Dostoevskij in una xilografia di Félix Vallotton del 1895

Fëdor Dostoevskij ovvero della sofferenza (e della felicità, forse)

Non c’è felicità nel confort, la felicità si acquista con la sofferenza. L’uomo non nasce per la felicità. L’uomo si guadagna la sua felicità, e sempre con la sofferenza.

Dostoevskij in un appunto su «Delitto e castigo»

Uno. Esperienze-limite

L’arresto, il carcere, la condanna a morte, l’esecuzione-farsa, la deportazione in Siberia, i lavori forzati, l’esilio, l’epilessia, i lutti (le morti premature della madre, della prima moglie, del fratello Michail, della primogenita), la miseria, l’ossessione del gioco: sono queste le esperienze-limite che segnano l’incredibile vita di Dostoevskij, rendendola straordinaria, nella sofferenza e nell’intensità, paragonabile a quella di pochi altri scrittori nella storia della letteratura, e che si riflettono, naturalmente, in un autore che, come lui, «non si è mai cercato», ma «si è perdutamente dato nella sua opera», come scrive Gide [1], nei suoi testi, contribuendo in modo decisivo alla loro grandezza. E ripercorriamole allora queste esperienze, questi traumi violenti, a partire dall’arresto, avvenuto nel 1849, quando Dostoevskij veniva considerato, e si considerava egli stesso, secondo la preziosa e, per molti aspetti sorprendente, testimonianza del poeta Majkov, un temibile rivoluzionario [2].

Due. L’arresto e l’esecuzione-farsa

È il 1847 quando Dostoevskij, giovane eppure già celebre scrittore (ha ventisei anni), autore di due romanzi, l’apprezzato Povera gente, sua opera prima, e l’incompreso e criticato Sosia, pubblicati entrambi l’anno precedente [3], inizia a frequentare, insieme al fratello Michail, il circolo fourierista di Petraševskij. Qui, tra le altre cose, Dostoevskij legge la Lettera di Belinskij a Gogol’, indignata, appassionata e sovversiva risposta del critico all’ultimo libro dell’autore delle Anime morte, Passi scelti della corrispondenza con gli amici, e la pubblica lettura di questo testo, documento fondamentale per l’intelligencija progressista russa presente e futura, costituisce il principale capo d’accusa contro lo scrittore, arrestato nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1849, insieme agli altri membri del circolo, e rinchiuso nel carcere-fortezza di Pietro e Paolo a Pietroburgo. Dostoevskij trascorre otto mesi in prigione, dal 24 aprile al 21 dicembre; il 22 viene condotto, insieme ai compagni, in piazza Semënovskaja, per l’esecuzione della pena decretata dalla commissione d’inchiesta all’inizio di novembre: condanna a morte per fucilazione. Nel gelo pietroburghese i prigionieri partecipano al torturante rito che precede l’esecuzione, ricevono il conforto della croce e infine, spogliati dei loro abiti troppo leggeri, primaverili, gli stessi con i quali otto mesi prima sono stati arrestati, indossano la divisa dei condannati a morte: una semplice camicia bianca. I primi tre del gruppo vengono legati ai pali e incappucciati, i fucili puntati contro di loro (lo scrittore fa parte del secondo terzetto). È tutto pronto, ma ecco che le armi, invece di sparare, si alzano: la crudele messinscena finalmente ha termine. In quello stesso 22 dicembre Dostoevskij, condannato a quattro anni di lavori forzati, scrive al fratello Michail una delle sue lettere più note e toccanti, in cui racconta l’incredibile giornata e, soprattutto, comunica le sue impressioni:

Fratello, io non mi sono abbattuto, non mi sono perso d’animo. La vita è vita dappertutto; la vita è dentro noi stessi, e non in ciò che ci circonda all’esterno. Intorno a me ci saranno sempre degli uomini, ed essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, in qualsiasi sventura, non abbattersi e non perdersi d’animo, ecco in che cosa sta la vita, e in che cosa consiste il suo compito. Io mi sono reso conto di questo, e questa idea mi è entrata nella carne e nel sangue. Sì, è vero! Quella testa che creava, che viveva della vita superiore dell’arte, che aveva preso coscienza e si era abituata alle sublimi esigenze dello spirito, ebbene quella testa è già stata tagliata via dalle mie spalle. È rimasta la memoria e le immagini da me create, ma non ancora realizzate. Queste immagini mi bruceranno come piaghe aperte, è vero! Ma in me è rimasto il cuore, è rimasta quella stessa carne e sangue che può sempre amare e soffrire, desiderare e ricordare, e questa è ancora vita. On voit le soleil! [4]

Sono parole straordinarie, impressionanti, le parole di un uomo che, fino a pochi istanti prima certo di morire, torna improvvisamente alla vita e ne comprende il valore inestimabile. Il valore e il «compito», lo scopo: essere un uomo (proposito espresso da Dostoevskij, un giovanissimo Dostoevskij, appena diciottenne, già dieci anni prima, in una lettera al fratello Michail del 16 agosto 1839: «L’uomo è un mistero. Un mistero che bisogna risolvere, e se trascorrerai tutta la vita cercando di risolverlo, non dire che hai perso tempo; io studio questo mistero perché voglio essere un uomo» [5]) e restarlo sempre, in ogni sciagura, senza abbattersi mai, senza cedere alla disperazione, in nessun caso. Il 22 dicembre 1849 la vita di Dostoevskij si spezza in due (lo strappo improvviso, la violenta scossa tellurica che spacca l’esistenza dell’individuo diverrà una delle sue cifre narrative) e niente sarà più come prima, a livello umano e, di conseguenza, letterario. Dostoevskij non è più uno scrittore celebre, che vive «della vita superiore dell’arte» ed è abituato «alle sublimi esigenze dello spirito», ma un semplice uomo (in questa straordinaria lettera parla l’uomo), un uomo come tutti, e peggiore di molti altri, un forzato, e se anche questa metamorfosi è causa di un dolore bruciante, va bene così, perché «questa è ancora vita». Dostoevskij viene ricondotto con forza all’essenziale, al cuore, alla carne, al sangue, a quella vita elementare, originaria, disadorna e minimale che è ovunque e innanzitutto dentro noi stessi, sempre, che ci si trovi in un salotto oppure in una cella.

Vent’anni dopo, l’esperienza della pena di morte ispirerà a Dostoevskij pagine fondamentali dell’Idiota, in cui il protagonista, l’indimenticabile principe Myškin, il più luminoso, in assoluto, dei suoi personaggi, racconterà proprio di un condannato a morte graziato all’ultimo istante e giunto così alla piena consapevolezza del valore inestimabile della vita:

Ma sarà meglio che vi parli di un’altra persona, un tipo che conobbi un annetto fa. Il suo era un caso molto strano: dico strano, perché raro. Era stato condannato, insieme con altri, alla fucilazione. Per non so quale delitto politico, doveva essere giustiziato. Gli fu letta la sentenza di morte. Se non che, venti minuti dopo, arrivò la grazia, cioè la commutazione della pena. Nondimeno, durante quei venti o quindici minuti, egli visse nella ferma convinzione che di lì a poco sarebbe morto. Io lo ascoltavo con vivo interesse quando narrava delle sue impressioni di allora e gli facevo cento e cento domande. Si ricordava di tutto con una chiarezza straordinaria: non avrebbe mai dimenticato, diceva, un solo attimo di quei minuti. A venti passi dal luogo dell’esecuzione, affollato dai soldati e dal popolo, i carnefici avevano piantato tre pali perché i condannati erano parecchi. Portarono i primi tre verso quei pali, li legarono, li vestirono con l’abito di morte, cioè con lunghi camici bianchi, calcarono sui loro occhi dei berretti, sempre bianchi, affinché non vedessero i fucili; poi, di fronte a ciascun palo si schierò un drappello di soldati. Il mio uomo era l’ottavo condannato, e quindi doveva essere legato al palo nella terza serie. Un prete, con in mano il crocefisso, assisteva i condannati. Si arrivò così a cinque minuti prima del momento fatale, non più di cinque. Quei cinque minuti, diceva il mio uomo, gli erano sembrati interminabili, un’enorme ricchezza. Gli pareva di vivere, in quel brevissimo intervallo, tante e tante vite e così lunghe, che non sembrava assurdo pensare all’imminenza della morte. Distribuì il suo tempo in questo modo: due minuti per dire addio ai compagni, altri due per raccogliersi e pensare a sé, un minuto per dare un’occhiata a quello che gli succedeva intorno. Aveva ventisette anni; era sano e robusto. Accomiatandosi da uno dei compagni, si ricordava di aver fatto una domanda insignificante e di averne aspettato con interesse la risposta. Agli addii seguirono i due minuti del raccoglimento. Sapeva già cosa avrebbe pensato: “Adesso sono vivo; ma fra tre minuti, che sarò? qualcuno o qualche cosa, e dove?”. Non lontano sorgeva una chiesa, e la cupola dorata splendeva nel sole. Si era messo a fissare questa cupola: credeva che i raggi che vi si riflettevano fossero la sua nuova natura e che fra tre minuti egli si sarebbe confuso con essi. L’ignoto che lo attendeva era certamente terribile; ma, ad atterrirlo per davvero, era un pensiero assiduo: “E se non morissi? se la vita continuasse?… Che eternità! E tutta, tutta a mia intera disposizione… Oh, se così fosse, io non sprecherei mai più un solo attimo di vita e vivrei ogni minuto con l’intensità di un’esistenza intera!”. Questo pensiero lo invadeva in maniera tanto profonda che, a quel punto, avrebbe voluto essere fucilato all’istante [6].

Non sprecare più un solo attimo di vita, vivere ogni singolo minuto con l’intensità di un’intera esistenza: è l’utopia del condannato a morte che, graziato un istante prima dell’esecuzione della pena, si rende conto ben presto dell’impossibilità del suo proposito. Alla domanda infatti se il condannato, tornato alla vita, riuscì effettivamente a onorare tutti i minuti della sua esistenza, Myškin risponde: «Oh no! Glielo domandai una volta e mi confessò di averne perduti molti, di minuti» [7]. Dunque, concludono le interlocutrici del principe, le figlie del generale Epančin, utilizzare tutti, ma proprio tutti i minuti della vita non è possibile. Myškin ne conviene, ma lo trova «poco credibile» e in questo sorprendente, fanciullesco scetticismo risiede gran parte della sua incomprensibile grandezza e della sua abbagliante luminosità.

Tre. L’epilessia

Myškin è dunque il portavoce letterario delle sensazioni provate da Dostoevskij il 22 dicembre 1849 in piazza Semënovskaja. Inoltre, a conferma del profondo legame esistente tra personaggio e autore, il principe è affetto dalla stessa malattia del suo creatore, l’epilessia, che, manifestatasi per la prima volta, probabilmente, nel corso dell’adolescenza, tormenterà lo scrittore per tutta la vita. Dostoevskij si sforza sempre di trovare una traccia, almeno una traccia di felicità nella sofferenza e, nel caso della malattia, la individua nell’attimo che precede l’attacco epilettico. In questo istante, che rappresenta la dimensione esistenziale del principe Myškin, la percezione della propria esistenza, dell’essere-in-vita si centuplica e la mente e il cuore (una cosa sola nel caso del protagonista dell’Idiota) vengono inondati di luce: tutte le angosce, tutti i dubbi e le amarezze svaniscono di colpo, lasciando spazio a una «calma suprema, fatta di gioia, di speranza e di armonia». Un attimo miracoloso, che da solo vale un’intera esistenza, per il quale si può dare la vita e che Myškin tenta di rendere una condizione permanente: è questa la sua missione impossibile, il suo «coraggio dell’impossibile», citando Michelstaedter, destinata immancabilmente al fallimento, e non tanto per la sua insufficienza, che pure in determinati frangenti del romanzo appare evidente (egli è pur sempre un uomo), quanto per l’incapacità di coloro che lo circondano di vedere oltre i propri meschini interessi, oltre il proprio egoismo e darsi completamente all’altro, facendosi carico del suo dolore, secondo quanto prescrive quella che il principe definisce «l’unica vera legge dell’esistenza umana», la pietà.

Quattro. I lavori forzati

Dostoevskij trascorre quattro anni nella fortezza di Omsk, dal 1850 al 1854 (rievocherà questa vera e propria esperienza-di-vita, decisiva nella sua nuova formazione di uomo e scrittore, nelle Memorie di una casa morta [8], che entusiasmeranno, tra gli altri, Tolstoj e Nietzsche, che definirà il libro uno dei «più umani che siano stati scritti» [9]). Espiata la pena, scrive al fratello Michail, arrestato anch’egli nel 1849, ma subito rilasciato, un’altra celebre lettera, datata 30 gennaio-22 febbraio, in cui descrive la sua vita da forzato (in questo senso, l’epistola rappresenta una sorta di cartone preparatorio delle Memorie) ed esprime tutto il suo entusiasmo per la scoperta del popolo russo, che, da questo momento in poi, diverrà centrale nella sua opera e nella sua visione. Se la vita è vita ovunque, anche l’uomo è uomo ovunque, in qualunque condizione, compresa quella di recluso in una fortezza siberiana, i ferri ai piedi, il corpo segnato dalla miseria impegnato quotidianamente in lavori sfiancanti (in questo contesto di estrema fatica psico-fisica, di degradazione corporale e morale, l’umanità deve brillare con tutta la sua forza per potersi fare largo nelle tenebre e rischiararle):

[…] gli uomini sono uomini dovunque. Perfino in questi quattro anni di deportazione, in mezzo ai briganti, alla fine sono riuscito a trovare degli uomini veri. Tu forse non ci crederai, ma c’erano dei caratteri profondi, forti, stupendi, e che gioia mi dava scoprire l’oro sotto la rude scorza. E non soltanto uno o due, ma parecchi. Alcuni non si potevano non rispettare, altri erano indubbiamente ammirevoli. […] Se sapessi quanti tipi popolari e quanti caratteri ho portato con me uscendo dalla prigione! Ho vissuto fianco a fianco con loro, e perciò penso di conoscerli a fondo. Quante storie di vagabondi e di briganti, e in genere di tutto quel mondo miserabile e sofferente! Mi basteranno per volumi interi. Che popolo meraviglioso! In generale non posso dire che questi anni siano stati per me tempo perso. Se non ho conosciuto la Russia, perlomeno ho conosciuto bene il popolo russo, anzi così bene come pochi forse lo conoscono. Questo è un mio piccolo peccato di orgoglio, ma spero che sia perdonabile [10].

Negli stessi giorni, Dostoevskij scrive un’altra famosa lettera, a Natalija Fonvizina, moglie del decabrista Fonvizin, dalla quale quattro anni prima, durante il viaggio verso la fortezza di Omsk, in una sosta a Tobol’sk, aveva ricevuto in dono la copia del Vangelo che lo accompagnerà per tutta la vita, e che terrà accanto a sé anche sul letto di morte. In questa fondamentale epistola, lo scrittore annuncia l’altra grande scoperta fatta durante la prigionia, la scoperta di Cristo, che definisce il suo «Credo»:

[…] nella sventura la verità splende più chiara. Di me Le dirò che io sono figlio del mio secolo, figlio della miscredenza e del dubbio, e non solo fino ad oggi, ma tale resterò (lo so con certezza) fino alla tomba. Quali terribili sofferenze mi è costata – e mi costa tuttora – questa sete di credere, che tanto più fortemente si fa sentire nella mia anima quanto più forti mi appaiono gli argomenti ad essa contrari! Ciononostante Iddio mi manda talora degl’istanti in cui mi sento perfettamente sereno; in quegl’istanti io scopro di amare e di essere amato dagli altri, e appunto in quegl’istanti io ho concepito un simbolo della fede, un Credo, in cui tutto per me è chiaro e santo. Questo Credo è molto semplice, e suona così: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c’è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere. Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità [11].

In Siberia, nella fortezza di Omsk, accanto a criminali di ogni genere, vagabondi, briganti, ladri, assassini, senza la possibilità di esercitare la propria vocazione e privato del conforto della lettura, eccezion fatta per il Vangelo, costretto a lavori massacranti, immerso nella sporcizia, esposto alla ferocia di crudeli maggiori, Dostoevskij non si abbatte, resta uomo tra gli uomini, non si rinchiude in se stesso, non si isola, ma ascolta, dialoga, insegna a leggere, vive, in una sola parola, e scopre le due colonne portanti della sua futura attività letteraria e del suo pensiero: il popolo russo e Cristo, indissolubilmente legati in un’unica, grandiosa visione di rinascita alla quale lo scrittore resterà per sempre fedele [12].

Cinque. L’esilio e l’amore

A Semipalatinsk, sede del suo esilio, Dostoevskij, impegnato nel servizio militare, ricomincia finalmente a scrivere, a stringere relazioni, tra le quali quella con il barone Vrangel’ (un’amicizia profonda, che durerà per tutta la vita), e s’innamora di Marija Dmitr’evna Constant, moglie dell’impiegato Isaev. L’impiegato muore nel 1855 e due anni dopo Dostoevskij sposa colei che segna la sua rinascita, come scrive egli stesso a Vrangel’ nel 1856:

L’amo da impazzire, più di prima. So che non sono molto sensato, non avendo molte speranze, ma che abbia o meno speranze non mi interessa. Non penso ad altro. Solo a vederla, a sentire la sua voce. Sono un pazzo infelice. Un amore come questo è una malattia, ma non mi auguri di lasciare questa donna e questo amore. Mi è apparsa nel più triste momento della mia vita e ha resuscitato l’anima mia. Ha resuscitato tutto quel che c’è di vivo in me [13].

Sei. I lutti

Il 1864, anno in cui pubblica le Memorie dal sottosuolo, libro straordinario, fondamentale, con il protagonista che, sorta di esacerbamento di quell’«uomo superfluo» che domina la società russa della prima metà dell’Ottocento, ma dalla validità universale, si impone come vero e proprio archetipo di tutti i suoi futuri personaggi negativi, da Raskol’nikov a Ivan Karamazov, passando per i demòni [14], è un anno terribile per Dostoevskij, che perde la moglie e il fratello Michail, le due persone più importanti della sua vita. Ecco cosa scrive ad un altro suo fratello, Andrej:

Questa persona [Michail] mi ha voluto più bene che a chiunque altro al mondo, perfino più che a sua moglie e ai suoi figli, che adorava. Probabilmente sai che in aprile ho sotterrato mia moglie, morta di tisi. In un anno, è come se la mia vita fosse crepata. Questi due esseri per molto tempo sono stati tutto, per me. Come faccio, adesso, a trovarne degli altri così? E non li voglio nemmeno cercare. E non sarebbe possibile, trovarli. Di fronte a me ho una vecchiaia fredda, solitaria, e la mia epilessia [15].

Il 16 aprile, mentre veglia il cadavere della moglie, steso su una tavola, Dostoevskij scrive i Pensieri sulla morte e sull’immortalità, in cui definisce Cristo l’«ideale dell’uomo incarnato» e individua «l’evoluzione ultima e suprema della personalità individuale» nella distruzione dell’io, «nel donarlo interamente a tutti e a ciascuno indivisibilmente e senza riserve». In ciò consiste la «felicità più sublime», in ciò risiede il «paradiso di Cristo» [16].

Sette. Il vuoto d’amore

Dostoevskij tenta disperatamente di colmare il vuoto d’amore nel quale è precipitato dopo la morte della moglie e del fratello. Nel 1865 chiede a due donne di sposarlo: Apollinarija Suslova, l’amante che gli ispirerà la figura di Polina nel Giocatore, giovane ribelle e anticonformista, e Anjuta Korvin-Krukovskaja, scrittrice di cui Dostoevskij ha pubblicato alcuni racconti sulla sua rivista «Epoca», diretta, come la precedente, «Il Tempo», insieme al fratello Michail. Entrambe le donne respingono la proposta di matrimonio, ed è illuminante la ragione del rifiuto fornita da Anjuta, che, pur riconoscendo il valore dell’uomo Dostoevskij, non riesce proprio ad amarlo:

[…] qualche volta mi sorprendo perfino con me stessa per il fatto che non lo amo. È una persona talmente meravigliosa. All’inizio pensavo che sarei riuscita da amarlo. Ma lui ha bisogno di un tipo di moglie del tutto diverso da me. Sua moglie deve dedicarsi a lui interamente, rinunciare a tutta la sua vita per lui, non pensare a nient’altro che a lui. E io non ci riesco… Voglio vivere anch’io. E poi, è così nervoso e esigente. Mi sembra sempre che si impossessi di me e di essere risucchiata. Quando sono con lui, non mi sento mai me stessa [17].

Anjuta ha ragione. Dostoevskij ha bisogno di una moglie che si dedichi a lui completamente, che lo sostenga nelle sue fatiche letterarie, che lo stringa forte a sé durante un attacco epilettico, non potendo fare altro, e questa donna, generosa, altruista, paziente, devota, che non è certo stata Marija Dmitr’evna, sarà Anna Grigor’evna Snitkina, la stenografa ventenne che, nell’ottobre del 1866, lo affiancherà nella stesura del Giocatore, permettendogli di rispettare i tempi fissati dall’editore Stellovskij, pena la perdita dei diritti sulle future opere [18].

Otto. Il gioco

Dostoevskij e Anna si sposano nel febbraio del 1867 e lasciano la Russia per sfuggire ai creditori di «Epoca». È in questo momento che il gioco diviene per lo scrittore una vera e propria ossessione: gioca a Homburg, senza Anna, rimasta a Dresda, e perde, gioca a Baden-Baden, con Anna, e perde. Senza un centesimo in tasca, i Dostoevskij impegnano gioielli, abiti e persino le fedi. Lo scrittore gioca ogni sacrosanto giorno, e ogni sacrosanto giorno, salvo qualche effimera vincita, che non sposta gli equilibri, perde. Un incubo senza fine, un’esperienza cento volte peggiore di quella vissuta dal protagonista del Giocatore, come scrive Ljudmila Saraskina: «tutti i giorni andavano e venivano dal banco dei pegni la mantiglia, la pelliccia, gli abiti da sera di Anna e il frac di Dostoevskij» [19]. Quattro anni dopo, nel 1871, prima di rientrare in Russia, con appena 60 rubli in tasca, Dostoevskij promette ad Anna, per l’ennesima volta, di smetterla con la roulette. Questa volta mantiene la promessa.

Nove. Sonja

A Ginevra, il 22 febbraio 1868, Anna mette al mondo una bambina, Sonja, chiamata così in onore della luminosa protagonista femminile di Delitto e castigo [20], principale artefice della resurrezione di Raskol’nikov [21]. La nascita della primogenita entusiasma Dostoevskij; la sua morte prematura, causata da una polmonite e avvenuta a meno di tre mesi dal parto, il 12 maggio, lo scaraventa nella disperazione, come racconterà Anna:

Non sono in grado di descrivere la disperazione che ci ha assalito quando abbiamo visto la nostra cara figlia morta. Profondamente scioccata e rattristata dalla sua morte, ero terribilmente spaventata per il mio sfortunato marito. La sua disperazione era violenta, singhiozzava e piangeva come una donna, in piedi di fronte al corpo freddo della sua piccolina, e le copriva il viso pallido e le mani di baci caldi. Non ho mai visto una disperazione così violenta. A entrambi sembrava di non poter sopportare il nostro dolore. Per due giorni, senza separarci nemmeno per un minuto, andammo insieme in diverse istituzioni per ottenere il permesso di seppellire la nostra bambina, insieme la vestimmo con un abito di raso bianco, insieme la mettemmo in una bara bianca coperta di raso e piangemmo, piangemmo in modo incontrollabile. Era spaventoso guardare Fëdor Michajlovič, tanto aveva perso peso durante la settimana in cui Sonja si era ammalata. Il terzo giorno, portammo il nostro tesoro in una chiesa russa per il servizio funebre, e da lì al cimitero, nel Plain Palais, dove la seppellimmo nell’area riservata alla sepoltura dei bambini. Pochi giorni dopo, la sua tomba fu ornata con dei cipressi e tra loro fu collocata una croce di marmo bianco. Ogni giorno io e mio marito andavamo sulla sua tomba, portavamo dei fiori e piangevamo [22].

Fortunatamente di figli ne arriveranno altri, ma è facile immaginare che la prematura scomparsa di Sonja resterà per Dostoevskij e Anna una ferita aperta, impossibile da rimarginare.

Dieci. Sofferenza e felicità

L’appunto su Delitto e castigo posto in epigrafe illumina la vita di Dostoevskij: la sofferenza è necessaria, è la condizione naturale dell’uomo, ma è solo grazie ad essa che si raggiunge la felicità. Viene in mente il testamento dello starec Zosima nei Fratelli Karamazov, l’ultimo romanzo dello scrittore, il più grande, secondo il modesto parere del sottoscritto, dal respiro immenso del testo sacro [23], che esorta Aleksej a cercare, nel dolore, la felicità. È forse questo l’unico modo a disposizione dell’uomo per sostenere la sofferenza, per non lasciarsi schiacciare dal suo peso e sprofondare nella disperazione, per restare uomo sempre, in ogni sciagura, anche la più terribile, come la condanna a morte, come la prigione, come la prematura scomparsa di una moglie, di un fratello o di una figlia di neppure tre mesi, che aveva appena iniziato a riconoscervi.

NOTE

[1] Citato in Paolo Nori, Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2021, p. 150.

[2] Ivi, pp. 89-90.

[3] Per un approfondimento su questi due romanzi rimando ai contributi Fëdor Dostoevskij, «Povera gente»: la nascita del genio, Fëdor Dostoevskij, «Il sosia»: l’annientamento del signor Goljàdkin, il primo uomo del sottosuolo.

[4] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 28-29.

[5] Ivi, p. 26.

[6] Fëdor Dostoevskij, L’idiota, traduzione di Federigo Verdinois, in Id., Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, pp. 621-622. Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Il sovversivo «Idiota» di Dostoevskij. Prima parte, Seconda parte.

[7] Ivi, p. 622.

[8] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Dostoevskij e l’esperienza di vita della Katorga: lettura delle «Memorie di una casa morta». Introduzione, Prima parte, Seconda parte.

[9] Citato in Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, p. 139.

[10] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, cit., pp. 44-45.

[11] Ivi, p. 51.

[12] Per un approfondimento sul pensiero di Dostoevskij, da un punto di vista, diciamo così, filosofico, rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, il pensiero: l’uomo tra Cristo e il sottosuolo.

[13] Citato in Paolo Nori, Sanguina ancora, cit., p. 137.

[14] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Memorie dal sottosuolo»: la malattia della consapevolezza. Prima parte, Seconda parte, Terza parte.

[15] Citato in Paolo Nori, Sanguina ancora, cit., p. 201.

[16] Citato in Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, cit., p. 154.

[17] Citato in Paolo Nori, Sanguina ancora, cit., p. 187.

[18] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Il giocatore» ovvero della passione.

[19] Citato in Paolo Nori, Sanguina ancora, cit., p. 238.

[20] Ivi, p. 38.

[21] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Delitto e castigo»: la resurrezione di Raskol’nikov. Prima parte, Seconda parte, Terza parte, Epilogo.

[22] Citato in Paolo Nori, Sanguina ancora, cit., pp. 39-40.

[23] Per un approfondimento sul romanzo rimando allo studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso.

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