Kleist è un autore davvero straordinario, per certi aspetti complesso e sconvolgente, difficile da comprendere e da digerire. Il suo sentimento del tragico, eccezionalmente sviluppato, lo spinge a scrutare l’abisso umano, a indagare i lati più oscuri dell’individuo, che riporta in superficie mostrandone tutta la distruttiva, dionisiaca potenza. Quella di Kleist è una natura estrema, solcata, o meglio, ferita da lacerazioni profonde e irrimarginabili, destinate e degenerare in un male incurabile e mortale. Lacerazioni, contraddizioni: Kleist oscilla tra la vulnerabilità, la fragilità e una sconfinata ambizione, tra l’introversione, il naturale bisogno di solitudine e una sete inesausta di amore, di completo abbandono al calore solare della donna, tra la consapevolezza terribile dell’umana miseria, dell’umana incompletezza, dell’umana insufficienza e impotenza, e un desiderio assoluto di felicità, di appartenenza. Per le nature estreme come Kleist (in Al di là del bene e del male Nietzsche lo colloca accanto a Byron, De Musset, Poe, Leopardi, Gogol’, all’interno di un ritratto complessivo dei grandi e tormentati poeti d’inizio Ottocento [1]) giungere a una sintesi, a un compromesso con se stessi e con il mondo è difficile, a tal punto da risultare spesso qualcosa di molto simile a un’impresa impossibile. C’è una battuta di Pentesilea, il suo personaggio a lui più vicino, intenzionalmente almeno [2], che rappresenta e racchiude alla perfezione tutta la stanchezza e la frustrazione di Kleist uomo e autore:
Se mi fosse possibile… Se fossi in grado! Il massimo che può la forza umana io l’ho fatto – ho tentato l’impossibile -, tutta me stessa ho gettato, come ai dadi; il dado che decide si è fermato, è lì: bisogna che lo capisca… e che capisca che ho perduto [3].
Alla Pentesilea è legato uno degli episodi più significativi, più emblematici della vita di Kleist: egli invia a Goethe il frammento della tragedia pubblicato sul «Phöbus» del 23 gennaio 1808, con la commovente dedica «sulle ginocchia del mio cuore», ricevendone «una cortese ma fredda ripulsa e l’obiezione che per lui questo era un teatro ancora di là da venire» [4]. Goethe non comprende la disgustosa, scandalosa Pentesilea, come nessun altro lettore dell’epoca. Kleist si è spinto troppo in profondità, commettendo l’imprudenza di riportare alla luce il lato più oscuro, aggressivo, violento, barbaro, distruttivo, dionisiaco dell’amore, esaltato come sentimento ideale dai coevi romantici. Kleist, che si definisce da sé, nelle lettere, «l’incomprensibile», precorre i tempi, guarda troppo in profondità, dunque troppo oltre, giungendo laddove i canoni estetici dell’epoca impediscono l’accesso, come se il male e il caos non fossero elementi connaturati alla condizione umana, ma inconvenienti da rimuovere, e soltanto il Novecento riconoscerà appieno la sua grandezza, a partire dagli espressionisti, vedendo giustamente in lui un precursore delle scoperte della psicoanalisi e della linguistica.
Prostrato dai continui insuccessi letterari, dall’impossibilità di giungere a una comunicazione, una comprensione, una corrispondenza autentiche e totali con quegli uomini che proprio non gli piacciono, così diversi da lui nella loro incapacità di spingersi oltre la superficie delle cose, imprigionato in un permanente stato di isolamento, di esclusione, troppo fiero e forte, troppo sano, come la sua Pentesilea, per adattarsi a un contesto dominato dalla gelida ragione e dalla mediocrità, Kleist decide di morire, perché ormai gli è impossibile vivere, come scrive nella lettera del 10 novembre 1811 alla cugina Marie, in cui compare lo stesso «se» pronunciato dalla sua eroina, con lo stesso significato di impossibilità:
Se fosse in mio potere ti assicuro che avrei abbandonato la mia decisione di morire. Ma ti giuro, mi è assolutamente impossibile continuare a vivere, la mia anima è così ferita che, quasi direi, quando metto il naso fuori della finestra mi fa male la luce che lo colpisce. […] Per aver coltivato ininterrottamente, coi pensieri e con gli scritti, sin dalla prima gioventù, bellezza e valori morali, sono diventato così sensibile che i più piccoli attacchi cui ogni uomo quaggiù, nel corso degli eventi, si trova esposto mi fanno un doppio e triplo dolore. […] Già i volti umani che incontravo mi ripugnavano, ora chiunque incontro per strada mi dà una sensazione fisica che non so descrivere [5].
I continui fallimenti umani e letterari, che esacerbano il suo atavico senso di inadeguatezza, incomprensione e dismisura, conducono Kleist a una condizione di sensibilità sovrasviluppata in cui ogni singolo squilibrio, per quanto minimo, colpisce nel profondo del cuore come una coltellata. L’impulso autodistruttivo è sempre stato molto forte in lui, e ora che finalmente ha trovato una persona disposta ad accompagnarlo nella morte, la povera Henriette Vogel, vittima di un cancro all’utero, può assecondarlo. L’ultimo pensiero di Kleist è per la sorella Ulrike:
Davvero tu hai fatto con me, per salvarmi, non dico quanto era nelle forze di una sorella, ma nelle forze umane: la verità è che per me sulla terra non c’era soccorso [6].
Sono le ultime parole scritte da Kleist, la mattina del 21 novembre 1811. Quello stesso giorno, nel pomeriggio, sul piccolo Wannsee, tra Potsdam e Berlino, egli spara a Henriette Vogel e poi rivolge l’arma contro se stesso, ad appena trentaquattro anni. Una conclusione tragica, giunta al termine di una vita tanto breve quanto intensa, segnata da continui insuccessi, da continue delusioni, dalla solitudine e dall’incomprensione. Esausto, vittima di quella stanchezza precoce propria di ogni natura umana estrema, che non conosce mezze misure, nelle scelte e nei sentimenti, Kleist segue la sua Pentesilea, uccide e poi si uccide, autore e personaggio uniti nel destino e nel lacerante grido: «La mia anima è spossata a morte!» [7].
NOTE
[1] «Questi grandi poeti, per esempio questi Byron, Musset, Poe, Leopardi, Kleist, Gogol, – così come sono, come forse devono essere: uomini mutevoli, entusiasti, sensuali, infantili, irresponsabili e improvvisi nella sfiducia e nella fiducia; con anime nelle quali solitamente dev’essere celata una qualche frattura; uomini che spesso si vendicano, nelle loro opere, di una contaminazione interiore, che spesso, nelle loro ascese cercano l’oblio di una memoria troppo fedele spesso smarriti nel fango e di esso quasi innamorati, fino a divenire simili ai fuochi fatui che vagano intorno alle paludi e a fingersi stelle – il popolo allora li chiama idealisti – spesso lottando con un continuo disgusto, con un ricorrente fantasma d’incredulità che rende gelidi e li costringe ad anelare alla gloria e a divorare la “fede in se stessi” dalle mani di ebbri adulatori. Che tortura sono questi grandi artisti e in generale gli uomini superiori per colui che una volta li abbia svelati!» (Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, traduzione di Silvia Bartoli Cappelletto, in Id., Opere 1882/1895, Newton Compton editori, Roma 2008, p. 551).
[2] Per un approfondimento sul personaggio e la tragedia di cui è protagonista, rimando al contributo del presente lavoro ad essa dedicato, «Pentesilea» ovvero della dismisura.
[3] Heinrich von Kleist, Pentesilea, traduzione di Enrico Filippini, in Id., Opere, Mondadori, Milano 2011, p. 330.
[4] Anna Maria Carpi, Kleist, il «genio sinistrato», in Heinrich von Kleist, Opere, cit., p. XXI.
[5] Citato in Anna Maria Carpi, Cronologia, in Heinrich von Kleist, Opere, cit., p. LXXXVII.
[6] Ibidem.
[7] Heinrich von Kleist, Pentesilea, cit., p. 327.