Michail Vrubel', Demone seduto, 1890

«Il demone» innamorato di Michail Lermontov

Il mio sguardo uccide ogni speranza;
Io son colui che nessuno può amare.
Dei miei terreni schiavi son la frusta,
Sono il signore di scienza e libertà;
Nemico del cielo, son della natura
Il male. E sono qui, ai piedi tuoi!

Introduzione

Il demone è l’opera della vita di Michail Lermontov, alla quale lavora incessantemente dal 1829 al 1841, anno della sua prematura scomparsa. Un lasso di tempo notevole considerando la brevità dell’esistenza dell’autore, morto, come Puškin, a causa di una ferita riportata in duello, a ventisette anni appena. Nel poema, che rappresenta senza dubbio «uno dei capolavori della letteratura romantica europea» [1], Lermontov sviluppa il tema, ripreso da Byron, ma attraverso la fondamentale mediazione puškiniana (senza Puškin e la sua opera più grande, l’Evgenij Onegin [2], di cui Il demone è una sorta di primogenito, la letteratura russa non sarebbe mai davvero nata, come dichiara Dostoevskij nel suo celebre Discorso del 1880: «se non ci fosse stato Puškin non ci sarebbero stati gli ingegni che sono venuti dopo di lui» [3]), del demonismo, «incarnazione suprema dell’ansia di liberazione e autoaffermazione della personalità che approda alla ribellione metafisica, alla negazione assoluta, e a un tragico destino di solitudine e autodistruzione. […] Egli sentì questo tema più di ogni altro, in quanto in esso gli pareva si esprimesse il dramma della sua generazione, una generazione condannata all’inazione, nel cui animo l’ingiustizia subita generava, come estrema rivolta, il gusto acre e autodistruttivo del male» [4].

Ancor più che in Un eroe del nostro tempo, l’altra sua opera più celebre [5], è nel Demone che Lermontov concentra il proprio dramma esistenziale, legato alle vicende storiche, politiche, sociali della Russia dell’epoca (come il suo illustre predecessore, Puškin, anche Lermontov vorrebbe vedere il proprio paese libero dal repressivo regime zarista, e per questa sua ansia di libertà conosce la pena amara dell’esilio), alle tensioni familiari (la morte in solitudine e in miseria del padre, escluso dalla vita del figlio per il volere della nonna materna, colpisce nel profondo Lermontov, che si sente responsabile della triste sorte del genitore), alle numerose delusioni sentimentali. Nella memorabile figura del protagonista Lermontov proietta il proprio senso di esclusione, di solitudine, di vuoto, la propria disperazione, la propria delusione, la propria insoddisfazione, nei confronti di se stesso, degli altri, della deludente realtà che gli è toccata suo malgrado in sorte e che vorrebbe cambiare, ma dinanzi alla quale si scopre dolorosamente impotente, la propria sofferenza: «Nelle varie redazioni [ben otto] del Demone si possono ripercorrere anche i momenti della vita di Lermontov, delle sue disperazioni, delle sue rabbie. Satana si commuove, Satana seduce, Satana uccide» [6]. Il poema è il frutto purissimo, cristallino dello sdegno di Lermontov, del suo «spirito ribelle», della «dolorosa coscienza dell’ingiustizia», storica e individuale, vissuta come una crudele condanna, del suo «profondo spirito di rivolta» [7], tipico dell’autore romantico, che nel mito di Satana vede la massima e più efficace espressione del proprio anelito insurrezionalista (ricordo le fondamentali parole di Camus su questo tema nell’Uomo in rivolta [8]).

Tra tutti i demoni letterari quello di Lermontov è probabilmente il più umano, perché conserva ancora un sogno, una speranza, un intimo desiderio di pace, di armonia, e proprio dal tentativo, destinato immancabilmente al fallimento, di realizzare questo sogno, questa speranza, questo desiderio scaturisce il suo dramma senza tempo. Mentre il Mefistofele di Goethe, il più perfetto, in quanto a malvagità, rifiuto e contraddizione, dei diavoli letterari, grumo purissimo di nichilismo [9], «possiede uno scetticismo divorante e senza alcun ideale positivo […] il Demone ha sì la negazione infinita, ma questa deriva da ideali positivi, da un desiderio bruciante di armonia assoluta» [10]. Inaspettatamente animato da un sentimento travolgente, che lo compenetra, rinnova e rivitalizza, con Tamara il Demone fa un ultimo, disperato tentativo di ritrovare la pace e l’armonia perdute, ma il suo amore non provoca che dolore e morte. Alla condanna del Demone non c’è rimedio, l’esilio, la solitudine, il vuoto sono il suo destino, e al di là della vendicativa, implacabile spietatezza divina, che non concede perdono, non a lui almeno, il dramma di impossibilità del protagonista è da ricondurre alla sua natura estrema, insostenibile per Tamara e incompatibile con l’amore e con la vita.

La solitudine

In apertura del poema il Demone, «proscritto dal cielo», ci appare in volo «sulla terra dei peccati», immerso nel ricordo dei «felici giorni», quando, «primogenito» del creato, nelle «celesti plaghe» risplendeva «puro», credeva, amava, era felice e non conosceva il male né il dubbio [11]. Respinto, escluso, ramingo erra «senza asilo nel deserto del mondo», dominato dalla nostalgia e dalla noia (vero e proprio male dell’epoca che affligge, tra gli altri, Puškin e Leopardi): egli semina il male senza piacere, perché da nessuna parte sulla «terra miserabile» la sua «arte» terribile incontra «resistenza» (41).

Il Demone, «spirito orgoglioso», osserva con «disprezzo» il «creato di Dio», il meraviglioso paesaggio caucasico (siamo emblematicamente nei luoghi della condanna di Prometeo, «dolorosa e nobile immagine del Ribelle», la cui storia è «il più grande mito dell’intelletto in rivolta», come scrive Camus [12]) che si staglia sotto di lui, resta indifferente alla bellezza selvaggia ed esuberante della natura. Lo spettacolo naturale suscita in lui nient’altro che una «fredda invidia»; nel suo cuore «sterile» (la sterilità, l’improduttività, la freddezza sono le condanne del Demone, che nulla crea e anzi tutto distrugge, deve distruggere) il paesaggio maestoso, sontuoso non genera nuovi sentimenti né nuove forze: tutto ciò che scorre sotto i suoi occhi gelidi egli l’osserva senza entusiasmo, senza ammirazione, senza commozione, lo disprezza oppure lo odia (45).

L’amore

Ma ecco che lo sguardo freddo, indifferente, sprezzante del Demone incontra Tamara, la bellissima Tamara, giovane principessa georgiana alla viglia delle sue nozze con il signore di Sinodal. Qualcosa nel Demone si spezza ed egli di colpo si ravviva: un’emozione «inspiegabile» gli invade l’anima, il cuore «muto», ma evidentemente non ancora morto, gli si riempie di una «beata armonia» ed egli torna finalmente a provare la «santità della bellezza, del bene e dell’amore» (53). Il Demone contempla a lungo Tamara, la osserva danzare, congedarsi dall’infanzia, dall’adolescenza e di nuovo «i sogni della felicità antica» illuminano il suo ricordo. Pietrificato da una forza «invisibile e ignota», conosce una nuova tristezza e un antico, perduto sentimento torna a parlargli con voce nota e cara: l’amore. Il segno di un’insperata rinascita?

Il Demone passa all’azione: s’insinua nella psiche del promesso sposo di Tamara, ispirandogli peccaminose fantasie erotiche che lo assorbono completamente, rendendolo insensibile alla tradizione (il signore di Sinodal infrange la canonica legge della preghiera) e ai pericoli. Una banda di predoni, di ribelli georgiani, forse, assalta la sua carovana e lo uccide. Il Demone ha ora campo libero.

La seduzione

Eliminato il rivale, il Demone consola Tamara, con la sola voce, la esorta a smetterla di piangere, perché è inutile il suo pianto per il promesso sposo asceso in cielo e oramai privo di legami con la terra, incapace di sentire il suo dolore. Inoltre, sussurra il diabolico adulatore, «No, la sorte d’un essere mortale, / Credi a me, o mio angelo terrestre, / Non vale un attimo soltanto della / Tua tristezza, così preziosa!» (67).

Quindi il Demone s’insinua nel sogno di Tamara, che ha subito nel profondo il fascino delle sue seducenti parole, inviandole visioni profetiche e strane, conturbanti (il Demone è colui che tutto può, e nell’opera di seduzione della fanciulla dà un saggio delle sue illimitate capacità di suggestione, di manipolazione). Il Demone, «straniero nebuloso e muto», appare in sogno a Tamara, innamorato e triste, ed ella, come già Tat’jana nell’Onegin, si domanda cosa sia, se un angelo del cielo oppure uno spirito infernale, lo «spirito del Male». Sfruttando l’imaginifico palcoscenico onirico il Demone si smorza, sfuma, addolcisce la propria natura, in un certo senso si maschera e riesce nell’illusione, imponendosi alla fantasia di Tamara come «una chiara sera: / Non tenebra né luce, giorno o notte!…» (71).

Tamara è attratta dal demone, ma di questa attrazione percepisce il pericolo, ne intuisce la matrice diabolica («l’anima mi strazia il maligno») e reagisce, rifiutando i pretendenti che le si affollano intorno e rinchiudendosi in monastero, dove, in esilio dal mondo, spera di ritrovare la ragione e la pace perdute, di vincere l’«angoscia» che la soffoca. Il corteggiamento psichico, sottile ma incessante del Demone, bagnato dal sangue, inquieta Tamara, la tormenta, la lacera, spalanca abissi interiori e sgretola le fondamenta psicologiche della fanciulla. La scelta radicale di dire addio al mondo e di ritirarsi in convento rivela la gravità, la profondità, l’insostenibilità dell’angoscia di Tamara, che vive un vero e proprio dramma interiore.

Ma neppure nella clausura monacale, avvolta dal cilicio, Tamara ritrova la pace: continua a tormentarla nei suoi sogni, senza sosta, il Demone e riecheggia ancora la sua voce seducente che la chiama, la attira a sé. Agli occhi di Tamara il mondo è rivestito da «un’ombra cupa» e la natura meravigliosa non la conforta, anzi, «tutto è in lei pretesto di tormento». Il Demone agisce su di lei come un male dello spirito e della mente impossibile da curare, e Tamara tenta disperatamente di trovare conforto nella preghiera, ma il suo cuore in tumulto, colmo d’angoscia e di desiderio, invia le suppliche «a lui», di cui attende con timorosa avidità gli abbracci e i baci. Tamara non riesce a dominare la propria passione, la propria carne, desiderosa di accogliere quell’essere sconosciuto che ogni notte le appare in sogno e la seduce con le sue parole d’amore.

L’incontro

Ed ecco che il Demone vola da Tamara, si avvicina al monastero, incerto, turbato dalla santità del luogo, a tal punto da pensare, per un momento, di abbandonare il suo «crudele intento». Il Demone osserva Tamara nella sua cella e ne ascolta la tenera canzone, che lo colpisce e commuove nel profondo, fino a farlo addirittura piangere:

E solo allora il Demone capì
L’angoscia dell’amore e l’emozione.
Voleva allontanarsi, nel terrore…
Ma non riusciva a muover le sue ali!
E, che prodigio! Dai suoi spenti occhi
Ecco che scese una lacrima di piombo.
Ancora oggi presso quella cella
Sta la pietra trafitta dall’ardente,
Dalla lacrima ardente come fiamma,
La lacrima dell’angelo perduto!… (83)

C’è ancora vita nel Demone, ancora amore, ancora passione, che, come braci sepolte sotto la cenere, Tamara rivitalizza, facendone fiamme ardenti. Il sentimento risorge impetuoso nel Demone ed egli risorge con lui, animato da un sogno d’amore che lo riconduce a quei giorni felici rievocati nella solitudine. La speranza (l’umanizzazione di Satana è uno degli aspetti più straordinari del poema) invade il Demone, che, «pronto ad amare», ad abbandonarsi interamente al proprio sentimento, varca la soglia della cella di Tamara, l’anima spalancata al «bene», in testa il pensiero luminoso che di una «vita nuova» sia finalmente giunto il tempo tanto atteso. Ma le forze celesti non hanno abbandonato la loro creatura, Tamara, predestinata alla salvezza, e il Demone trova nella cella un cherubino, messaggero del cielo, a proteggere la fanciulla.

Nell’anima del Demone, purificato per un momento dal male, si risveglia, stimolato dalla gelosia, una gelosia incontenibile, feroce, «tutto il veleno del suo odio antico» (87). Il Demone rivendica il possesso di Tamara, sulla quale ha già impresso il proprio sigillo, e l’angelo impotente si eclissa, lasciando campo libero al rivale.

Il Demone è preda di un desiderio d’amore totale e totalizzante: vuole Tamara con tutto se stesso, con ogni singola fibra del suo essere.

La confessione del Demone

Finalmente faccia a faccia con Tamara, oggetto del suo ardente, incontenibile, ossessivo e distruttivo, come vedremo, desiderio, il Demone si rivela:

Il mio sguardo uccide ogni speranza;
Io son colui che nessuno può amare.
Dei miei terreni schiavi son la frusta,
Sono il signore di scienza e libertà;
Nemico del cielo, son della natura
Il male. E sono qui, ai piedi tuoi! (89-91)

L’ultima, disperata e supplichevole frase del Demone racchiude il dramma dei due protagonisti lermontoviani: di Satana, che si prostra dinanzi a una creatura umana, e di Tamara, che ha avuto la sfortuna di far innamorare il «proscritto dal cielo». In questo senso, la fanciulla non è solo oggetto d’amore, ma anche tramite di salvezza:

Soltanto tu con la tua voce puoi
Restituire me al bene e al cielo.
Protetto dal mantello del tuo amore
A me sarà concesso di salire
Lassù, angelo nuovo in nuova luce (91).

Il Demone spalanca a Tamara il proprio cuore «segreto», le rivela che, non appena il suo sguardo si è posato su di lei, ha odiato l’immortalità e il potere, ha invidiato la gioia «imperfetta» degli uomini, ha provato il dolore di non vivere, dunque di non essere come loro, e l’«orrore» di essere sostanzialmente lontano dall’amata. Il Demone svela tutto il peso dell’eternità e spiega a Tamara come un raggio «caldo e vivo», insperato si sia acceso nel suo cuore, incendiandolo, e come l’amore per lei lo renda indifferente a tutto il resto, alla propria terribile unicità, alla propria grandezza:

Che importa
A me senza di te la vita eterna?
Dei miei possessi il numero infinito?
Solo vuote parole senza senso,
Un vasto tempio, ma senza il dio (91-93).

Tamara è divenuta la realtà del Demone, la sostanza della sua faticosa esistenza. C’è lei e soltanto lei, ovunque; l’amore per la fanciulla assume una dimensione totalizzante, che ri-significa l’intera esistenza dell’innamorato. Tamara umanizza il Demone.

Una «nuova vita», ed è forse questa la sua speranza più grande, riempie il Demone, che si è sfilato dalla testa la «corona di spine della colpa» (egli è un ribelle al pari di Cristo, e come tale vittima dell’autorità) e ha gettato «in polvere» il suo passato: l’inferno e il paradiso sono gli occhi di Tamara, che rappresenta per lui tutto, che contiene tutto, come se fuori di lei fosse il vuoto eterno – Tamara è l’intero creato. Il Demone le dichiara di amarla con tutto il suo immenso potere, con tutta l’incontenibile ebbrezza del suo pensiero e del suo sogno immortali, senza confini, e come Tat’jana crede nella predestinazione del loro legame (nel protagonista del poema confluiscono elementi di entrambi i personaggi puškiniani, del resto in ogni essere sono presenti una componente maschile e una femminile, a maggior ragione in un demone):

Dal principio del mondo, a me nell’anima,
Sta impresso il sigillo del tuo volto:
Il tuo volto lo vedevo a me davanti
Nei deserti del sempiterno cielo (93).

Il Demone manifesta tutto il peso, tutta la fatica, tutta la frustrazione per la propria condizione eterna, priva di orizzonti, fatta di gioie e di sofferenze amare, senza «lodi per il male», senza «ricompense per il bene». Una condizione che non prevede mutamento, cristallizzata nei secoli, irreversibile, in cui si vive solo ed esclusivamente «per sé» e nella «noia», in una lotta permanente senza vittoria e senza pace. Agli occhi di Tamara il Demone si denuda, come forse non ha mai fatto sinora, le confessa tutto il proprio dolore, mostrandosi stanco e debole, contraddittorio, lacerato, desideroso di pace e amore, forse persino della morte, quasi esercitasse il male suo malgrado. Il Demone di Lermontov è un personaggio per nulla astratto, ma fatto di carne e sangue, e proprio in questo risiede la sua grandezza.

Il Demone si scrolla di dosso la sua corazza di gelida, spigolosa pietra e svela all’amata la sua più intima, inaccessibile e vulnerabile sostanza, umana troppo umana: egli è costretto a odiare e disprezzare tutto, ed è inoltre schiacciato dal peso della conoscenza assoluta – il Demone tutto sa, tutto sente, tutto vede ed è privato del conforto dell’illusione, del sogno. Ma è proprio Tamara, l’amore per lei, a ricondurlo al sogno, sogno d’amore, di passione e pace, sogno di resurrezione e di salvezza, di recupero di quel tempo felice in cui egli risplendeva in paradiso e che, in un certo senso, rappresenta la sua infanzia esistenziale. Il valore più grande dell’infanzia è rappresentato dalla spensieratezza, dall’incoscienza, dall’irresponsabilità ed è proprio questa dimensione infantile e gioiosa dell’esistenza che il Demone sogna di recuperare.

Il Demone si confessa, dà libero sfogo alle proprie sofferenze, dinanzi alle quali l’umanità, la vita, le fatiche sono nulla – che importa della storia all’individuo che soffre? egli è concentrato tutto nel proprio dolore, e nella propria tristezza, immutabile, infinita, che lo blandisce come un serpente, lo brucia e sferza come un fuoco, lo schiaccia come un masso, «sepolcro indistruttibile di tutte / le mie morte speranze e le passioni!…» (99).

Tamara, timorata, teme l’orecchio e lo sguardo di Dio, che tutto sente, tutto vede, ma il Demone la rassicura con una battuta polemica che rivela la sua natura sovversiva, causa della sua condanna: «Non ci degna nemmeno d’uno sguardo. / Il cielo gl’interessa, non la terra!» (101).

Incalzato da Tamara, che teme l’inganno e la dannazione, il Demone giura, in versi febbrili, ardenti, di voler fare la pace con il cielo, di voler amare, di voler desiderare e fare il bene. Della fanciulla egli ha fatto il suo nuovo «sacrario» e ai suoi piedi pone il proprio potere, promettendole l’«eternità» in cambio dell’amore. Egli farà di Tamara la «regina» dell’universo, e senza rimpianto la fanciulla guarderà la terra lontana, quella terra priva di una felicità «sincera», di una bellezza duratura, colma soltanto di delitti, di pene e di «misere passioni». Il Demone promette di rivelare a Tamara l’«abisso dell’ardita conoscenza» e di darle tutta, «tutta la terra» (107-111).

Il bacio

Tamara, figlia e bellezza dell’uomo e del mondo, sostanza di luce, dopo aver ascoltato con una «gioia segreta» le parole del Demone, accogliendone il dolore, cede al corteggiamento e i due si baciano, bruciano:

Profondamente la guardò negli occhi!
E la bruciò. Nel buio della notte
Su di lei la sua luce risplendeva
Irresistibile: come un pugnale (111).

Il Demone trionfa e il «veleno mortale del suo bacio» immediatamente inonda il cuore di Tamara, il cui grido terribile, «di tormento e di dolore», squarcia il silenzio della notte. In quel grido c’è tutto, l’amore e la sofferenza, il piacere carnale, il rimprovero e l’addio «alla giovane vita ormai perduta» (113). Il Demone ha celato a Tamara il carattere sacrificale del suo amore, o forse la fanciulla non lo ha saputo cogliere, irretita dalla passione (il protagonista in fondo parla di un momento, di un solo momento). Quella del Demone e di Tamara è una unione nella morte, una unione possibile solamente attraverso il sacrificio fisico della fanciulla, con il confine tra assassinio e suicidio che si fa sottilissimo, fin quasi a scomparire (nel suo inconscio Tamara forse sa, forse ha sempre saputo, sin dall’inizio). Anche nell’amore il Demone sparge dolore, distruzione, morte: è questo il suo terribile destino.

La sconfitta

Morta nell’«acme dell’ebbrezza e dell’amore», distesa nella bara e circondata di fiori odorosi, Tamara conserva un sorriso misterioso, che s’intravvede appena ed è impossibile da decifrare con certezza (un’ultima, resistente traccia del mortale piacere provato nell’unione carnale con il Demone?).

Un angelo conduce nello «spazio dell’etere azzurro» l’«anima peccatrice» di Tamara, ma il Demone interrompe la loro corsa verso la luce, reclamando il possesso della fanciulla: «Tamara è solo mia!» (121). Terrorizzata, Tamara si stringe all’angelo e cerca conforto nella preghiera. La vista del Demone ora la atterrisce, perché il Demone, furioso per l’intervento divino, ribolle del «mortal veleno / del suo odio», e dal suo volto spira il «gelido orrore del sepolcro» (123). L’attimo della speranza, dell’amore, della resurrezione, della confessione è passato e non tornerà più: il Demone è rientrato nella sua dimensione malvagia, fatta di risentimento, di disprezzo e, ferito e offeso nel profondo dall’affronto divino, che le sottrae la creatura amata, mostra il suo volto peggiore, sepolcrale.

Tamara, destinata in vita al dolore, è destinata in morte alla salvezza: ella ha sofferto e amato, e «all’amore si è aperto il paradiso» (125). Dopo aver rivelato il trionfale destino di Tamara l’angelo maledice il Demone, i suoi sogni «di follia e d’amore» e sprofonda con l’anima salva della fanciulla nell’azzurro del cielo. Il Demone, sconfitto, umiliato, resta di nuovo solo nell’universo, di nuovo «senza speranza alcuna. E senza amore!…» (ibidem).

Il Demone, distrutto il suo sogno d’amore, sprofonda di nuovo e per sempre nella sua condizione di esilio, di solitudine, di vuoto, di disperazione, di spietata, feroce conoscenza fine a se stessa. Egli ha tentato di mutare il proprio stato, di ritrovare la pace e l’armonia perdute, ma è stato sconfitto, ancora una volta, da quel Dio di cui, nel suo fiero individualismo, si rifiuta di riconoscere la suprema autorità. Il Demone ha misurato la propria forza e, soprattutto, la propria impotenza, provando come la solitudine sia il prezzo da pagare per l’orgogliosa ribellione al potere. Il drammatico destino del Demone è il destino degli esuli, degli esclusi, dei radicali che pongono la propria coscienza davanti a tutto, al centro di tutto e non riconoscono altra autorità all’infuori di se stessi. Il destino dello stesso Lermontov.

NOTE

[1] Eridano Bazzarelli, Introduzione a Michail Lermontov, Il demone, a cura di Eridano Bazzarelli, Rizzoli, Milano 2021, p. 9.

[2] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo Aleksandr Puškin, «Evgenij Onegin»: il coraggio di rinunciare. Prima parte, Seconda parte.

[3] Fëdor Dostoevskij, Discorso su Puškin, traduzione di Ettore Lo Gatto, in Id., Diario di uno scrittore, Bompiani, Milano 2010, pp. 1274-1275.

[4] Luigi Vittorio Nadai, Introduzione a Michail Lermontov, Un eroe del nostro tempo, Garzanti, Milano 2021, p. XII.

[5] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo «Un eroe del nostro tempo»: la terribile diagnosi di Lermontov.

[6] Eridano Bazzarelli, Introduzione, cit., p. 15.

[7] Ivi, p. 10.

[8] Per un approfondimento sul saggio rimando al contributo Albert Camus, «L’uomo in rivolta»: la metafisica e l’arte.

[9] Per un approfondimento sul personaggio rimando al contributo Alcune superflue considerazioni sul monumentale Faust di Goethe e al capitolo diciottesimo del Soliloquio del dolore (il paragrafo Trascendenza del nulla).

[10] Eridano Bazzarelli, Introduzione, cit., p. 25.

[11] Michail Lermontov, Il demone, cit., p. 39. D’ora in avanti il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[12] Albert Camus, L’uomo in rivolta, traduzione di Liliana Magrini, Bompiani, Milano 2020, p. 35.

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