Emil Cioran, «Al culmine della disperazione» ovvero tra la vita e la morte

In sostanza, agonia significa un tormento alla frontiera tra la vita e la morte. E poiché la morte è immanente alla vita, quasi tutta la vita è un’agonia.

Uno. Il disastro e la salvezza

Scritto nel 1933, a ventidue anni, nella sua madrelingua, «superbamente scomposta», Al culmine della disperazione, il primo e più puro, più autentico, probabilmente, libro di Cioran, nasce da un profondo, lacerante e sconvolgente dramma interiore, innescato da ciò che l’autore, nella prefazione postuma, definisce il «disastro per eccellenza», il «nulla senza tregua», una «vertiginosa lucidità» capace di trasformare persino il paradiso in un «luogo di tortura», una «allerta permanente», una «criminale assenza di oblio» [1]: l’insonnia. L’insonnia stravolge la vita del giovane Cioran, rovina tutti i suoi progetti, sgretola tutte le sue certezze speculative acquisite nel corso degli studi, rivelandogli la «futilità della filosofia»:

Le ore di veglia sono, in sostanza, un’interminabile ripulsa del pensiero attraverso il pensiero, è la coscienza esasperata da se stessa, una dichiarazione di guerra, un infernale ultimatum della mente a se medesima [2].

È in questa terribile «condizione di spirito», in cui la riflessione e la percezione di sé, della propria esistenza raggiungono picchi di vertigine che stordiscono l’individuo e trasformano, in una diabolica metamorfosi, ogni sua singola idea in un’ossessione divorante, che il giovane Cioran concepisce Al culmine della disperazione, trovando nella scrittura un’insperata ancora di salvezza, perché senza questa «liberazione», senza questa «esplosione salutare» di parole, o meglio, di lacrime fatte parole, l’insonnia lo avrebbe spinto certamente al suicidio.

Del resto, per l’individuo giunto ai «limiti della vita», sprofondato in una condizione di «esasperazione» permanente, che priva di fascino e interesse ogni gesto quotidiano, ogni aspirazione comune, è possibile continuare a vivere solamente scrivendo, ovvero alleggerendosi, attraverso l’oggettivazione garantita dalla scrittura, di quella «tensione infinita» che, come una febbre inestinguibile, lo divora dall’interno. In questo contesto spirituale e psicologico irrimediabilmente compromesso, la creazione rappresenta l’unica «salvezza», seppur temporanea, dagli «artigli della morte».

Due. La solitudine estrema

Privato del conforto, del salutare oblio del sonno, il giovane Cioran attraversa i più «orridi abissi di tenebra», scandaglia, «palombaro del nulla», il fondo doloroso e tragico dell’esistenza, ignoto ai sani. L’insonnia acuisce la percezione di sé, del proprio dolore, del proprio dramma, è una «tortura» in cui «si avverte ogni istante della notte», in cui al mondo esisti solo tu e la tua tragedia individuale diventa la più «importante della storia». La storia stessa è «svuotata di senso», si disperde, non esiste più, svanisce, perché la tua vita «appare come unica e sola in un mondo nato soltanto per portare a termine» la tua «agonia» [3]. All’uomo senza sonno non è concesso allontanarsi da se stesso, non è concesso disperdersi, dimenticarsi: egli è un grumo purissimo di consapevolezza e dolore, di solitudine e disperazione.

Tre. Una terribile continuità

Il sonno permette di dimenticare il «dramma della vita, le sue complicazioni e le sue ossessioni» (immediata l’associazione con il Cantico del gallo silvestre di Leopardi: «Tal cosa è la vita [in questo “Tal” c’è davvero tutto, è concentrato l’intero dramma dell’essere], che a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte» [4]), ecco perché esserne privi è una catastrofe. Il sonno infonde alla vita una «piacevole discontinuità», una benefica, salutare, naturalmente necessaria alternanza tra coscienza e incoscienza, sapere e oblio, dolore e sogno, mentre l’insonnia conduce al «sentimento dell’agonia, a una tristezza eterna e senza rimedio, a una disperazione assoluta» [5]. Privato del conforto del sonno, dell’oblio temporaneo, l’uomo è costretto a fare i conti ininterrottamente con la propria tragedia. Persino la differenza tra paradiso e inferno si riduce a questo, alla presenza-assenza del sonno: mentre in paradiso è possibile dormire quanto si vuole, nell’inferno non si dorme mai (il dannato è costretto a restare eternamente presente a se stesso, alla propria pena, al proprio dolore, alla propria disperazione).

Quattro. L’immanenza della morte

L’agonia è uno dei concetti-chiave di Al culmine della disperazione (non a caso Tra la vita e la morte è l’altro titolo pensato da Cioran per il suo primo libro [6]), il cui senso più profondo e autentico è rappresentato dalla terribile «rivelazione dell’immanenza della morte nella vita» [7]:

La morte non è qualcosa di esterno, ontologicamente diverso dalla vita, poiché la morte come realtà autonoma non esiste. Entrare nella morte non vuol dire […] esalare l’ultimo respiro per accedere a una regione diversa, ma significa scoprire nella progressione della vita un cammino verso la morte, e riconoscere nelle pulsazioni vitali uno sprofondare in essa [8].

La morte è qui e ora, è la vita a conferirle concretezza, effettività, e ciò che finisce con la morte non è soltanto la vita, ma la morte stessa («È finita la morte […]. Non c’è più» [9], si dice Ivan Il’ič esalando l’ultimo respiro, in conclusione di una delle opere più importanti di Tolstoj, se non addirittura la più importante in assoluto). La morte è una «fatalità inerente all’essere», una «presenza eterna e sconvolgente», e chi ha la sfortuna di avvertirne la presenza, perdendo così per sempre la «dolce incoscienza dell’uomo comune», introduce «il nulla nella formazione dell’essere». Non è possibile concepire la morte senza il nulla, dunque l’immanenza della morte «segna il trionfo definitivo del nulla sulla vita», vale a dire dell’insensatezza, dell’assurdità sul senso: dinanzi alla piena, fisica consapevolezza della morte, della sua immanenza nella vita, «non resta niente di ciò che il mondo crede di aver creato per sempre» [10].

Vivere è morire, vivere, ricorrendo ancora al Leopardi del Cantico del gallo silvestre, è un progressivo e inesorabile «appassire», tanto «in ogni opera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte» [11], e poiché «ognuno porta in sé non solo la propria vita, ma anche la propria morte», la «vita non è che una prolungata agonia» [12]. Come può un uomo consapevole di queste terribili verità, insonne metafisico, dormire? La consapevolezza gli ha reciso le palpebre per sempre:

Al culmine della disperazione, nessuno ha più diritto al sonno [13].

Cinque. La tensione

Al culmine della disperazione è attraversato, dalla prima all’ultima pagina, da una fortissima, incontenibile tensione esistenziale, esasperata fino ai limiti estremi, fino al niente e alla follia, in una «vertigine interiore» che «consuma fino all’assurdo». Questa tensione febbrile, questa acutissima percezione di sé, della propria vita, della propria esistenza, della propria morte esaurisce precocemente l’individuo, che, appena ventenne, è già arrivato al termine della propria parabola esistenziale (del resto, nell’uomo consapevole, che tutto vede e tutto sa, l’età anagrafica non corrisponde affatto all’età spirituale, gravata del peso insostenibile dei secoli):

Quando hai vissuto fino al parossismo, fino alla suprema tensione tutte le cose che ti ha offerto la vita, sei pervenuto a quello stato in cui non c’è più niente che si possa ancora vivere. Anche senza aver dato fondo a tutte le esperienze: basta aver esaurito le principali [14].

Una condizione estremamente rischiosa, «perché un’esistenza troppo consapevole delle sue radici non può che negare se stessa», e che cosa possono «ancora aspettarsi dal mondo coloro che sentono al di là del normale la vita, la solitudine, la disperazione e la morte?» [15]. Niente, non possono aspettarsi più niente. Non gli resta altro da fare che bruciare del loro stesso fuoco, come il persuaso di Michelstaedter [16].

Sei. L’assurdo

Prostrato, estenuato (in tal senso le parole scritte l’8 aprile 1933, giorno del suo ventiduesimo compleanno, le uniche datate, sono forse le più cupe dell’intero libro, perché in esse il dramma esistenziale dell’autore sgorga spontaneo, senza troppe mediazioni [17]), il giovane Cioran individua nell’assurdo l’unica, possibile ragione di vita: giunti al culmine della disperazione, al deserto e al buio metafisici, «solo la passione dell’assurdo può rischiarare di una luce demoniaca il caos». Senza più ideali, senza più aspirazioni e speranze che indichino una direzione e uno scopo, solamente «aggrappandosi all’assurdo, all’inutilità assoluta, a qualcosa, cioè, che non ha alcuna consistenza, ma la cui finzione può creare un’illusione di vita» [18], si può ancora salvare la vita dal nulla (una valutazione positiva dell’assurdo che, di lì a qualche anno, troverà la sua massima espressione filosofico-letteraria nel Mito di Sisifo di Camus [19]).

Sette. Una filosofia del sangue e della carne

Il giovane Cioran rivendica con forza la necessità di una riflessione viva, che conservi il profumo del sangue e della carne (in una lettera del 5 aprile 1932 a Bucur Tincu egli esprime la volontà di «scrivere qualcosa col sangue» [20], e Al culmine della disperazione è il risultato di questa volontà), che non sia astratta, sistematica, gelida, sebbene questo approccio carnale alla filosofia «implichi un coinvolgimento doloroso che annienta e isola l’individuo» [21]. Ogni «tentativo di trasferire su un piano logico i problemi esistenziali è votato alla sconfitta»; la filosofia tradizionale, astratta, sistematica, «è l’arte di mascherare i propri sentimenti e i propri supplizi interiori al fine di ingannare il mondo sulle vere radici del filosofare» [22]. Accogliendo ed elaborando la fondamentale lezione di Nietzsche, che rivoluziona il pensiero occidentale desistematizzandolo, il giovane Cioran sostiene l’esigenza di una filosofia fatta di sangue e carne, che affronti in un diretto e bruciante corpo a corpo le questioni filosofiche più essenziali, senza perdersi in inutili sofismi:

il problema della sofferenza è infinitamente più importante del sillogismo, […] un grido di disperazione è ben più rivelatore della più sofistica delle sottigliezze, […] una lacrima ha radici più profonde di un sorriso [23].

Otto. La prospettiva profonda

Cioran elabora e inaugura la propria filosofia del sangue e della carne, grida la propria disperazione da una «prospettiva profonda», ferocemente consapevole, una prospettiva dalla quale «ogni passo nella vita è un passo nella morte, e il ricordo non è che una traccia del nulla» [24]. Un punto di vista diametralmente opposto rispetto a quello dell’uomo «normale», in perfetta salute, mediocre, che, del tutto privo di «senso metafisico», «non ha coscienza di entrare a poco a poco nella morte» [25], relegata a una dimensione estranea alla vita e intesa come una sciagura lontana e misteriosa. In questo senso, se l’agonia, «tormento alla frontiera tra la vita e la morte», condizione metafisica, spirituale dell’uomo consapevole, ha un aspetto positivo, è proprio quello di liberare l’individuo dalla piaga della mediocrità, di purificarlo, di ricondurlo alle radici dell’esistenza, di infondergli una nuova linfa e un nuovo calore, di trasfigurarlo, di abituarlo alle alte temperature, in una sorta di disperato eroismo.

Nove. Nonostante tutto vivere

L’uomo disperato, «pur risolvendo tutti i problemi non sarebbe meno inquieto», perché la sua «inquietudine scaturisce dalla struttura stessa del suo essere», e la «disperazione è uno stato in cui l’ansietà e l’inquietudine sono immanenti all’esistenza» [26]. La disperazione del giovane Cioran è così profonda e vasta da non consentirgli neppure la «speranza della morte». La piena consapevolezza della morte non lo consola, anzi, egli subisce l’inevitabilità della fine, la cui negatività gli ispira al massimo ammirazione, ma non amore. Il giovane Cioran rifiuta l’idea del suicidio e la sua interpretazione come affermazione della vita. Il suicidio rivela al contrario l’«incapacità di vivere», estrema conseguenza della «più spaventosa tragedia interiore» [27]. La morte disgusta il giovane Cioran «tanto quanto la vita», per questo motivo l’annientamento di sé non è una strada percorribile per lui, condannato nonostante tutto a vivere. È l’istintivo rifiuto del corpo, che naturalmente «indietreggia davanti all’annientamento» e il cui giudizio vale quanto quello dello spirito, come scrive Camus nel Mito di Sisifo, costringendo l’uomo consapevole e disperato a una sorta di prigionia dalla quale è possibile evadere in due modi: attraverso la speranza, la speranza di un’altra vita o di una grande idea, che superi la vita stessa, sublimandola, dandole un senso e dunque tradendola, come avviene, secondo Camus, in tutti i pensatori esistenzialisti, oppure attraverso l’accettazione dell’assurdo, del «divorzio fra lo spirito che desidera e il mondo che delude», della disperazione, accolta e sostenuta con coraggio, «senza tremare». «Tutto considerato, un’anima energica saprà sempre adattarvisi» [28], ed è proprio un’energia incontenibile, traboccante, alimentata da una febbrile ansia di rivolta, ad animare e scuotere il giovane Cioran, deciso a sfruttare la grande opportunità fornita dall’assurdo, l’unico appiglio al quale aggrapparsi per salvare la vita dal nulla.

Dieci. La condanna all’infelicità

Pensare, pensare davvero, di continuo, senza tregua, fino a consumarsi, fino a estinguersi nella riflessione, è una condanna all’infelicità:

Una constatazione che verifico, con mio grande rammarico, a ogni istante: sono felici solo coloro che non pensano mai, vale a dire coloro che pensano giusto il poco che basta per vivere. Ma pensare il minimo indispensabile non significa pensare. Il vero pensiero somiglia a un dèmone che intorbida le fonti della vita, o a una malattia che ne intacca le radici. Pensare in ogni istante, porsi problemi capitali a ogni piè sospinto, provare il dubbio assillante circa il proprio destino, avvertire tutta la fatica di vivere, estenuato dai propri pensieri e dalla propria vita fino a non poterne più; lasciare dietro di sé una traccia di sangue e di fumo quali simboli del dramma e della morte del proprio essere – tutto questo significa essere infelici a un punto tale che il pensare ti dà il voltastomaco; e ti chiedi se la riflessione non sia una sciagura per l’uomo [29].

In realtà la riflessione aggrava una condizione innata e irreversibile nell’uomo, in ogni uomo: l’infelicità «è in noi», l’infelicità siamo noi, e nella vita di un uomo non si tratta mai di «conseguire la felicità, ma un grado minore di infelicità» [30]. Infelicità che, a partire da noi stessi, riversiamo sul mondo intero, precludendoci così «ogni possibilità di diminuirla o di renderla più sopportabile» [31].

Undici. L’insensatezza e il nulla

Non soltanto la vita non ha alcun senso, «ma non può averne uno». Mentre infatti per l’animale la vita è tutto, per l’uomo la vita è un «punto interrogativo», un punto interrogativo «definitivo», senza risposta:

Tutto è possibile e niente lo è; tutto è permesso e niente. Qualsiasi direzione s’imbocchi non sarà migliore di un’altra. Realizzare qualcosa o niente, credere o no, è lo stesso, come lo è tacere o gridare [32].

L’esistenza umana, in ogni suo sviluppo, dal più grandioso al più insignificante, in ogni sua forma, dalla più sviluppata alla più elementare, è cristallizzata nell’insensatezza. La sua essenza resta un grumo purissimo di assurdità che non troverà mai ragione. Alla fine, cosa resta?

Che si soffra o meno, tutto sprofonderà inesorabilmente nel nulla [33].

Dodici. Nient’altro da aggiungere (o forse sì)

Non credo che, giunti a questo punto, ci sia altro da aggiungere. Semplicemente mi infastidiva – chissà perché – che il numero dei capitoli fosse dispari.

In realtà, a pensarci bene, un’ultima cosa ci sarebbe. C’è una frase di Camus che mi ronza nella testa, una frase che si trova nell’Uomo in rivolta, in una nota a piè di pagina: «Nominare la disperazione è superarla» [34]. Dunque Cioran, nominandola, supera la propria disperazione, nella sua espressione trova la salvezza, e non tanto con il suo primo libro, scritto in una condizione di anonimato, senza una certezza di pubblicazione e senza troppo compiacimento (per questo motivo ho definito Al culmine della disperazione, all’inizio del presente contributo, il libro forse più puro, più autentico del pensatore romeno), quanto con i successivi. Come tutti i consapevoli che sopravvivono alle terribili verità dell’esistenza, all’insensatezza della vita, all’immanenza della morte, alla necessità della sofferenza, al destino di infelicità dell’uomo, Cioran rischia di fare del proprio pessimismo una «professione», come scrive Michelstaedter a proposito di Schopenhauer. Del resto, secondo quanto sostiene Camus, ed è quasi impossibile, almeno per il sottoscritto, essere in disaccordo con Camus, sempre nell’Uomo in rivolta, ogni «filosofia della non-significanza vive sulla contraddizione per il fatto stesso d’esprimersi. Essa dà con ciò un minimo di coerenza all’incoerenza, introduce un rapporto di conseguenza in quello che, a darle retta, è privo di connessione. Parlare ripara. Il solo atteggiamento coerente fondato sulla non-significanza sarebbe il silenzio […]» [35].

NOTE

[1] Emil Cioran, Al culmine della disperazione, traduzione di Fulvio Del Fabbro e Cristina Fantechi, Adelphi, Milano 1998, p. 11.

[2] Ivi, pp. 11-12.

[3] Ivi, p. 29.

[4] Giacomo Leopardi, Operette morali, in Id., Tutte le poesie e tutte le prose, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 576. Per un approfondimento sul testo rimando al contributo Giacomo Leopardi, «Cantico del gallo silvestre»: dell’infelicità permanente e della distruzione.

[5] Emil Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 100.

[6] «Finora ho scritto circa cinquanta pagine di un libro che vorrei intitolare Al culmine della disperazione o tra la vita e la morte, composto interamente di frammenti di 2-3 pagine, quasi tutte liriche e di un radicalismo feroce con la più bestiale vena pessimistica» (lettera a Petre Comarnescu, in Emil Cioran, Lettere al culmine della disperazione (1930-1934), traduzione di Marisa Salzillo, Mimesis, Milano 2013, p. 61.

[7] Emil Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 34.

[8] Ivi, p. 33.

[9] Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, a cura di Paolo Nori, Feltrinelli, Milano 2014, p. 94. Per un approfondimento sul racconto rimando al contributo Lev Tolstoj, «La morte di Ivan Il’ič»: la scoperta della fine e della menzogna.

[10] Emil Cioran, Al culmine della disperazione, cit., pp. 38-39.

[11] Giacomo Leopardi, Operette morali, cit., p. 576.

[12] Emil Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 55.

[13] Ivi, p. 51.

[14] Ivi, p. 20.

[15] Ivi, p. 21.

[16] «Ogni suo attimo è un secolo della vita degli altri, – finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente. In questo egli sarà persuaso – ed avrà nella persuasione la pace» (Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 89. Per un approfondimento sul concetto di persuasione nel filosofo goriziano rimando alla prima parte dello studio La filosofia dell’impossibile di Carlo Michelstaedter).

[17] «Il fatto che io esisto prova che il mondo non ha alcun senso. Quale senso potrei trovare, infatti, nei tormenti di un uomo infinitamente tragico e infelice, per il quale tutto si riduce in ultima istanza al nulla, e per il quale la sofferenza è la legge di questo mondo? […] La bestialità della vita mi ha calpestato e schiacciato, mi ha tagliato le ali in pieno volo e derubato di tutte le gioie a cui avevo diritto» (Emil Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 25).

[18] Ivi, p. 21.

[19] Per un approfondimento sul saggio rimando al contributo Albert Camus, «Il mito di Sisifo»: la grande opportunità dell’assurdo. Prima parte, Seconda parte.

[20] Emil Cioran, Lettere al culmine della disperazione (1930-1934), cit., p. 51.

[21] Emil Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 33.

[22] Ivi, p. 40.

[23] Ivi, p. 33.

[24] Ivi, p. 35.

[25] Ibidem.

[26] Ivi, p. 51.

[27] Ivi, p. 67.

[28] Albert Camus, Il mito di Sisifo, traduzione di Attilio Borelli, Bompiani, Milano 2020, p. 39.

[29] Emil Cioran, Al culmine della disperazione, cit., p. 56.

[30] Ivi, p. 133.

[31] Ivi, p. 134.

[32] Ivi, p. 132.

[33] Ivi, p. 77.

[34] Albert Camus, L’uomo in rivolta, traduzione di Liliana Magrini, Bompiani, Milano 2020, p. 287. Per un approfondimento sul saggio rimando al contributo Albert Camus, «L’uomo in rivolta»: la metafisica e l’arte.

[35] Ivi, pp. 10-11.

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