Caspar David Friedrich, La stella della sera, 1830 circa

Goethe, «Le affinità elettive»: il cieco dominio del destino. Terza parte

VII.

La nascita del bambino imprime una svolta tragica al romanzo, quel bambino che, pur concepito da Carlotta ed Edoardo, ha i grandi occhi di Ottilia e i lineamenti del Capitano, e la cui venuta al mondo è accompagnata da funesti presagi: durante il battesimo il vecchio parroco muore, in una contemporaneità di vita e morte, di celebrazione della nascita e lutto che non lascia presagire nulla di buono. Ottilia, che si vede strappata per sempre da Edoardo, invidia la sorte del sacerdote: «In lei la vita dell’anima era uccisa: perché doveva continuare a vivere il corpo?» [1]. A Ottilia resta una sola consolazione, rappresentata dalle apparizioni notturne di Edoardo, che le ricordano la sua intima e indissolubile unione con lui.

Crescendo il piccolo Otto, di cui è la madre spirituale e che porta sempre con sé nelle sue interminabili passeggiate, in Ottilia si sviluppa la consapevolezza «che il suo amore, per essere completo, doveva diventare perfettamente disinteressato […]. Non desiderava più che il bene dell’amico, si sentiva capace di rinunciare a lui, persino di non rivederlo mai più, pur di saperlo felice. Ma per conto suo era ben decisa a non appartenere mai a nessun altro» [2]. L’amore di Ottilia entra definitivamente nella dimensione del misticismo. Ottilia trascende il proprio amore, lo eleva e questa svolta spirituale mitiga gli istintivi propositi suicidi della fanciulla, dando un nuovo slancio alla sua esistenza. Allineandosi, in questo senso, a Carlotta, Ottilia è pronta a sacrificarsi per l’amato e la sua famiglia. Nelle Affinità elettive, come, forse, nella vita in generale, il sacrificio è una prerogativa prettamente femminile. Mentre Edoardo si lancia sui campi di battaglia per scrollarsi di dosso e far tacere per sempre il proprio dolore, Ottilia ne sostiene coraggiosamente il peso e il grido.

VIII.

Edoardo torna dalla guerra, sano e salvo, decorato e, finalmente, consapevole. Al Capitano, divenuto Maggiore, confessa di aver commesso un errore sposando Carlotta, o meglio, una «pazzia»: «Chi vuol attuare ad una certa età i desideri e le speranze della giovinezza, s’inganna sempre; perché ogni decennio della vita umana ha la sua propria felicità, le sue proprie speranze e vedute» [3]. Il tempo della felicità per Carlotta ed Edoardo era tramontato da tempo, ed è stato un errore fatale illudersi di poterlo ritrovare: il matrimonio postumo di Carlotta ed Edoardo, frutto dell’ennesimo capriccio di quest’ultimo, non è che un simulacro del loro giovanile sogno d’amore, e alla conclusione cui è giunto ora Edoardo giungerà tra poco, costretta dal dramma, anche Carlotta.

Edoardo confessa al Capitano, continuiamo a chiamarlo così, il fallimento del proprio matrimonio, e a Ottilia, dopo aver visto per la prima volta suo figlio, il piccolo Otto, e i suoi occhi, identici a quelli dell’amata, il tradimento spirituale di quella notte infausta in cui il bambino è stato concepito:

Lasciami gettar un velo su quell’ora infausta, che diede la vita a questa creatura! Debbo spaventare la tua anima pura col triste pensiero che marito e moglie, estranei ormai l’una all’altro, possano stringersi al cuore e profanare con desideri ardenti un vincolo legittimo? Eppure sì, poiché siamo giunti a questo punto, poiché il mio legame con Carlotta dev’essere troncato, poiché tu sarai mia, perché non debbo dirlo? Perché non debbo pronunciare la dura parola: questo bambino è frutto di un doppio adulterio! separa me da mia moglie e mia moglie da me, mentre avrebbe dovuto unirci. Attesti dunque pure contro di me, dicano questi magnifici occhi ai tuoi che io nelle braccia di un’altra appartenevo a te; e possa tu sentire, Ottilia, sentire davvero che quell’errore, quella colpa io non posso espiarla che nelle tue braccia! [4]

Tornato dalla guerra, Edoardo chiarifica a se stesso e agli altri l’intera vicenda, chiama le cose con il proprio nome e rivela la veridicità di quanto sospettato sinora: l’errore del matrimonio con Carlotta e il doppio tradimento nella notte funesta, gravida di tragiche conseguenze, del concepimento del piccolo Otto. Edoardo e Ottilia, legati indissolubilmente l’un l’altro, sono destinati ad amarsi, ma non ad unirsi, e nel momento solenne del loro incontro dopo la prima, dolorosissima separazione, nel momento del tanto atteso e desiderato bacio, del coinvolgimento diretto della carne nella loro passione, Goethe annuncia che il destino non prevede felicità e soddisfazione per loro:

Come una stella, che cada dal cielo, la speranza passò sopra le loro teste. Essi s’illusero, essi credettero di appartenere l’uno all’altro; e per la prima volta si baciarono senza esitazione, liberamente, e si separarono con dolorosa violenza [5].

Secondo Benjamin, la stella cadente che passa sopra le teste di Edoardo e Ottilia, nel momento culminante del loro amore, che si fa concreta illusione di realizzazione, «è la forma espressiva adeguata di ciò che nell’opera è mistero nel senso proprio del termine. Il mistero è, nel drammatico, il momento in cui esso emerge, dall’ambito della lingua che gli è propria, in un ambito superiore e inaccessibile ad essa. Esso non può, quindi, mai esprimersi a parole, ma unicamente e solo nella rappresentazione, ed è il “drammatico” per eccellenza. Un analogo elemento di rappresentazione è, nelle Affinità elettive, la stella cadente» [6].

Mentre la speranza, come una stella cadente, passa sulle loro teste, disperdendosi nel nulla cosmico, l’amore di Edoardo e Ottilia finalmente si fa corpo, generando però, immediatamente, una tragedia: la morte del piccolo Otto. L’illusione dura il tempo di un bacio. Nell’attimo in cui gli amanti assumono un corpo e assecondano il desiderio carnale, producono il dramma, perdendosi per sempre. Sola sulla barca, senza remi, in braccio il cadavere di suo figlio, concepito da Edoardo pensando a lei, «isolata da tutto», Ottilia «vaga sull’elemento infido, inaccessibile», sull’acqua stagnante e malsana del lago, mortalmente fissa (il lago è simbolo di morte, non a caso Dante lo colloca nell’inferno e ne fa la residenza di Lucifero, per di più ghiacciandolo, risaltando così la sua mortale immobilità). Questa immagine terribile, che ricorda vagamente, nella sua funerea fissità, L’isola dei morti di Böcklin, forse meglio di ogni altra racchiude il dramma esistenziale di Ottilia e, più in generale, delle Affinità elettive, che da questo momento subiscono una brusca accelerazione. La morte del piccolo Otto agisce come una spinta verso la fine del romanzo.

Arnold Böcklin, L’isola dei morti, prima versione, 1880

IX.

Giudicandosi unica responsabile della morte del piccolo Otto, che non sarebbe avvenuta se avesse lasciato andare Edoardo, come decretato dal destino, Carlotta accetta il divorzio, consapevole dell’inutilità della propria opposizione a qualcosa che gli uomini non possono in alcun modo contrastare, e tentando di farlo non generano che male:

Ci sono cose che il destino si propone ostinatamente. Invano gli attraversano la strada la ragione e la virtù, il dovere e tutto quello che c’è di più sacro: qualcosa deve accadere, che per lui è giusto, che a noi non sembra giusto; e possiamo comportarci come vogliamo, alla fine è lui che vince [7].

In queste parole di Carlotta, autentica portavoce dell’autore, è racchiuso probabilmente il significato ultimo, più profondo delle Affinità elettive, ed esse rappresentano una dichiarazione di resa al cieco, violento, imperscrutabile dominio del destino, che non riconosce nulla di sacro e al cospetto del quale nessun valore, nessuna istituzione sono capaci di resistere: «Tutte le costruzioni della civiltà, tutti i tentativi della ragione di domare e di placare questa forza che si annida nelle passioni e nella natura […] falliscono miseramente, e noi dobbiamo chinare il capo, piangendo, davanti a questo potere oscuro e misterioso» [8]. Dinanzi al destino l’uomo può solo soccombere.

Nella sua terribile lucidità, le palpebre recise dalla tragedia, Carlotta ricorda che lei stessa aveva già tentato di unire Edoardo e Ottilia, rimproverandosi di aver assecondato il capriccio di un uomo in balia dei propri desideri, delle proprie fantasie, del proprio narcisismo e destinato in realtà a un’altra donna: «perché non seppi distinguere il capriccio di un uomo dal vero amore? Perché accettai la sua mano, quando come amica avrei fatto la felicità sua e di un’altra moglie?» [9]. La morte del piccolo Otto porta alla luce la placida, modesta grandezza di Carlotta, animata da una sincera, autentica vocazione alla rinuncia e al sacrificio, come mostra la sua risposta al Capitano, che, dopo aver accolto la sua confessione, le domanda, forse nel momento meno opportuno, cosa possa sperare:

Non abbiamo commesso nulla per essere infelici, ma neppure meritato di essere felici insieme [10].

Mi vengono in mente le parole dell’uomo del sottosuolo, quando scrive che, «per quanto la rigiri, alla fin fine vien sempre fuori che il principale colpevole di tutto sei sempre tu, tu e nessun altro, e – quel che fa più male – colpevole senza colpa e, potremmo dire, per legge di natura» [11]. Ecco, al pari dell’amore di Edoardo e Ottilia, anche l’infelicità dell’uomo è una legge di natura.

Ora, non è certo mia intenzione scrivere un’apologia di Carlotta, come forse potrebbe sembrare, anche perché nessun personaggio letterario, nella sua irrealtà, ha bisogno di un’apologia, ma non credo che la sua resistenza al divorzio, piegata soltanto dalla morte del figlio, sia dovuta a un’accettazione supina, passiva, gretta e meschina delle leggi e delle convenzioni sociali, la ritengo troppo consapevole e intelligente per questo, quanto piuttosto a un’autentica fede nel matrimonio come vincolo sacro e indissolubile, come «espressione della permanenza dell’amore» [12]. Credo sia questa fede, miope come ogni fede, a spingerla a lottare per il proprio matrimonio, di cui pure intuisce l’endemica fragilità: non a caso tenta di prevenire, opponendosi all’arrivo del Capitano. Il suo errore, semmai, è precedente, e sta nell’aver assecondato il capriccio di Edoardo, accettando la sua mano: è questo il peccato originale di Carlotta, riconosciuto da lei stessa, sfortunatamente troppo tardi.

X.

Assopita sulle ginocchia di Ottilia, in una sorta di stato sonnambolico caratteristico del suo personaggio, sospeso tra la veglia e il sonno, tra la vita e la morte, tra il cielo e la terra, come la Käthchen di Kleist, Ottilia sente tutto e decide di rinunciare a Edoardo, minacciando il suicidio se la sua benefattrice acconsentisse al divorzio. Ora, viene da domandarsi se, oltre alla volontà di espiazione di Ottilia, oltre al suo slancio sacrificale ispirato al fermo proposito di punirsi per riscattare la propria colpa, ci sia altro dietro la sua rinuncia. Forse Ottilia, dopo le parole di Carlotta, perde la fede in Edoardo, e un amore senza fede non può concretizzarsi. In questo senso la sua rinuncia, che corrisponde a una condanna definitiva, senza appello, all’infelicità, per lei e gli altri protagonisti del romanzo, potrebbe ricordare quella di Tat’jana a Onegin secondo l’interpretazione di Dostoevskij:

Ella sa fermamente che in sostanza egli ama soltanto la sua nuova fantasia e non lei, e non la Tat’jana ancora umile come prima. Ella sa che egli la prende per qualcosa di diverso e non per quello che è realmente, che egli non ama lei e forse non ama nessuno e che non è neppure capace di amare qualcuno, nonostante la sua sofferenza. Ama la fantasia, anzi egli stesso è una fantasia. Se ella lo seguisse, egli sarebbe già deluso l’indomani e parlerebbe con tono canzonatorio del suo stesso entusiasmo. Egli non ha alcuna base; è un filo d’erba in balia del vento [13].

Se anche l’amore per Ottilia fosse soltanto un capriccio di Edoardo? Meglio non scoprirlo, meglio prevenire un dolore che risulterebbe terribile, insostenibile per la fanciulla già tormentata dal senso di colpa per la morte del piccolo Otto.

Nel castello si stabilisce un ambiguo «simulacro della vita passata», i quattro protagonisti vivono sotto lo stesso tetto come se niente fosse, mentre Edoardo e Ottilia sono attratti irresistibilmente l’un l’altro:

Se si trovavano in una sala, non passava molto tempo, ed essi stavano in piedi o seduti l’uno accanto all’altro. Solo la vicinanza più immediata poteva calmarli, ma li calmava del tutto, e questa vicinanza bastava: non avevano bisogno né di uno sguardo, né di una parola, né di un gesto, né di contatto; solo di stare insieme. Allora non erano due persone, erano una persona sola in uno stato inconscio di perfetto benessere, paga di sé e del mondo. Se uno dei due fosse stato trattenuto nell’angolo più lontano della casa, l’altro, a poco a poco, da sé, senza intenzione, si sarebbe mosso verso di lui. La vita era per loro un enigma, di cui trovavano la soluzione soltanto insieme [14].

Questa ambigua, per molti aspetti mediocre vicinanza, è tutto ciò che Ottilia concede a se stessa, al proprio amore, alla propria soddisfazione. Ottilia che si rinchiude in un silenzio ostinato, impenetrabile e si lascia morire di fame, senza che nessuno se ne avveda (evidentemente la sua consunzione interiore non si riflette all’esterno, anche la sua morte è costumata, sobria). Consapevole, forse, della forza oscura, demoniaca, distruttiva del proprio amore, testimoniata dalla morte del piccolo Otto, al contrario di Edoardo, prigioniero del suo infantile e narcisistico egoismo, Ottilia decide di sacrificarsi, di morire: come Cristo, di cui è una figura, ella si getta «come vittima consacrata in pasto alle forze del male, immolandosi per gli abitanti del castello e per tutti noi»; un gesto che «annuncia simbolicamente la pallida alba della salvezza», ricordandoci che si può essere liberi e annunciandosi «la possibilità che un raggio celeste scenda ad illuminare le desolate contrade della terra»: per questo motivo, alla fine del romanzo, Goethe definisce Ottilia una «santa», ricamando «intorno al suo cadavere una specie di leggenda agiografica» [15]. Sacrificandosi, Ottilia «compie un gesto memorabile come quello di Cristo, salva la sua libertà; e il suo corpo vince miracolosamente la putrefazione, testimoniando che i nobili gesti umani oltrepassano il tempo» [16]. La morte di Ottilia è un «sacrificio mitico», scrive Benjamin; ella muore come «capro espiatorio dei colpevoli», perché «nel senso del mondo mitico» evocato da Goethe nelle Affinità elettive, il castigo «è sempre stato la morte degli innocenti», ed è questo il motivo per cui, «nonostante il suicidio, la morte di Ottilia è quella di una martire, che lascia ossa miracolose» [17].

Nel cieco dominio del destino, all’uomo è concesso di esprimere e rivendicare la propria volontà, la propria libertà individuale soltanto nella morte, o meglio, nel suicidio, peraltro nella sua forma più estrema, lasciandosi morire di fame, perché, in fondo, la pistola potrebbe pur sempre incepparsi e la corda spezzarsi. Nel caso di Ottilia, «chiusa in sé», in un «vegetale silenzio», la decisione di morire sembra tuttavia svilupparsi, «in tutta la sua segretezza, in modo incomprensibile anche per lei» [18]. L’ostinato, inespugnabile silenzio dimostra, secondo Benjamin, che alla base della sua volontà di morire «non c’è, in realtà, una decisione, ma un istinto. Perciò la sua morte non è […] sacra. Se essa si riconosce uscita dalla propria “orbita”, ciò può significare, in realtà, solo questo: che solo la morte può salvarla dall’interno sfacelo. E così la morte è castigo nel senso del destino, e non la santa espiazione, che mai la morte volontaria, ma solo quella divinamente decretata da Dio, può diventare per l’uomo. Quella di Ottilia è, come la sua illibatezza, solo l’ultima evasione dell’anima, che fugge davanti alla dissoluzione. Nel suo impulso di morte si esprime un desiderio di pace. […] La vita di Ottilia […] è inconsacrata, non tanto perché essa abbia peccato contro un matrimonio in dissoluzione, quanto perché continua a vivere senza decisione la sua vita, soggetta fino alla morte, nella sua apparenza e nel suo divenire, alla potenza del destino» [19]. L’interpretazione di Benjamin, che invalida ogni accostamento di Ottilia a Cristo, mostra come la morte della fanciulla riveli, ancor più di un’autentica volontà di annientamento, un desiderio di oblio, quell’oblio sonnambolico nel quale Goethe ce la mostra in più di un’occasione. Non a caso, in questo senso, la morte di Ottilia somiglia più al sonno che alla distruzione, con il suo corpo che resta miracolosamente intatto, immune alla decomposizione. In ogni caso, è solo grazie al suicidio, consapevole o istintivo, che Ottilia finalmente si emancipa dallo strapotere del destino, unica figura delle Affinità elettive a riuscire in questa impresa.

Nella conclusione del romanzo si rivela tutta la disperata resistenza di Goethe alla morte (Goethe che, ricorda Benjamin, non voleva si parlasse di decessi in sua presenza e non riuscì ad avvicinarsi al letto di morte della moglie), proiettata in particolar modo sul personaggio di Edoardo e il suo ostinato rifiuto della morte di Ottilia, di cui tratta la salma come se fosse viva, e che trova la massima, illusoria espressione nella conclusiva esaltazione dell’amore-dopo-la-morte: «E così, oltre le tombe, avanti!», in un sogno di riconciliazione ultraterrena che risarcisce l’uomo del drammatico e miserevole stato in cui versa in questa vita.

Appendice. Al di qua dell’abisso

Passione e borghesia sono inconciliabili, l’una esclude l’altra: «per legge morale la passione perde tutto il suo diritto e la sua felicità quando cerca di venire a patti con la vita borghese, agiata, garantita. Questo è l’abisso che il poeta cerca invano di far varcare ai suoi personaggi […] Nel muto imbarazzo che trattiene questi esseri nell’ambito della costumatezza umana, anzi borghese, e spera di salvare in essa la vita della passione, è l’oscuro fallo che esige un’oscura pena. Essi cercano, in fondo, di sfuggire al verdetto del diritto, che ha ancora autorità su di loro» [20]. Nessuno dei protagonisti delle Affinità elettive si abbandona completamente, anima e corpo, alla passione, non c’è mai un reale conflitto tra di loro, non c’è lotta, non c’è ostilità, invidia, dolore, disperazione, mai: è come se tentassero di giungere a un’ideale sintesi tra passione e contegno borghese, destino e norma sociale, affinità elettive e decoro, mentre questi elementi si escludono a vicenda. Essi non si gettano a capofitto nell’abisso della passione, non precipitano nel lato oscuro, dionisiaco dell’esistenza, ma mantengono sempre, ostinatamente la misura, restano come cristallizzati nella loro atavica dimensione apollinea. Mantenendo la passione entro i limiti della «costumatezza borghese», i protagonisti del romanzo oppongono inconsciamente una resistenza al destino, che per questo motivo, forse, abbatte la sua scure tanto più violentemente su di loro. La passione richiede necessariamente, a livello ontologico e sociale, poiché legata alle forze oscure, dionisiache dell’esistenza, dismisura, infrazione, sovversione, dolore, disperazione, violenza, spesso la morte.

Sottomessi al diritto, quel diritto che non intendono infrangere, Edoardo e Carlotta si abbandonano carnalmente ai rispettivi amanti entro il diritto, servendosi del rapporto sessuale che è loro consentito dalla legge, usandosi per saziare le proprie illegali brame passionali. Se pure c’è infrazione, essa avviene all’interno della norma, relegata alla dimensione cerebrale, e il destino non può perdonare loro questa mediocrità nella passione: il figlio concepito nell’infrazione porterà i segni di questa infrazione e morirà prematuramente. Inoltre la morte di Otto sbarra definitivamente la strada alla realizzazione dei loro sogni d’amore, perché Ottilia non può accettare di fondare la propria felicità sulla tragedia e la colpa. Perché, nella funesta notte del concepimento del piccolo Otto, Edoardo non si reca da Ottilia, sapendola sola, ma bussa alla porta di Carlotta e recita con la moglie la parte dell’amante appassionato, pentendosene il giorno dopo, come se avesse commesso un delitto? Per non infrangere il diritto, per godere dell’illecito attraverso il lecito e salvare le apparenze (è l’istinto cresciuto alla legge). Ma il destino non può accettare una simile, vile mediocrità e rivela, attraverso il figlio, il peccato dei coniugi, il loro tradimento simultaneo.

Le passioni sono caos e abisso, quel caos e quell’abisso dai quali i protagonisti delle Affinità elettive si ritraggono, a tal punto da non sembrare neppure creati o «liberamente foggiati, quanto piuttosto evocati nella loro fissità» [21]. Edoardo, Carlotta, Ottilia e il Capitano non sono fatti di carne e sangue, si muovono all’interno di una dimensione astratta che esclude il corpo, principale veicolo delle umane passioni. E alla morte di Ottilia ed Edoardo, Carlotta e il Capitano restano «come le ombre nel vestibolo dell’inferno» [22]. Ecco, i protagonisti delle Affinità elettive appaiono come mere, impalpabili anime, e il loro mondo un mondo estraneo al nostro, parallelo e inconciliabile con il nostro, sorta di anticamera di quel regno ultraterreno annunciato da Goethe alla fine del romanzo, in cui tutto finalmente tornerà al proprio posto. In nessuna delle due coppie vive il «vero amore», che «avrebbe fatto saltare le barriere di questo mondo», e che nelle Affinità elettive trova espressione, come scrive Benjamin, soltanto in un sotto-testo, nella novella Gli strani figli di due vicini, strani proprio rispetto ai protagonisti del romanzo, in realtà molto più simili a noi uomini fatti di carne e sangue.

La misura dei protagonisti delle Affinità elettive riflette quella del loro creatore: se Goethe guarda l’abisso, distoglie presto lo sguardo e lo rivolge al cielo. In questo senso, egli è un rappresentante perfetto, ideale in campo artistico, del proprio tempo, che rimuove il lato oscuro, dionisiaco dell’esistenza concentrandosi esclusivamente su quello luminoso, apollineo. Tra le altre cose, lo dimostra chiaramente il suo giudizio negativo, il suo rifiuto delle opere di Kleist, in cui le passioni dominano e rivelano tutta la loro forza distruttiva, a livello individuale e sociale. Fatti di carne e sangue, i personaggi di Kleist, soprattutto quelli femminili, si abbandonano completamente, senza paura alle passioni, amano davvero e soffrono, infrangono il diritto senza curarsi delle conseguenze, lasciano che il lato dionisiaco dell’esistenza e l’inconscio prevalgano su tutto il resto, sulla ragione, sulla misura, sulle convenienze, incapaci di accontentarsi di sentimenti mediocri. I personaggi di Kleist sono vivi, liberi, forti, sani, e proprio per questo vengono abbattuti, come la quercia viva che, a differenza di quella morta, la tempesta può afferrare per le fronde. Un’opera di Kleist riflette meglio di ogni altra tutto questo, quella Pentesilea che egli invia a Goethe accompagnata dalla più tenera e devota delle dediche, sulle ginocchia del mio cuore, e che Goethe naturalmente rifiuta [23]: un’opera troppo smisurata per i suoi canoni, e per quelli dell’epoca. Mentre Goethe nasconde a se stesso il destino mortale degli uomini, la «sanguinante matematica che regola la nostra condizione» e vanifica ogni morale, ogni sforzo, come scrive Camus [24], non vuole che si parli di decessi in sua presenza e non riesce ad avvicinarsi al letto di morte della moglie, Kleist non ha paura di morire: incompreso e irriconosciuto, si uccide a trentaquattro anni.

NOTE

[1] Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive, traduzione di Cristina Baseggio, Rizzoli, Milano 2019, p. 308.

[2] Ivi, p. 313.

[3] Ivi, pp. 342-343.

[4] Ivi, p. 352.

[5] Ivi, p. 353.

[6] Walter Benjamin, Le affinità elettive, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Einaudi, Torino 2014, p. 242.

[7] Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive, cit., p. 359.

[8] Pietro Citati, Introduzione a Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive, cit., p. 19.

[9] Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive, cit., p. 359.

[10] Ivi, p. 360.

[11] Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, a cura di Igor Sibaldi, Mondadori, Milano 2014, p. 13.

[12] Walter Benjamin, Le affinità elettive, cit., p. 169.

[13] Fëdor Dostoevskij, Puškin, traduzione di Ettore Lo Gatto, in Id., Diario di uno scrittore, Bompiani, Milano 2010, p. 1272.

[14] Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive, cit., p. 382.

[15] Pietro Citati, Introduzione, cit., p. 51.

[16] Ivi, pp. 55-56.

[17] Walter Benjamin, Le affinità elettive, cit., p. 179.

[18] Ivi, p. 216.

[19] Ivi, pp. 216-217.

[20] Ivi, pp. 225-226.

[21] Ivi, p. 228.

[22] Ibidem.

[23] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Heinrich von Kleist, il dramma dell’incomprensione. «Pentesilea» ovvero della dismisura.

[24] Albert Camus, Il mito di Sisifo, traduzione di Attilio Borelli, Bompiani, Milano 2020, p.17.

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