A quanti
come Carlo
hanno il coraggio
di restare fedeli a se stessi
di non accettare compromessi
Qui io vivo una vita che non si può vivere, ma nasce una grande opera.
Carlo Michelstaedter nel 1910
Premessa
Quando si parla di Carlo Michelstaedter, in particolar modo della sua complessa vicenda esistenziale, è inevitabile subire l’influenza della fine, di quel colpo di rivoltella che egli, il 17 ottobre 1910, alle due del pomeriggio, si spara alla tempia, ponendo termine alla sua vita – ma non alla sua esistenza -, a ventitré anni appena. Se ciò vale generalmente per ogni artista, per ogni filosofo, scrittore, poeta morto suicida, vale soprattutto per Michelstaedter, che non lascia parole d’addio (come Kleist), che non concepisce una filosofia del suicidio (come Mainländer, l’unico vero filosofo del suicidio nella storia del pensiero occidentale moderno [1]), che non dà segni di squilibrio psichico tali da rendere necessario un trattamento sanitario o persino un ricovero in manicomio (come Garšin), che non sceglie un luogo evocativo, simbolico dove morire (come Weininger, che si uccide nello stesso edificio in cui è morto Beethoven, in una sorta di ultimo, estremo omaggio al genio), che si toglie la vita senza neanche tentare di diventare ciò per cui lo ricordiamo oggi, nonostante la consapevolezza del valore del proprio lavoro, come mostrano le parole poste in esergo: un artista, uno dei pochi artisti italiani dallo spirito autenticamente espressionista, ma soprattutto un filosofo, uno scrittore, un poeta straordinario, unico, nella forma, nello stile e nei contenuti, autore di testi (La persuasione e la rettorica su tutti) sconvolgenti, che con spietatezza critica smascherano il sistema d’illusioni, di menzogne, di luoghi comuni alla base della vita, della società, della civiltà dell’uomo moderno, e rivela con chiarezza profetica la possibilità di un’esistenza alternativa, consapevole, autentica e libera.
La soffitta
A Gorizia, la sua città natale, allora territorio asburgico, Michelstaedter frequenta l’impegnativo e repressivo Staatsgymnasium, come Nino Paternolli ed Enrico – Rico – Mreule, i suoi amici del cuore protagonisti del Dialogo della salute. Nella formazione intellettuale e, più in generale, umana di Michelstaedter il secondo, Rico, giovane dal temperamento spigoloso e anarchico, segnato presto dalla sofferenza (ha perduto la madre in tenera età) e anche per questo incline alla riflessione e al pessimismo, ricopre un ruolo di primo piano. È grazie a lui, infatti, che Michelstaedter scopre Schopenhauer, pensatore fondamentale nel suo sviluppo filosofico, soprattutto in questa primissima fase.
I tre inseparabili amici, quando non sono impegnati in escursioni nei dintorni di Gorizia (per Michelstaedter l’attività fisica non sarà mai meno importante di quella intellettuale; in particolar modo la bicicletta, il nuoto, nell’amato Isonzo prima, nel golfo di Venezia poi, e l’ascensione in montagna sono le sue più grandi passioni sportive), si riuniscono nella mitica soffitta di Nino, teatro di febbrili discussioni letterarie e speculative: «nella soffitta si respirava l’atmosfera segreta di una cellula culturale distaccata, un pensatoio per eletti. Non si dimentichi peraltro che la società goriziana aveva in prevalenza una tradizione conservatrice e benpensante, mentre quei giovani studiosi maturavano tendenze critiche e ribelli, che nel caso di Mreule diventavano sempre più autarchiche e anarchiche» [2]. In una soffitta nel centro di Gorizia, proprio in Piazza Grande, oggi Piazza della Vittoria, giovani malpensanti crescono.
Primi presagi
Al 1905, anno della maturità, dunque della prima, vera svolta della sua vita, risalgono i primi, significativi presagi letterari, in versi e in prosa, del tragico destino di Michelstaedter. Nei versi in questione il giovane poeta si abbandona al dolore causato dalla perdita dell’amata, una ragazza di cui conosciamo solamente il nome, Elsa, e alla quale Michelstaedter dedica in questo periodo diverse poesie:
E ancor gli stessi germi in me vegg’io
e nel futuro con l’orrenda gola
guatami là una canna di pistola
Madre natura, amore, vita addio [3].
«C’è una canna di pistola nascosta in un cassetto della mente» [4], commenta Campailla.
Il tema del suicidio, ma da un punto di vista filosofico e non sentimentale, compare anche in una sorta di abbozzo letterario contenuto in un taccuino del giugno-settembre 1905:
Un giovane educato in un collegio religioso si volge per reazione a tutto quanto sa di ribelle alle leggi umane, e matura il cervello nelle speculazioni della psiche dell’uomo e del mistero della natura. Egli troppo vede e nel suo animo amareggiato la fonte del sentimento inaridisce. Egli lo sente e ne prova dolore, vuole perciò lanciarsi nella vita per eccitarne con le sensazioni più forti le fibre paralizzate dell’animo suo. E lo fa. Ma non può riacquistare la spontaneità perduta e s’accorge che tutti i suoi entusiasmi sono fittizi, s’accorge d’esser sempre il medesimo. E con la crudele abituale sincerità verso se stesso esamina il proprio interno, lo analizza, quindi con calma e ragionata risoluzione si uccide restituendo alla madre terra le energie che in lui combattevano inutili [5].
In questo appunto Michelstaedter evidenzia l’impatto devastante di un’autentica e profonda consapevolezza filosofica sull’individuo, precocemente svuotato, esaurito e per il quale l’unica scelta coerente, con se stesso e con la propria condizione di saturazione vitale, è il suicidio. Che senso ha trascinarsi avanti mentre dentro e attorno a sé, distrutte tutte le illusioni, prosciugate tutte le fonti vitali, è un vuoto cosmico che non prevede resurrezione? Persino Tolstoj, un autore determinante per Michelstaedter, come vedremo più avanti, scrive nella Confessione, il testo che segna la sua svolta spirituale e letteraria, che i più forti e coerenti tra quanti hanno la sfortuna di scoprire «l’unica verità certa accessibile all’uomo» [6], e cioè l’assurdità della vita, perché di questo, sempre e solo di questo si tratta, si uccidono [7].
In questo abbozzo letterario dell’estate del 1905, è dunque racchiusa una delle possibili chiavi interpretative del suicidio di Michelstaedter: il precoce esaurimento esistenziale, terribile effetto collaterale della consapevolezza.
La caricatura
La scrittura non è l’unico, forse neanche il principale mezzo espressivo utilizzato da Michelstaedter in questa fase della sua vita. Alla scrittura si affianca il disegno, in particolar modo la caricatura, che rappresenta «il suo modo più originale di esprimersi, di reagire cercando e sperimentando un suo linguaggio» [8]. Gli irriverenti ritratti di Michelstaedter, «sotto le apparenze del tratto comico, testimoniano in realtà la propensione tipicamente espressionistica alla deformazione grottesca, che è, nel segno di una profonda presenza morale, rifiuto della credibilità naturalistica del mondo» [9]. L’essenza di un uomo, in particolar modo dell’uomo borghese, è tutt’altro rispetto alla sua forma, alla sua immagine apparente, generalmente decorosa, rispettabile e Michelstaedter, nelle sue graffianti caricature, la riporta alla luce, la rivela, denudando il soggetto ritratto, spogliandolo della sua superficie socialmente rassicurante. Insomma, per Michelstaedter il disegno non è semplicemente un passatempo, un’attività ricreativa, ludica, fine a se stessa, ma una vera e propria vocazione, un’autentica attività d’elezione che, terminato il ginnasio, vorrebbe coltivare a tempo pieno, ma la mancanza di studi specifici in campo artistico lo costringe, almeno per il momento, a cambiare strada, a scegliere un percorso più sicuro (immaginiamo la pressione esercitata in tal senso dai genitori, soprattutto dal padre, Alberto, anch’egli vittima della sferzante matita del figlio), ed egli si iscrive alla facoltà di Matematica e Fisica all’Università di Vienna. Una decisione tutt’altro che definitiva, perché dopo l’immatricolazione, nell’ottobre del 1905, Michelstaedter lascia sì Gorizia, ma non per Vienna, la capitale di quell’impero austro-ungarico di cui egli è cittadino, o meglio, suddito soltanto sulla carta d’identità, bensì per Firenze, per l’Italia, patria spirituale, in un vero e proprio viaggio di formazione che imprimerà una svolta decisiva nella sua vita, segnandola per sempre.
Il viaggio di formazione
Per Michelstaedter la partenza da Gorizia, dal rassicurante mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, che si lascia definitivamente alle spalle, è un passo importante, che risulterà presto decisivo, ricco di speranze e, al tempo stesso, per molti aspetti doloroso. La separazione dagli affetti più cari, dalla madre, dall’amata sorella Paula, da Rico e da Nino, fino a quel momento inseparabili compagni d’avventura e di riflessione, lo amareggia nel profondo e la nostalgia è un sentimento immediato.
Michelstaedter, che porta con sé la sua bicicletta, «figlia adorata», come la definisce egli stesso, non visita le città d’arte italiane come un semplice osservatore o, peggio, come un turista, «ma come un allievo che ambisce di approfondire la tecnica di disegno per cui intuiva e sperava di avere una mano assolutamente fuori del comune» [10]. Dal punto di vista artistico, coerentemente con la sua natura di caricaturista, i valori che apprezza di più sono la spontaneità, la semplicità e questo spiega la sua ammirazione per i pittori primitivi, in cui la rettorica della forma è assente e domina un’autentica, sincera, originaria ingenuità, e per gli schizzi dei grandi geni del Rinascimento, in cui vede, come spiega nelle lettere ai familiari, «più profondamente l’anima del pittore che nel quadro». Gli schizzi di Raffaello «dimostrano l’indefesso studio dell’anatomia, la cura continua della verità; quegli di Michelangelo la poderosa spontaneità; quegli di Leonardo l’irrequietezza della sua mente, le molteplici ricerche, la tensione dietro a un ideale quasi irraggiungibile» [11]. Queste preziose riflessioni manifestano la naturale predisposizione di Michelstaedter per le espressioni artistiche immediate, spontanee, prive di mediazioni formali, «e per gli strumenti tecnici più elementari, come la matita e il carboncino» [12].
In Italia, tra Venezia e Firenze, rispettivamente la prima e l’ultima tappa del suo viaggio di formazione, Michelstaedter matura la propria coscienza artistica e scopre, di fatto, un mondo nuovo, che vorrebbe diventasse il suo.
Il malessere
La partenza da Gorizia apre nuovi, meravigliosi orizzonti, permette a Michelstaedter di saziare la sua fame d’arte, ma, al tempo stesso, acuisce quel malessere interiore che già da qualche tempo lo affligge, come dimostra un appunto scritto a Venezia, in cui egli, tra le altre cose, si definisce «orribilmente stanco» (di nuovo una traccia, forse, di quel precoce esaurimento esistenziale di cui sopra):
Sono orribilmente stanco, la mente è rotta per questo vano sforzo di suggestione. Tutto inutile le impressioni non fan presa nell’animo, mi svaniscono appena avvicinatesi. Il loro svanire mi dà un tormento infinito. Tutto passa davanti al mio cervello vertiginosamente. O il mio cervello passa?
Mi sembra d’esser un altro ad ogni istante, ho perduto il sentimento della continuità del mio “io”. Solo il dolore tenace profondo mi congiunge al passato. È il dolore l’ultimo anello che mi lega alla vita. Io credo che impazzirò.
E tutto questo popolo che mi passa davanti ridente e festoso mi sembra schernirmi. Io lo odio, odio il sole, l’aria, il mare vasto, infinito solenne, odio la natura e l’arte che non hanno più la forza di rialzarmi [13].
Il tono cupo, disperato, rabbioso di questo appunto, che rivela una profonda lacerazione interiore e mostra un’acuta percezione del dolore, sorprendente in un giovane di appena diciotto anni senza drammi alle spalle e frutto, evidentemente, di un sentimento del tragico particolarmente sviluppato, stride con quello leggero e giocoso delle lettere che, nello stesso momento, Michelstaedter invia ai familiari. Egli restituisce ai cari un’immagine di sé rassicurante, in cui dominano sentimenti positivi come l’allegria, la spensieratezza, l’entusiasmo, dietro la quale si nasconde in realtà uno spirito inquieto, tormentato, disperato, vittima di un malessere esistenziale di cui, in questa fase, neppure il diretto interessato ha, forse, piena consapevolezza. Un malessere che, con il tempo, diverrà sempre più profondo e grave, fino ad assumere la portata devastante della malattia mortale.
La partenza da Gorizia rappresenta per Michelstaedter l’inizio di un doloroso processo di emancipazione dalla famiglia, dalla sua cultura, dalla ristretta visione borghese che, soprattutto dalla parte del padre, la caratterizza, ed è come se, con lui, anche il suo malessere si emancipasse, assumendo giorno dopo giorno consistenza e peso.
Carlo Michelstaedter lascia Gorizia e inizia a scalare il suo Calvario, sul quale si sale non per scendere, ma per morire.
NOTE
[1] Per un approfondimento sul filosofo tedesco rimando al contributo Philipp Mainländer, il suicidio come redenzione dall’esistenza.
[2] Sergio Campailla, Un’eterna giovinezza. Vita e mito di Carlo Michelstaedter, Marsilio, Venezia 2019, p. 49.
[3] Ivi, p. 50.
[4] Ibidem.
[5] Carlo Michelstaedter, Scritti vari, in Id., Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, p. 630.
[6] Lev Tolstoj, La confessione, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2019, p. 33. Per un approfondimento sul testo rimando al contributo Lev Tolstoj, «La confessione»: o Dio o la morte.
[7] Ivi, pp. 54-55.
[8] Sergio Campailla, Un’eterna giovinezza, cit., p. 62.
[9] Ivi, p. 83.
[10] Ivi, p. 64.
[11] Ivi, p. 71.
[12] Ivi, p. 75.
[13] Ivi, p. 72.