io vi amo (perché mentire?), ma sono stata data a un altro, e gli sarò per sempre fedele.
I. Fenomeno «straordinario», «unico», «profetico», come lo definisce Dostoevskij in apertura del suo celebre Discorso del 1880, Aleksandr Puškin illumina di una nuova, miracolosa luce il cammino della letteratura russa [1], inaugurandone tutte le successive strade, nella lirica, nella prosa, nel racconto, nel romanzo, nel teatro. Autentica natura rinascimentale, Puškin si contraddistingue per la straordinaria capacità di «accostarsi ai più vari fenomeni culturali e sociali del passato e del presente, sia nazionali che stranieri, e di comprenderli e riviverli in profondità», non trovando forse paragone, sotto questo punto di vista, «in tutta la letteratura universale» [2].
Tra tutte le opere di Puškin la più significativa, per molti aspetti rappresentativa è senza dubbio il romanzo in versi Evgenij Onegin, che lo accompagna per sette anni, dal 1824 al 1831 (un lasso di tempo ragguardevole considerando la brevità della vita del poeta), e rappresenta la «somma» delle sue esperienze, «il suo diario lirico e intellettuale, il riassunto delle sue speranze e delle sue delusioni» [3]. Come scrive Belinskij, l’Onegin «è l’opera più intima e autentica di Puškin, il frutto più caro della sua fantasia; sono veramente poche le opere che, come l’Onegin, riflettono con tale pienezza, così chiaramente e luminosamente, la personalità del poeta. Qui c’è tutta la sua vita, tutta la sua anima, tutto il suo amore; qui ci sono i suoi sentimenti, i suoi pensieri, i suoi ideali» [4]. Questo intimo, profondo rapporto tra autore e opera è sottolineato dallo stesso Puškin nella dedica, dove definisce l’opera «frutto trasandato dei miei piaceri, delle mie insonnie, del facile estro, degli anni immaturi e di quelli appassiti, delle fredde osservazioni della ragione e delle note dolorose del cuore» [5]. Nell’Onegin Puškin omaggia e saluta la stagione della giovinezza, chiudendo per sempre le palpebre ai suoi fantasmi; della vita egli comprende ora la nullità ed è proprio questo tono cupo, pessimistico, frutto di una disillusione profonda, a segnare l’opera, accompagnandola dalla prima all’ultima pagina ed erompendo nell’ultimo, conclusivo incontro tra i due eroi, Evgenij e Tat’jana, con la coraggiosa rinuncia di quest’ultima che sancisce la definitiva condanna di entrambi all’infelicità.
II. Evgenij Onegin è un giovane dandy, salottiero purosangue, autentico «genio» nella «scienza della tenera passione» (l’ovidiana ars amandi), che, sin dall’infanzia, è per lui «fatica», «tormento», «gioia» e tiene occupata per intere giornate la sua «malinconica pigrizia». Onegin turba i «cuori delle più esperte civette», è un «volubile adoratore di incantevoli attrici», un «alunno esemplare delle mode», un «figlio del lusso e dei piaceri», eppure non è felice. I suoi sentimenti si raffreddano presto, i frastuoni mondani gli vengono a noia, le belle non occupano più i suoi pensieri, i tradimenti lo stancano, come le amicizie. Una malattia dello spirito si impadronisce a poco a poco di lui, rendendolo «del tutto freddo nei confronti della vita»: è la «chandra», traduzione dell’inglese «spleen» (termine reso celebre da Baudelaire, che ne fa il polo negativo della sua poetica, opposto all’«ideale»), malinconia profonda, condizione di depressione cupa e invincibile che rende l’individuo indifferente a tutto e tutti, lo svuota, esaurendolo precocemente. La malattia di Onegin, che, almeno in parte, riflette la delusione storica della gioventù russa degli anni Venti, ha profonde radici esistenziali, è il frutto amaro della consapevolezza, una consapevolezza potenziata, di un’esperienza e di una riflessione profonde e, soprattutto, critiche:
Chi ha vissuto e pensato non può nell’anima sua non disprezzare gli uomini, chi ha provato sentimenti e passioni è turbato dal fantasma dei giorni irripetibili: per lui non vi sono più incanti; il serpe delle memorie, il rimorso lo rode (115).
Con l’anima «colma di rimpianti», Onegin dapprima si aggira «cupo e languido» per i salotti, Don Giovanni sazio, disgustato, stanco, annoiato, come Childe Harold, protagonista dell’omonimo poema di Byron, tra le principali fonti d’ispirazione di Puškin, poi si chiude in casa, «sbadigliando»: afferra la penna, ma la fatica lo nausea, afferra i libri, ma trova la lettura inutile (l’immobilismo rivela la gravità della malattia spirituale, esistenziale di Onegin, uomo tutt’altro che superficiale e insensibile, «incontestabilmente intelligente e sincero» come scrive Dostoevskij). Infine lascia Pietroburgo e si trasferisce in campagna, nella tenuta ereditata dallo zio. Sinora «nemico dell’ordine» e «dissipatore», Onegin si ritrova proprietario terriero e la sua nuova vita influisce positivamente su di lui, lo risveglia dal torpore, ma non dura a lungo:
Per due giorni gli sembrarono nuovi i campi solitari, la frescura del parco ombroso, il mormorio del placido ruscello; al terzo giorno il boschetto, la collina e il campo non lo interessavano già più, poi gli conciliarono il sonno; poi vide chiaramente che in campagna si prova la stessa noia che in città, anche se non ci sono vie, né palazzi, né carte, né balli, né poesie. La malinconia lo attendeva come un guardiano, e correva dietro a lui come un’ombra o una moglie fedele» (121-123).
Neanche la natura cura la malattia di Onegin, che, dopo un paio di giorni di viva curiosità, sprofonda di nuovo nella malinconia e nella noia, nell’indifferenza e nel disinteresse. Esauritosi, svuotatosi precocemente, il protagonista sopravvive per inerzia, immobile, senza che niente lo tocchi, lo interessi, sfuggendo senza troppe cerimonie alle visite dei vicini invadenti e tediosi.
III. Onegin conosce Lenskij, giovanissimo poeta cantore e sacerdote dell’amore puro, verginale. I due non potrebbero essere più diversi, ghiaccio e fuoco, eppure diventano amici (se è lecito, relativamente al protagonista, parlare di amicizia, come di ogni altro sentimento positivo), anche perché «gli uomini […] per non aver nulla da fare diventano amici» (uno dei tanti esempi della cupa disillusione puškiniana, che scorre lungo tutta l’opera ed erompe di tanto in tanto sulla pagina amareggiandola). Onegin ha già conosciuto la sazietà, il disgusto, la vanità, la delusione, Lenskij non ancora e il protagonista non turba la sua «fuggitiva beatitudine»: ci penserà la vita.
Lenskij vive, ama, scrive, ispirato dalla musa-fidanzata Olga, che ha una sorella maggiore, Tat’jana. Tat’jana è riflessiva, profonda, solitaria, «selvatica, triste, silenziosa, come una daina timida di bosco», si caratterizza per l’«immaginazione malinconica», sin da bambina, estranea ai giochi infantili, è attratta dai «racconti spaventosi nel buio delle notti d’inverno», i romanzi sono tutto per lei. Tat’jana s’innamora di Onegin al primo sguardo, del resto, nella solitudine incantata il suo cuore era predisposto da tempo, la sua anima «attendeva qualcuno»: «E finalmente egli giunse… Gli occhi le si aprirono; disse: “È lui!”» (173). Tat’jana, dall’«immaginazione ribelle», dalla mente e dalla volontà «vive», «ama sul serio e si abbandona senza limiti all’amore, come una bambina» (189). Tat’jana non riflette, non calcola come le consumate dame pietroburghesi, artefatte e corrotte dalle convenzioni sociali, non segue strategie, non adotta sottili tattiche di seduzione, non temporeggia, non ordisce tranelli, è spontanea come la natura che la circonda e scrive a Onegin una lettera appassionata, in cui confessa il suo amore e si consegna al protagonista:
io sono tua; tutta la mia vita è stata un pegno del fedele incontro con te; so che tu mi sei stato mandato da Dio, fino alla tomba tu sarai il mio angelo custode. Tu mi sei apparso nei sogni; prima ancora di vederti, tu mi eri caro; il tuo sguardo meraviglioso mi faceva languire; nell’anima mia, da tempo risuonava la tua voce… No, non è stato un sogno, questo! Appena tu sei entrato, ti riconobbi subito, rimasi come stupita, avvampai, e dissi nel mio pensiero: eccolo! (197-199)
Tra «tempestosi errori» e «mal contenute passioni», Onegin ha ucciso otto anni, perdendo così «il fiore più bello della vita», esaurendosi precocemente eppure, nonostante la noia, il tedio, l’indifferenza la lettera di Tat’jana lo turba nel profondo, risvegliando forse in lui, almeno per un istante, l’«antico fervore dei sentimenti». Un insperato sussulto, soffocato subito dal protagonista, che non intende «ingannare la fiducia di un’anima innocente». Così Onegin rifiuta l’amore di Tat’jana, perfetta se egli avesse «scelto la piacevole sorte di essere padre e sposo», ovvero quanto di più distante dalla sua natura intollerante a qualunque legame duraturo e, in un certo senso, convenzionale: «Credetemi (ve lo giuro sulla mia coscienza), il nostro matrimonio sarebbe un tormento. Per quanto vi amassi, subito, per l’abitudine, mi disamorerei. E voi incomincereste a piangere, ma le vostre lacrime non turberebbero il mio cuore, lo irriterebbero solo» (219). Spietatamente sincero, Onegin realizza un quadro cupo, desolante e doloroso della vita di Tat’jana al suo fianco, perché non c’è niente di peggiore al mondo di una famiglia in cui la moglie soffre per un marito indegno, freddo, geloso. Accanto a Onegin Tat’jana vedrebbe i suoi sogni andare in pezzi, gli anni più belli della sua vita svanire per sempre, anche perché il protagonista non ha la forza né, soprattutto, la volontà di rinnovare la propria anima svuotata, morta. Onegin conclude il proprio «sermone» con un educativo monito per l’inesperta, ingenua fanciulla: «Amerete ancora: ma… sappiate dominarvi; pochi vi potranno comprendere come me, e l’inesperienza procura dei guai» (221). Onegin non approfitta di Tat’jana, manifestando così la «retta nobiltà del suo cuore». Egli mantiene intatta la purezza della giovane, la preserva, indicandole la via della prudenza. Con il suo rifiuto e la sua spietata sincerità il protagonista salva, o almeno crede di salvare, Tat’jana da un dramma certo e privo di soluzione.
Secondo Dostoevskij Onegin non comprende Tat’jana, la sua grandezza, dunque la straordinaria fortuna che gli è toccata in sorte e che rifiuta con troppa leggerezza, individuando le ragioni di questa drammatica incomprensione nell’arroganza, nel disprezzo, nel «modo di guardare le persone dall’alto in basso» e nell’ignoranza dell’animo umano del protagonista, «uomo astratto», «sognatore irrequieto», vagabondo sradicato ricondotto, dall’interpretazione dostoevskiana, nell’ambito negativo del sottosuolo [6]. E così Tat’jana passa nella vita di Onegin «sconosciuta e non apprezzata: è qui la tragedia del loro romanzo» [7].
Una analoga condanna del protagonista, basata su argomenti affini, si trova in Merežkovskij, secondo il quale è proprio nell’impotenza ad amare che si manifesta tutto l’orrore di Onegin, «fantasma estraneo […] nato dai soffi della vita occidentale» [8], che alle parole dell’amore, «alle quali lo chiamano la natura, l’innocenza, la bellezza», risponde con un gelido «consiglio pratico» [9]. In realtà, personalmente credo che il rifiuto del protagonista sia da ricondurre alla sua malattia esistenziale, quella «chandra» che lo svuota, lo immobilizza e lo rende indifferente a tutto e tutti [10]. L’appassionata lettera di Tat’jana risveglia qualcosa in lui, ma non basta: Onegin è morto e non ha alcuna intenzione di risorgere.
NOTE
[1] Fëdor Dostoevskij, Discorso su Puškin, traduzione di Ettore Lo Gatto, in Id., Diario di uno scrittore, Bompiani, Milano 2010, p. 1263.
[2] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, p. 158.
[3] Eridano Bazzarelli, Introduzione a Aleksandr Puškin, Eugenio Onegin, Rizzoli, Milano 2020, p. 20.
[4] Vissarion Belinskij, Le opere di Aleksandr Puškin, vol. VIII, Evgenij Onegin, citato in Aleksandr Puškin, Eugenio Onegin, cit., p. 46.
[5] Aleksandr Puškin, Eugenio Onegin, cit., p. 75. D’ora in avanti il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[6] Per un approfondimento sull’importanza e il significato del sottosuolo all’interno della riflessione dostoevskiana rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, il pensiero: l’uomo tra Cristo e il sottosuolo.
[7] Fëdor Dostoevskij, Discorso su Puškin, cit., p. 1269.
[8] Dmitrij Merežkovskij, Puškin, citato in Aleksandr Puškin, Eugenio Onegin, cit., p. 49.
[9] Ivi, p. 50.
[10] Come scrive Bazzarelli nella già citata Introduzione, la «chandra» è il «segno chiave» per comprendere Onegin, che non esce mai «dai confini psicologici simbolicamente rappresentati» da questa parola.