Il'ja Repin, Ritratto di Garšin, 1884

Vsevolod Garšin, il peso insostenibile della responsabilità. Prima parte – La guerra: «Dai ricordi del soldato Ivanov»

Se si deve morire, andiamo a morire, tanto…

Dai ricordi del soldato Ivanov

I. Convinto pacifista, nel 1877 il ventiduenne Garšin si arruola volontario nella guerra Russo-Turca. La partecipazione al conflitto, apparentemente contraddittoria, è per Garšin una bruciante questione morale, di responsabilità individuale: come può un uomo starsene con le mani in mano mentre il popolo (eccezion fatta per gli ufficiali e i volontari, l’esercito russo è il popolo), strappato dalla propria terra e condotto, a piedi, come una mandria, a centinaia, migliaia di verste di distanza, combatte e muore? La scelta di arruolarsi, di vivere, sperimentandolo in prima persona, con i propri occhi l’inferno della guerra, al fianco dei contadini, divelti dalla propria terra e ridotti a mera carne da massacro, rivela subito l’aspetto peculiare di Garšin uomo, intellettuale e scrittore: l’intransigente, a tratti feroce coerenza morale, frutto di una sensibilità eccezionalmente sviluppata, spesso morbosa, che lo condanna a soffrire il proprio tempo e l’esistenza in generale, rendendo il suo spiccato, profondo senso della responsabilità un peso insostenibile, che finirà per schiacciarlo.

II. È dall’esperienza-limite della guerra che nasce il Garšin scrittore. Ferito a una gamba, durante la convalescenza scrive il suo primo racconto, Quattro giorni, che gli garantisce un immediato successo. Questa la trama: un soldato russo gravemente ferito, entrambe le gambe spezzate, trascorre quattro giorni accanto al cadavere di un turco che egli stesso ha ucciso; paralizzato sotto il sole cocente, consumato dalla sete, il protagonista invidia il nemico morto, mentre tutt’intorno la natura indifferente, estranea all’orrore, segue il suo corso. Significativo il commento di Korolenko: «Occorreva un’enorme maestria per fissare l’attenzione dei lettori su questi quattro giorni. E Garšin c’è riuscito con l’instancabile drammaticità del suo pensiero» [1]. Già nel primo racconto Garšin dà prova del suo talento, un talento fuori del comune, che rivela una profonda empatia, una grande capacità d’indagine psicologica, di scandaglio dell’animo umano e un acuto sentimento del tragico (aspetti che lo avvicinano a Dostoevskij).

III. Gli altri racconti di Garšin nati dal trauma della guerra sono Il vigliacco, in cui l’autore affronta proprio il tema della partecipazione al conflitto come dovere morale, L’attendente e l’ufficiale e Dai ricordi del soldato Ivanov. Mi soffermo su quest’ultimo, riproposto di recente dalla casa editrice Corrimano, in una piccola antologia che comprende anche Il fiore rosso e un racconto di Čechov (Garšin è un autore pressoché sconosciuto in Italia, reperire edizioni italiane dei suoi racconti è un’impresa – un vuoto che meriterebbe di essere colmato al più presto). Nei Ricordi del soldato Ivanov Garšin descrive la massacrante marcia dell’esercito russo da Kišinëv a Sistovo e il primo, drammatico scontro con le truppe turche in terra bulgara.

Con grande abilità Garšin riproduce la drammaticità della circostanza, la miseria e la sofferenza dei soldati costretti a marciare per settimane, dapprima sotto la pioggia e nel fango, poi sotto il sole cocente e nella polvere. Uomini forti, vigorosi, abituati all’estenuante lavoro fisico, che stramazzano al suolo come sacchi consumati dal sole (la marcia dell’esercito russo descritta da Garšin ricorda quella dei detenuti in Resurrezione di Tolstoj). Eppure, tra i soldati vi sono differenti percezioni del dolore: i soldati semplici, uomini del popolo, contadini e artigiani, danno al dolore fisico un’importanza maggiore rispetto ai volontari, provenienti dalle classi privilegiate. Per i soldati semplici il dolore fisico è «autentica sofferenza, capace di trasformarsi in angoscia, in tormento interiore» [2], mentre i volontari, cui appartiene Ivanov, dietro il quale si cela lo stesso Garšin, che non soffrono meno, anzi, a causa del loro scarso vigore, restano «sereni». Il loro mondo interiore resta intatto, nonostante i piedi sanguinanti, il caldo asfissiante, insopportabile, la fatica atroce, la miseria, il pericolo, la morte incombente. L’autore non chiarisce le ragioni di questa differenza, da rintracciare forse nell’atavica impossibilità del popolo di arrendersi al dolore, un dolore peraltro estraneo nella fattispecie, incomprensibile e inaccettabile. Il volontario, uomo istruito, un intellettuale nel caso del protagonista, riconduce la sofferenza a una dimensione esistenziale superiore, spirituale, metafisica che ne rivela l’inevitabilità, mentre il soldato semplice, legato a una dimensione terrena, immediata, elementare, primigenia in un certo senso, la rifiuta: la lotta per la sopravvivenza non prevede resa al dolore; arrendersi ad esso significa morire.

IV. Garšin è lo sguardo e la voce delle migliaia di giovani vite strappate loro malgrado da una placida, innocua esistenza e condannate a uccidere e morire. Per che cosa? Del motivo che li costringe ad andare in guerra, ad ammazzare e farsi ammazzare, i soldati non hanno che una vaga idea:

Sapevamo solo che andavamo a combattere contro i turchi, perché avevano sparso molto sangue. E volevamo sconfiggerli, non solo per questo sangue appartenente a chi sa chi, ma perché avevano disturbato una gran massa di gente, e perché era stato necessario affrontare una marcia difficile (“ci hanno trascinato per mille verste, i pagani!”); i congedati avevano dovuto lasciare le loro case e le loro famiglie, e a tutti noi era toccato andare chissà dove sotto i proiettili e le palle di cannone [3].

Le autorità dichiarano guerra per ragioni politiche, strategiche, nascoste sotto ragioni ideologiche, mentre il profondo risentimento dei soldati verso i nemici sconosciuti è dovuto a motivi individuali, personali: i turchi sono colpevoli dello sradicamento, della separazione e del dolore.

V. Terminata la lunga, estenuante, massacrante marcia si giunge infine alla guerra, e ancor più dei colpi di fucile e di cannone, i cui bagliori illuminano la notte, sono i morti a rivelarlo: il cadavere dell’ucraino ferito allo stomaco, che prima di morire deve aver sofferto una lunga agonia, il volto segnato da «un’impronta leggera di spiritualità, bellezza e morbida malinconia», il cui aspetto non suscita «terrore e repulsione, ma solo pena infinita per chi muore maltrattato dalla vita» [4]; il cadavere dell’armeno colto dalla morte all’improvviso, mentre correva furiosamente verso il nemico, urlando a perdifiato e abbattuto da una pallottola che lo ha centrato in mezzo agli occhi, ancora spalancati, lo sguardo fisso, la bocca aperta, «sulla faccia livida una smorfia di furore».

L’ucraino e l’armeno non sono più soldati, non sono più agli ordini di nessuno, non sono più «carne da cannone»: sono uomini. Ecco, la guerra riduce gli uomini a «carne da cannone», che ritrova la propria umana dignità, offesa, calpestata dalla storia, solamente nella morte. Sopravvissuto o meno all’orrore, un uomo è sempre distrutto e sfinito dalla guerra, non c’è scampo.

VI. Come sottolinea il saggio e pessimista Žitkov, falegname massiccio dalla forza straordinaria, serio e taciturno, «un’espressione costantemente cupa» sul volto scuro e ossuto, una moglie e cinque bambini lasciati a casa, in guerra avere paura non serve a niente: «non cambia nulla che tu abbia paura o no; ti toccherà andare. Non te lo chiedono nemmeno, si va e che Dio t’accompagni» [5]. D’accordo, la paura è inutile, non cambia le cose, ma c’è, è un sentimento inevitabile, naturale: non esiste uomo che non abbia paura in guerra. Tuttavia, non si tratta di quel «terrore fisico» che assale un uomo durante un pericolo improvviso, in strada, ma della «piena, chiara consapevolezza dell’inevitabilità della morte, e del suo approssimarsi». La morte è lì, a pochi passi, reale, tangibile, implacabile, eppure questa terribile consapevolezza non arresta i soldati, non li fa scappare, anzi, li spinge avanti, quasi contro la loro volontà, non per un «istinto sanguinario» risvegliatosi di colpo, per il bisogno di uccidere, ma per un «istinto incrollabile» ad andare incontro alla fine: «bisogna morire» è la frase che meglio di ogni altra esprime il pensiero dominante nella mente del soldato durante la battaglia [6].

VII. I Ricordi del soldato Ivanov si concludono con il pianto sommesso di Vencel’, il malvagio capitano che disprezza i soldati, tanto da scagliarsi fisicamente su di loro, ma che non resiste emotivamente alla loro morte: la guerra è così orribile da riportare alla luce quel briciolo di umanità che, seppur sepolto in profondità, resiste anche nell’uomo malvagio, ed è forse questo, tra tante crudeltà, il suo unico aspetto positivo.

NOTE

[1] Citato in I protagonisti della letteratura russa dal XVIII al XX secolo, a cura di Ettore Lo Gatto, Bompiani, Milano 1958, p. 683.

[2] Vsevolod Garšin, Dai ricordi del soldato Ivanov, traduzione di Caterina Balistreri in collaborazione con Gaetano Balistreri, in V.M. Garšin, A.P. Čechov, Lo sguardo sulle cose, Corrimano Edizioni, Palermo 2020, p. 20.

[3] Ivi, p. 35.

[4] Ivi, p. 47.

[5] Ivi, p. 51.

[6] Ivi, p. 53.

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