IV. Intollerante alle scenate «tragico-isteriche», agli svenimenti e alle lacrime, Onegin prova stizza «accorgendosi dell’impeto fremente della languida Tania» e decide di vendicarsi di Lenskij, che lo ha trascinato suo malgrado a quella «festa provinciale» organizzata per l’onomastico della fanciulla. Osservando il turbamento di Tat’jana, dopo la prima impressione di forte disappunto, il protagonista prova qualcosa di simile alla compassione e una «strana tenerezza» illumina il suo sguardo, ma anche questa volta non basta. Onegin asseconda il suo lato più oscuro, stravoginiano concependo e attuando un piano di vendetta diabolico: si avvicina a Olga, la musa-fidanzata di Lenskij, balla con lei, le sussurra volgari madrigali all’orecchio, la corteggia insomma. Furibondo, Lenskij lascia la festa e sfida l'”amico” a duello. È per il timore della «falsa vergogna», della calunnia, della maldicenza, autentiche malattie dell’alta società, che Onegin accetta il duello e abbatte Lenskij. Il protagonista uccide la vita, la poesia, l’amore e fugge. Un delitto privo di forza, di grandezza, commesso sbadigliando, frutto violento delle convenzioni sociali e di un gioco pericoloso, che dimostra come Onegin abbia effettivamente delle gravi lacune nella conoscenza dell’animo umano.
V. Il pianto di Olga non dura a lungo, la giovane fidanzata non resta fedele al proprio dolore e un altro uomo avvince presto il suo cuore, un ulano, che sposa e segue al reggimento. Tat’jana resta sola, «senza scopo, come un’ombra», e nella solitudine «aspra» la sua passione per Onegin, ramingo come Caino dopo il delitto, brucia ancora più forte. Tat’jana visita l’abitazione abbandonata dell’amato ed è come se entrasse in un regno meraviglioso e ignoto, osserva con «sguardo intenerito» ciò che la circonda e «ogni cosa le sembra d’inestimabile valore, fa rivivere la sua anima languente, in un conforto che è pure angoscia» [1]. Tat’jana legge i libri di Onegin e le si apre un mondo, un mondo nuovo, per molti aspetti inquietante. La giovane si sofferma in particolar modo sui passi che più hanno attirato l’attenzione dell’amato, i passi segnati, annotati, preziose vie di conoscenza, chiavi che le spalancano l’anima sinora sconosciuta di Onegin:
Così Tatiana scorge, con tremore, quale pensiero, quale osservazione avesse scosso Onegin; con che cosa, tacitamente, fosse d’accordo. Sui margini trova i segni della sua matita. Dovunque l’anima di Onegin si rivela involontariamente, ora con una breve parola, ora con una croce, ora con un punto d’interrogazione» (355-357).
È un momento fondamentale del romanzo, secondo, per importanza, solamente ai colloqui tra gli eroi e alle rispettive rinunce, in cui Tat’jana, finora immersa nel suo sogno d’amore, rafforzato dal rifiuto e dalla solitudine, inizia finalmente a comprendere la natura complessa, lacerata, per certi aspetti terribile dell’amato, raccogliendo elementi preziosi per decifrarne il mistero, per giungere a quella parola esatta che possa definirlo:
un individuo strambo, triste e pericoloso, una creatura del cielo o dell’inferno? Che è dunque, angelo o altero demonio? O forse un’imitazione, uno spettro da nulla, o magari un Moscovita travestito da Aroldo, interpretazione di capricci esotici con il lessico zeppo di parole alla moda?… O è forse una parodia? (357)
Come sottolinea giustamente Dostoevskij, è in questo momento, durante la lettura rivelatrice dei libri di Onegin, seguendo le sue annotazioni, che matura il distacco di Tat’jana dal protagonista, che il suo futuro rifiuto trova l’origine e la spiegazione. Tat’jana che intanto rifiuta tutti i pretendenti, che si distingue per la «semplicità provinciale», per i «costumi d’altri tempi», per l’«accento un po’ antiquato», creatura dei boschi, non dei salotti. Per ammogliarla la madre la strappa alla sua terra, ai suoi campi, ai suoi boschi, alla sua solitudine e la conduce a Mosca, nella «vuota società». Nei salotti fastosamente adornati, nei balli chiassosi, nell’incessante, sterile, vuoto chiacchiericcio delle dame vanitose e dei loro mariti, traditi e a loro volta traditori, Tat’jana, creatura libera, spontanea, naturale, differente dalla vacua e luccicante massa aristocratica, si sente soffocare, come un uccello in gabbia, ma ecco che, finalmente, un importante generale fissa lo sguardo su di lei… Una triste vittoria.
VI. Tat’jana è protagonista di una vera e propria metamorfosi, diviene una signora del gran mondo, una «giovane padrona»: lei e Onegin si ritrovano nella stessa «folla eletta». Il protagonista non è guarito dalla sua malattia esistenziale: davanti a lui gli illustri volti aristocratici passano come un «corteo di apparizioni noiose», spleen o un’«alterigia dolente» è nel suo sguardo. Giudicato dai benpensanti un «finto stravagante», un «matto malinconico», un «mostro diabolico» Onegin, dopo aver ucciso Lenskij, si è dato a un insensato vagabondaggio «e anche del viaggiare, come di ogni altra cosa al mondo, provò noia». Così, rieccolo trascinare la sua vita senza scopo a Pietroburgo, nella stessa festa di Tat’jana, dove si è recato direttamente dalla nave, in una sorta di appuntamento decretato dal destino e dunque immancabile.
Onegin osserva la padrona di casa e, incredulo, si domanda se sia proprio lei, Tat’jana. Dinanzi a lui la donna resta impassibile, imperturbabile, non sussulta, non impallidisce, non arrossisce e per quanto spinga lo sguardo insistente e indiscreto in profondità, Onegin non scorge in lei i «segni dell’antica Tatiana». Possibile che si tratti della stessa persona, di quella Tat’jana Larina di cui egli custodisce ancora l’appassionata lettera e che ora si erge «indifferente» e «ardita» dinanzi a lui? Qualcosa di indistinto si agita nel profondo dell’anima di Onegin, qualcosa che lo scuote dalla sua freddezza, dalla sua indolenza. Di cosa si tratta? Di stizza? Di vanità? O forse del perduto «affanno della gioventù», dell’amore? Ma può Onegin amare?
Come ho già scritto, Tat’jana vive una vera e propria, per molti aspetti sorprendente, metamorfosi: non è più la fanciulla timida, innamorata, povera e semplice che passeggiava solitaria nei suoi amati boschi, ma una «principessa indifferente», una «dea inaccessibile della Neva sontuosa e regale». Che sia proprio questa inaccessibilità ad attrarre tanto Onegin? Per lui questa «legislatrice dei salotti, maestosa e sprezzante», aveva sospirato, con lui sognava di compiere il cammino della vita. Ora Onegin s’innamora di Tat’jana, trascorrendo il giorno e la notte – lui, così freddo, distaccato, indifferente, vuoto – «nell’affanno dei pensieri d’amore». Ogni giorno si reca da Tat’jana, seguendola come un’ombra, felice di sfiorarle la mano, di raccoglierle il fazzoletto. Tat’jana resta indifferente, lo accoglie in casa, scambia con lui qualche parola, a volte lo saluta, a volte lo ignora, del pallore di Onegin «o non se ne avvede, o non ne prova compassione». Consumato dall’amore, il protagonista deperisce, si ammala, i medici gli consigliano di lasciare Pietroburgo, ma lui resta, resiste al fianco di Tat’jana, scrivendole infine una lettera in cui confessa il suo amore e ricorda il passato, il suo rifiuto, dovuto all’incapacità di rinunciare alla propria «odiosa libertà». Onegin si consegna a Tat’jana, ma Tat’jana non risponde. Il protagonista le scrive ancora, ancora nessuna risposta. I due si incontrano a un ricevimento e lui non trova in lei turbamento, compassione, tracce di pianto, ma sdegno e ira. Disperato, Onegin se ne va, «maledicendo la sua follia». Profondamente immerso nel pensiero di Tat’jana, che lo assorbe e compenetra, costituendo, di fatto, la sua unica realtà, il protagonista rinuncia di nuovo al mondo, si auto-esilia e nella solitudine della sua camera «ricorda il tempo in cui la malinconia più feroce lo inseguiva tra i rumori mondani, lo abbrancava, lo prendeva per il bavero e lo spingeva in un angolo oscuro» (421). Onegin ricomincia a leggere, ma i suoi pensieri, staccati dagli occhi fissi sulla pagina, vagano lontano, perdendosi tra sogni, desideri e tristezze. Con gli occhi dello spirito legge altre righe, righe che lo assorbono, lo avvincono «completamente»: Onegin naufraga nel sogno e rivede lei, ancora lei, sempre lei, Tat’jana.
VII. Onegin trascorre così, in esilio, tra libri e sogni, l’intero inverno, rinchiuso in se stesso, prigioniero della propria tristezza, della propria sofferenza. A primavera si scuote, evade e corre da Tat’jana, incapace di superare il suo folle amore, conservando quanto di buono gli ha portato in dote: la vita. Onegin irrompe in casa di Tat’jana, non incontra ostacoli e la trova sola, sola e antica nell’intimità, pallida e commossa dinanzi a una sua lettera (è come se il protagonista riuscisse finalmente ad espugnare il cuore della giovane, impenetrabile in pubblico, protetto dalle convenienze mondane). Onegin cade ai piedi di Tat’jana e lei finalmente lo osserva senza sdegno: «tutto le è chiaro», lo sguardo del protagonista, «malato e spento», il suo rimorso silenzioso. Ritroviamo la Tat’jana di un tempo, la cui metamorfosi è stata solamente formale, esteriore, apparente, «la semplice fanciulla, coi sogni ed il cuore dei giorni passati».
Tat’jana non si sottrae al confronto, ricorda a Onegin il suo severo, gelido sermone e lega l’amore del protagonista alla sua nuova condizione di principessa: la sua caduta, la sua vergogna arrecherebbe a Onegin, tra la «folla vana», una «gloria allettante». Almeno allora Onegin ebbe pietà di lei, dei suoi sogni di fanciulla, e rispetto della sua tenera età, ma ora? Al di sotto delle lussuose e luccicanti forme esteriori, nell’anima e nello spirito Tat’jana è rimasta la stessa, come mostra la sua profonda avversione per la nuova condizione di nobildonna e l’alta società (in questi versi la polemica di Puškin contro l’ambiente aristocratico e le sue forme vuote, le sue convenzioni ipocrite, che attraversa l’intero romanzo, giunge al culmine):
Onegin, questo lusso, questo oro falso di una vita che mi fa ribrezzo, questi miei successi nel vortice della mondanità, questa mia casa alla moda, e i ricevimenti, che valgono? Che posso trovare in essi? Come sarei felice di dare tutta questa mascherata di stracci, il luccichio, il frastuono, questo inutile fumo, per uno scaffaletto di libri, per il mio giardino selvatico, per la nostra povera abitazione, per quei luoghi dove, Onegin, vi ho visto la prima volta, per quel dimesso cimitero dove una croce e l’ombra dei rami proteggono la mia povera nutrice… (433).
Miracolosamente intatta, perché un salotto non è meno nocivo di un postribolo, e si ricordi il passo di Resurrezione in cui Tolstoj paragona le splendide dame alle prostitute, le prime ancor più colpevoli delle seconde, vittime della necessità [2], Tat’jana spiega di essersi sposata per indifferenza, pregata dalla madre, per la quale, schiava delle convenzioni sociali, avere una figlia zitella sarebbe stato qualcosa di molto simile a una vergognosa umiliazione, e confessa a Onegin di amarlo ancora, ma rinuncia a lui:
io vi amo (perché mentire?), ma sono stata data a un altro, e gli sarò per sempre fedele» (ibidem).
Dotata di una qualità sempre più rara, la predisposizione al sacrificio, Tat’jana rinuncia all’amore, perfettamente consapevole che il suo abbandono equivale a una condanna definitiva, senza appello, all’infelicità permanente. L’eroina di Puškin mostra come la rinuncia rappresenti talvolta una delle più grandi e potenti manifestazioni di coraggio. Tat’jana Larina, per la Cvetaeva e per tutti noi «Lezione di coraggio. Lezione di orgoglio. Lezione di fedeltà. Lezione di destino. Lezione di solitudine» [3].
VIII. Dostoevskij individua in Tat’jana l’«apoteosi della donna russa», di cui esprime, nella rinuncia in nome del matrimonio, il più profondo, intimo, autentico «sentimento». Per seguire Onegin Tat’jana avrebbe dovuto sacrificare il marito, umiliarlo, disonorarlo, fondare la propria felicità sull’infelicità altrui: una condotta inammissibile, inconcepibile per una «pura anima russa» come lei. Ma nella sua interpretazione della rinuncia di Tat’jana Dostoevskij si spinge – fortunatamente – più in profondità, giungendo alla vera ragione dell’abbandono: neanche se fosse rimasta libera, vedova Tat’jana avrebbe seguito Onegin, perché sa chi è Onegin, leggendo i suoi libri ha scoperto la natura astratta, sradicata, mondana, parodisticamente romantica del protagonista, il cui amore non è un sentimento profondo, solido, duraturo, inossidabile, al quale resterà per sempre fedele, ma una fantasia, di cui si stancherebbe presto, già il giorno successivo, se venisse assecondata dalla giovane:
Ella sa chi è Onegin. L’eterno vagabondo vede la donna, che egli prima ha trascurato, in un nuovo ambiente brillante a lui inaccessibile. Ecco, forse proprio in questo ambiente è tutta la questione. A questa fanciulla che egli ha quasi disprezzata, adesso rende omaggio tutto il mondo, questo mondo, questa tremenda autorità per Onegin, ad onta di tutte le sue aspirazioni universali. Ecco perché egli si slancia abbagliato verso di lei. «Ecco il mio ideale – esclama egli – ecco la mia salvezza, ecco la via d’uscita alla mia tristezza. Ed io non me ne sono accorto, e la felicità era così possibile, così vicina». […] così egli si slancia verso Tat’jana, cercando nella nuova bizzarra fantasia la soluzione di tutti i suoi dubbi. Che forse Tat’jana non vede questo in lui, non l’ha veduto già da molto tempo? Ella sa fermamente che in sostanza egli ama soltanto la sua nuova fantasia e non lei, e non la Tat’jana ancora umile come prima. Ella sa che egli la prende per qualcosa di diverso e non per quello che è realmente, che egli non ama lei e forse non ama nessuno e che non è neppure capace di amare qualcuno, nonostante la sua sofferenza. Ama la fantasia, anzi egli stesso è una fantasia. Se ella lo seguisse, egli sarebbe già deluso l’indomani e parlerebbe con tono canzonatorio del suo stesso entusiasmo. Egli non ha alcuna base; è un filo d’erba in balia del vento [4].
È proprio questo il punto: Tat’jana ama Onegin, lo ama più di ogni altra cosa, più della sua stessa vita, ma non ha fede in lui. L’amore da solo non basta, mai, oltre all’amore è necessaria la fede. Una lezione fondamentale, oserei dire necessaria, che noi oggi, accontentandoci di ciò che ci rifila il caso, abbiamo completamente dimenticato.
NOTE
[1] Aleksandr Puškin, Eugenio Onegin, a cura di Eridano Bazzarelli, Rizzoli, Milano 2020, p. 351. D’ora in avanti il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[2] «”La differenza è che questa dice semplicemente e apertamente: ‘Se ti servo, prendimi. Se non ti servo, tira dritto’. L’altra invece finge di non pensarci, e di vivere di chissà quali sentimenti superiori e raffinati, ma la sostanza è la stessa. Questa per lo meno è sincera, mentre l’altra mente. Non solo: questa è stata portata alla sua condizione dal bisogno, mentre quella gioca, si trastulla con questa sublime, ripugnante e terribile passione. Questa è una donna di strada: acqua sporca, fetida, che si offre a coloro per i quali la sete è più forte della ripugnanza; quella, a teatro, è veleno che inavvertitamente contamina tutto ciò che tocca”» (Lev Tolstoj, Resurrezione, traduzione di Emanuela Guercetti, Garzanti, Milano 2013, p. 324).
[3] Marina Cvetaeva, Il mio Puškin, citato in Aleksandr Puškin, Eugenio Onegin, cit., p. 57.
[4] Fëdor Dostoevskij, Discorso su Puškin, traduzione di Ettore Lo Gatto, in Id., Diario di uno scrittore, Bompiani, Milano 2010, p. 1272.