’emancipazione spirituale e dei fondamentali diritti dell’uomo. L’arte come resistenza al regime borghese, capitalista e alla Storia in generale, alla sua violenza, alla sua ferocia.

Nelle Note invernali su impressioni estive Dostoevskij smaschera l’Occidente, ne rivela le crepe, le storture, le contraddizioni, i lati più oscuri, sanguinosi, repressivi e ne demolisce il mito, offrendo al lettore un punto di vista critico, negativo di bruciante attualità, utilissimo per comprendere la reale natura della civiltà capitalista, la nostra civiltà, divenuta globale, priva di confini, da Occidente a Oriente, in cui, oggi come ieri, un uomo con un milione può fare tutto ciò che vuole, mentre a un uomo senza un milione possono fare tutto ciò che vogliono.

NOTE

[1] Serena Prina, Introduzione a Fëdor Dostoevskij, Note invernali su impressioni estive, Feltrinelli, Milano 2020, p. 21.

[2] Fëdor Dostoevskij, Note invernali su impressioni estive, a cura di Serena Prina, cit., p. 69.

[3] Ivi, p. 70.

[4] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, a cura di Serena Prina, Feltrinelli, Milano 2014, p. 42.

[5] Fëdor Dostoevskij, Note invernali su impressioni estive, cit., p. 71.

[6] Ibidem.

[7] Ivi, p. 81.

[8] Ivi, p. 84.

[9] Ivi, p. 85.

[10] Per un approfondimento sul celebre poema di Ivan Karamazov rimando al capitolo quinto dello studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso: Ivàn, il nichilista estremo – V-VI.

[11] Per un approfondimento sul poeta francese rimando al contributo La rivoluzione di Baudelaire. Prima parte, Seconda parte.

[12] Charles Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo, a cura di Diana Grange Fiori, Adelphi, Milano 2006, p. 55.

[13] Charles Baudelaire, Razzi, in Id., Il mio cuore messo a nudo, cit., p. 34.

[14] Fëdor Dostoevskij, Note invernali su impressioni estive, cit., p. 86.

[15] Ivi, p. 87.

[16] «[…] dopo la comparsa di Cristo come ideale dell’uomo incarnato, è diventato chiaro come il giorno che l’evoluzione ultima e suprema della personalità individuale (e questo proprio al culmine dell’evoluzione, anzi nel momento stesso in cui il fine dell’evoluzione sarà raggiunto) in cui l’uomo riconosca, si renda conto e si convinca con tutta la forza della sua natura che l’impiego più alto che egli possa fare della sua individualità, nel momento in cui il suo io abbia raggiunto la pienezza dello sviluppo, consiste nel distruggere questo stesso io, nel donarlo interamente a tutti e a ciascuno indivisibilmente e senza riserve» (citato in Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, p. 154).

[17] Per un approfondimento sul personaggio rimando al contributo Il sovversivo «Idiota» di Dostoevskij. Prima parte, Seconda parte.

[18] Serena Prina, Introduzione, cit., p. 16.

[19] Ivi, p. 22.

[20] Ibidem.

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