Un uomo senza un milione è colui che non fa tutto quello che vuole, bensì è colui del quale si fa tutto quello che si vuole.
Introduzione. Il primo viaggio in Europa
Il 7 giugno 1862 Dostoevskij parte per il suo primo viaggio in Europa. Giunto a Berlino dopo sedici ore di treno, in appena due mesi e mezzo visita, oltre alla capitale tedesca, Dresda, Wiesbaden, dove passa un’intera giornata a giocare alla roulette (è in questo momento che lo afferra il demone del gioco, che lo perseguiterà per quasi dieci anni), Francoforte, Heidelberg, Baden-Baden, Colonia, Parigi, la città dove soggiorna più a lungo, Londra, dove incontra Herzen, intellettuale dissidente autore delle due più importanti riviste antigovernative stampate all’estero e pubblicate clandestinamente in Russia (di Dostoevskij Herzen apprezza soprattutto, come Tolstoj e poi come Nietzsche, che lo definirà «uno dei libri più umani che siano mai stati scritti» [1], le Memorie di una casa morta [2]), Ginevra, Düsseldorf, Lucerna, Torino, Genova, Livorno, Firenze, Milano, Venezia e infine Vienna. In poco più di due mesi Dostoevskij attraversa mezza Europa, la divora, con il suo consueto approccio travolgente alla vita, passa per l’Occidente come un turbine, gettando occhiate rapide, ma avide e penetranti, animato dal desiderio incontenibile di vedere e quasi di toccare con mano «tutto, assolutamente tutto, senza badare al tempo che avevo a disposizione» [3], come spiega egli stesso nelle Note invernali su impressioni estive, il testo frutto di questo primo viaggio dello scrittore nel «paese dei santi prodigi», secondo l’ideale definizione dell’Europa del poeta Chomjakov, qui ripresa con intento ironico e polemico (scritte al rientro in Russia, le Note invernali compaiono nel 1863, sul «Tempo», la prima, importante e celebre rivista fondata dai fratelli Dostoevskij).
Ma chi è Dostoevskij nel 1862? È un uomo di quarant’anni «che ha alle spalle gli anni della deportazione [rievocati artisticamente nelle già citate Memorie di una casa morta] e del confino, che si sta giocando la vita nella disperata ricerca di un “rilancio” in ambito letterario [Dostoevskij rilancia sempre, nell’arte, nel gioco, nella vita, è la sua natura, intollerante alla mediocrità e al grigiore], immerso nella puntualizzazione di un sistema di pensiero, filosofico e artistico; è un uomo chiaramente in crescita, che non è stato piegato dal potere repressivo delle galere zariste, e lo cogliamo nel pieno della dinamica di questa sua evoluzione: è polemico, arbitrario, ingiusto, purtuttavia in possesso di una forza straordinaria nella formulazione delle sue teorie» [4]. La polemica, l’arbitrarietà, l’ingiustizia, la forza riflessiva sono aspetti che il Dostoevskij del 1862 condivide con una delle sue creature letterarie più straordinarie, quell’uomo del sottosuolo le cui Memorie, pubblicate nel 1864 [5], dunque un anno dopo le Note invernali, che ne rappresentano una sorta di prologo, s’impongono come il «punto di svolta essenziale» [6] nell’opera dello scrittore russo. I due testi sono intimamente legati, il punto di vista narrativo, critico, destrutturante, corrosivo, ironico è lo stesso: il narratore delle Note invernali, che non corrisponde completamente al loro autore (si tratta pur sempre di una creazione letteraria, e come tale deve essere giudicata), è «in tutto simile al narratore delle Memorie dal sottosuolo» [7], ed è proprio da questo singolarissimo aspetto che iniziamo la nostra analisi dell’opera.
1. L’uomo del sottosuolo in Europa
Oltre all’approccio polemico, corrosivo, dissacratorio e al tono incalzante e beffardo, il Dostoevskij narratore delle Note invernali e l’uomo del sottosuolo condividono l’età e una presunta malattia al fegato. Un dato rilevante quest’ultimo, considerando l’importanza riservata da Dostoevskij alle condizioni psico-fisiche dell’individuo nella valutazione di un luogo (aspetto sottolineato dall’autore nella non-prefazione delle Note invernali). Per questo motivo Berlino è dispiaciuta tanto al narratore, perché visitata dopo due sfiancanti giorni di viaggio nella pioggia e nella nebbia, che non hanno di certo influito in modo positivo sulla sua sensibilissima irritabilità (avrebbe potuto fermarsi nella capitale tedesca per qualche giorno, ma la «sete inestinguibile di cose nuove, di mutamenti di luoghi, d’impressioni sintetiche, panoramiche, prospettiche» [8] è troppo forte, davvero incontenibile e, formulato un giudizio, per quanto parziale e arbitrario, condizionato dallo stato d’animo e dal malessere del momento, lo spinge subito altrove, in un’altra città, in un altro paese). Allo stesso modo, è proprio la sua presunta, misteriosa malattia al fegato a fargli giudicare negativamente le donne di Dresda, tutte, indistintamente, come se avesse parlato con ognuna di loro: «Ma veramente […] veramente l’uomo, questo zar della natura, può dipendere fino a tal punto dal proprio fegato? Che bassezza!» [9].
Ci sono momenti nelle Note invernali in cui la corrispondenza tra il narratore e l’uomo del sottosuolo è pressoché perfetta, come quando descrive il suo immotivato, fantasioso, pregiudiziale, del tutto autoreferenziale risentimento per l’impiegato tedesco incaricato di riscuotere il pedaggio per l’attraversamento del nuovissimo, modernissimo ponte di Colonia (risentimento che gli avvelena il soggiorno nella città e il giudizio della sua celebre cattedrale):
E poi l’uomo che riscuoteva il Groschen all’ingresso del ponte non avrebbe dovuto incassare da me il pur ragionevole pedaggio con quell’aria che pareva mi stesse facendo pagare una multa per una qualche colpa a me ignota ch’avevo commesso. Non so, ma mi parve che il tedesco si ringalluzzisse. “Probabilmente ha indovinato che sono straniero, e precisamente russo,” pensai. Per lo meno i suoi occhi parevano dire: “Lo vedi il nostro ponte, tu, povero russo. E tu sei un verme a confronto col nostro ponte e con qualsiasi tedesco, perché tu un ponte come questo non ce l’hai”. Mi concederete anche voi che era una cosa offensiva. Il tedesco, ovviamente, non le disse affatto queste cose, e forse non gli passò nemmeno per la testa di dirle, ma questo non cambia proprio nulla: giacché io ero allora a tal punto convinto che proprio questo egli avesse voluto dirmi, che montai definitivamente su tutte le furie [10].
In questo episodio esilarante è racchiusa e anticipata l’essenza dell’uomo del sottosuolo, per il quale le proprie fantasie avvelenate, le proprie manie di persecuzione hanno importanza tanto quanto un fatto reale (l’uomo del sottosuolo è il primo martire di se stesso). Inoltre questo passo dimostra chiaramente come le Note invernali non rappresentino affatto il classico, scontato resoconto di viaggio ottocentesco, ma siano una vera e propria creazione letteraria in cui riflessione, polemica e narrazione si fondono in un testo che sarebbe riduttivo definire semplicemente pamphlet. Dostoevskij stesso si maschera, assume, quasi indossa il punto di vista e l’approccio critico-polemico del suo futuro personaggio, anticipando così nelle Note invernali temi fondamentali delle Memorie dal sottosuolo. Lo scrittore, come spiega nella non-prefazione, non pone al centro del testo, emblematicamente postumo, nato diversi mesi dopo il suo rientro in Russia, l’«assoluta esattezza», ma la «sincerità»: non si tratta dunque di un resoconto oggettivo, imparziale, che peraltro, in questo dislivello temporale evidenziato già dal titolo, sarebbe impossibile, inevitabilmente menzognero, ma della raccolta di «osservazioni personali» afferrate «al volo», di una «semplice chiacchierata», di «abbozzi leggeri». In realtà, come vedremo nel corso dell’analisi, di leggero c’è ben poco: in questo, come in tutti gli altri suoi testi, Dostoevskij inscena il dramma dell’uomo.
2. Occidente addio
Le Note invernali segnano il definitivo distacco di Dostoevskij da quel mito dell’Occidente di cui, in giovinezza, aveva subito profondamente il fascino, pagando a carissimo prezzo le sue aspirazioni liberali, con la condanna a morte prima, con i lavori forzati e l’esilio poi: «Se, prima della deportazione, Dostoevskij era andato cercando risposte ai molti problemi della Russia nella cultura dell’Europa occidentale e nelle sue utopie, ora, dopo l’esperienza siberiana, aveva intrapreso un percorso inverso che lo stava portando a cercare risposte nel profondo della Russia stessa» [11]. Così, dopo aver inneggiato alla rivoluzione in nome degli ideali socialisti, dopo i quattro anni di katorga, vero e proprio spartiacque esistenziale, spirituale, artistico e filosofico, che spezza perfettamente in due la sua vicenda umana e creativa, Dostoevskij diviene uno strenuo oppositore dell’occidentalizzazione della Russia, che allontana l’intelligencija e la classe dirigente russa, chiamiamola così, dalla componente più importante e autentica di un paese, il popolo:
E se tutto quel che ci circonda non è ancora bellissimo, sia pure: in compenso noi stessi siamo a tal punto stupendi, a tal punto europei e civilizzati che persino al popolo è venuto da vomitare a guardarci. Adesso il popolo ci considera completamente stranieri, non capisce nemmeno una delle nostre parole, non uno dei nostri libri, o dei nostri pensieri – e tuttavia questo è pur sempre progresso, lo vogliate o no. Adesso noi a tal punto disprezziamo il popolo e i suoi principi che nel riferirci a lui mostriamo sempre una certa qual schifiltosità, che è del tutto nuova, insolita […] e tuttavia questo, lo vogliate o no, è pur sempre un progresso [12].
La risposta ai problemi della Russia è nel popolo russo, che Dostoevskij, nei quattro anni di lavori forzati, ha potuto conoscere a fondo, come nessun altro intellettuale del tempo, nella sua fede in Cristo, del cui messaggio è l’ultimo baluardo, nel suo naturale istinto di fratellanza, nella sua illimitata capacità di amare e perdonare, sviluppata soprattutto nella donna russa, non nella forzata civilizzazione di stampo occidentale, la quale altro non è che barattare «dei pregiudizi e delle porcherie con altre, e ancor più grosse porcherie e nuovi pregiudizi» [13]. La civilizzazione distrugge la parte spirituale dell’individuo, in favore di una sua completa materializzazione, fa dell’anima «tabula rasa, un minuscolo ammasso di cera da cui proprio ora è diventato possibile modellare l’uomo vero, l’uomo universale, l’omuncolo – basterà solo mettere in pratica i frutti della civilizzazione europea e leggere un due-tre libretti» [14]. Concetti che verranno ripresi, con rinnovata tensione critica e polemica, dall’uomo del sottosuolo, che nelle sue formidabili memorie sottolineerà come la civilizzazione non liberi affatto l’uomo dalla sua sete di violenza [15], e come l’ideale occidentale di una società matematicamente organizzata si sgretoli al confronto con l’incontrollabile, irrazionale, spesso autodistruttivo capriccio dell’individuo [16].
Insomma, per Dostoevskij non è l’Occidente, dominato dal meschino, egoistico interesse borghese, consacrato al dio dell’utile, del profitto, in cui «tutti o sono proprietari o vogliono esserlo» [17], avvelenato dal cattolicesimo, che ha vergognosamente tradito Cristo per garantirsi potere e denaro, e dal suo figlio degenerato, il socialismo, la soluzione ai problemi della Russia, ma la Russia stessa, il suo popolo, che anche quando è colpevole di un crimine e viene rinchiuso in una fortezza siberiana, nasconde «l’oro sotto la rude scorza» [18].
NOTE
[1] Citato in Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, p. 147.
[2] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Dostoevskij e l’esperienza di vita della katorga: lettura delle «Memorie di una casa morta». Introduzione, Prima parte, Seconda parte.
[3] Fëdor Dostoevskij, Note invernali su impressioni estive, a cura di Serena Prina, Feltrinelli, Milano 2020, p. 26.
[4] Serena Prina, Introduzione a Fëdor Dostoevskij, Note invernali su impressioni estive, cit., p. 7.
[5] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Memorie dal sottosuolo»: la malattia della consapevolezza. Prima parte, Seconda parte, Terza parte.
[6] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, cit., p. 161.
[7] Serena Prina, Introduzione, cit., p. 18.
[8] Fëdor Dostoevskij, Note invernali su impressioni estive, cit., p. 26.
[9] Ivi, p. 28.
[10] Ivi, p. 29.
[11] Serena Prina, Introduzione, cit., p. 13.
[12] Fëdor Dostoevskij, Note invernali su impressioni estive, cit., pp. 49-50.
[13] Ivi, p. 53.
[14] Ivi, p. 50.
[15] «il sangue scorre a fiumi, e in modo tanto giocondo, per di più, che si direbbe champagne. Eccovi qua tutto questo nostro secolo decimonono, in cui anche Buckle è vissuto. Eccovi Napoleone – sia il grande, sia quello che c’è adesso. Eccovi l’America del Nord: l’eterna unione! Eccovi infine quello Schleswig-Holstein che pare una caricatura… In cosa mai ci ha reso più miti la civilizzazione? La civilizzazione elabora nell’uomo solamente una molteplicità di sensazioni e… assolutamente nient’altro. E attraverso lo svilupparsi in lui di questa molteplicità, potrebbe anche darsi che l’uomo giunga a cercare godimento nel sangue» (Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, a cura di Igor Sibaldi, Mondadori, Milano 2014, p. 35).
[16] «Cospargetelo di tutti i beni del mondo, sprofondatelo nella felicità finché non gli arrivi fin sopra la testa, così che non se ne veda più se non qualche bollicina sulla superficie dell’acqua; dategli una tale tranquillità economica che non gli rimanga proprio nient’altro da fare se non dormire, mangiare pasticcini e adoperarsi perché la storia universale non finisca: bene, anche così l’uomo, da quel bel tipo che è, e unicamente per ingratitudine, unicamente per farvi una pasquinata vi combinerà qualche porcheria. Metterà a repentaglio persino i suoi pasticcini, e a bella posta desidererà le più rovinose sciocchezze, la più antieconomica delle assurdità, all’unico scopo di poter mescolare a tutta questa positiva ragionevolezza il proprio rovinoso elemento fantastico» (Ivi, pp. 45-46).
[17] Fëdor Dostoevskij, Note invernali su impressioni estive, cit., p. 52.
[18] Lettera del 30 gennaio-22 febbraio 1854 al fratello Michail, in Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, p. 44.