Heinrich von Kleist, il dramma dell’incomprensione. «La marchesa di O…» ovvero del rimosso

Kleist, che nutre una profonda avversione per la narrazione in prosa, come mostra il severo giudizio espresso sul romanzo in una lettera alla fidanzata Wilhelmine del 1801 («I romanzi ci hanno guastato la mente. Con essi il sacro ha cessato di essere sacro e la più pura, umana, ingenua felicità è stata degradata a mera fantasticheria» [1]), si avvicina al racconto suo malgrado, esclusivamente per necessità. Sono i ripetuti insuccessi teatrali (il Kleist drammaturgo verrà compreso e apprezzato solamente nel Novecento, perché la sua portata innovativa è troppo forte per il proprio secolo) e le disastrose condizioni finanziarie in cui versa a imporgli questa scelta mortificante, questo compromesso avvilente. Da una testimonianza dell’amico Ernst von Pfuel sappiamo infatti che per l’autore passare dal teatro, e in particolar modo dalla tragedia, al racconto rappresenta una «sconfinata umiliazione» [2]. Eppure, paradossalmente, come spesso avviene in questi casi, i racconti di Kleist conoscono un’immediata fortuna critica ignota ai suoi drammi, entusiasmando lettori illustri dell’epoca come Tieck e i fratelli Grimm, i cui pareri favorevoli contribuiscono a favorire l’idea, giunta fino al secolo successivo e, troppo spesso, fino ai nostri giorni, che la sua produzione narrativa abbia un valore letterario nettamente superiore a quella teatrale.

Tra tutti i racconti di Kleist, quello in cui il dramma dell’incomprensione e la funzione della donna come elemento di rottura all’interno del gelido mondo raziocinante maschile, ovvero i due temi posti alla base del presente lavoro, si manifestano con maggiore evidenza è probabilmente La marchesa di O… Come nell’Anfitrione [3], nella Marchesa di O… Kleist rappresenta un profondo e complesso dramma interiore, e il racconto si configura come la storia della lotta di una donna con il mondo, con le autorità e le convenzioni che lo regolano, e con il proprio rimosso. La marchesa di O… è un’ulteriore dimostrazione dell’intuizione dell’inconscio di Kleist, con il quale «opera da antesignano due secoli prima dell’avvento delle teorie psicoanalitiche» [4]. Se nel caso di Alcmena è il monile lo strumento di rivelazione del rimosso, nel caso di Giulietta è il corpo, che riporta alla luce una verità sepolta nelle profondità più inaccessibili della donna. Giulietta non comprende il proprio corpo, i suoi segnali, i ripetuti malesseri, le nausee, le vertigini, gli svenimenti, che contraddicono la sua «coscienza pura», la sua innocenza. Che si tratti forse di un inganno, come ipotizza la madre sconcertata? Ma l’«intimo sentire» della protagonista, proprio di ogni donna, non può mentire e infatti la levatrice conferma l’inspiegabile, inconcepibile gravidanza. La reazione della famiglia è violenta: Giulietta viene cacciata di casa e rinnegata. Armata dell’«orgoglio dell’innocenza», intatto nonostante tutto, la protagonista porta con sé i due figli, che il padre, furioso, le vorrebbe strappare, e non si abbatte, non sprofonda nella disperazione, ma reagisce, sostenuta dall’«energia della sua coscienza senza colpa». Fiduciosa nel «grande, sacro e inspiegabile ordine dell’universo», il dolore vinto dall’«eroico proposito di armarsi con orgoglio contro gli attacchi del mondo», Giulietta accetta il “dono divino” che porta in grembo e del quale si prenderà cura con «tutto l’amore di una madre» [5]. La protagonista affronta un vero e proprio percorso di conoscenza, di consapevolezza di se stessa e di emancipazione, dalle convenzioni sociali e dall’autorità paterna. A questo punto, sorretta dal saldo «sentimento della propria autonomia», decide di pubblicare lo scandaloso annuncio che la espone allo «scherno del mondo». Giulietta, vedova madre di due figli, non occulta la propria gravidanza, ovvero ciò che per la società gretta rappresenta la massima vergogna per una donna, ma la rende pubblica, invitando il padre del bambino a presentarsi e a sposarla: «Qui sta l’invenzione del racconto: un insolito carattere di donna, che nella disgrazia ritrova se stessa e in se stessa il coraggio di andare al mondo e contro il mondo» [6]. Come Käthchen, come Homburg [7], Giulietta è una figura dalla potente carica sovversiva, sfida la società, l’autorità affermando la propria individualità, la propria indipendenza, e questa sua straordinaria prova di forza, di coraggio, di autonomia le riapre le porte dell’affetto familiare. Ma non tutto in lei è ancora compiuto e così, quando il dato giorno, alla data ora, nel dato luogo si presenta il conte F…, che già in più di un’occasione, divorato dal senso di colpa, ha tentato di riscattare la sua azione indegna, vestito come quella notte, con la stessa uniforme, le stesse decorazioni e le stesse armi, Giulietta lo scaccia: «ero preparata a un depravato, ma non a un – – – demonio!» [8]. La protagonista lancia occhiate «feroci, selvagge», il suo sguardo è terribile come quello di una «furia». Braccata dal rimosso, relegato finora nella parte più profonda e oscura di se stessa, Giulietta nega e, negando, afferma: la pubblicazione dell’annuncio si presenta ora come una manifestazione di consapevolezza da parte della protagonista, che, seppur inconsciamente, sapeva chi si sarebbe presentato. Giulietta deve ammettere a se stessa di essersi abbandonata al conte F…, quella notte, non del tutto inconsapevolmente, e solo in conclusione del racconto Kleist ci rivela il suo segreto, «la sua romantica, elementare fissazione, il perché dei ripetuti dinieghi all’innamorato seduttore» [9]:

e quando una volta il conte, in un’ora felice, domandò alla moglie perché, in quel terribile giorno 3, quando sembrava preparata a qualunque depravato, fosse fuggita davanti a lui come da un demonio, lei rispose, buttandogli le braccia al collo: non le sarebbe apparso allora come un demonio, se alla sua prima apparizione non le fosse sembrato un angelo [10].

Nella Marchesa di O… troviamo quella concezione kleistiana dell’amore come «stravolgimento inatteso che fa calpestare convenienze e leggi» [11], dalla «radice fantastica e trasgressiva» [12]. Concezione che trova nel finale della Pentesilea [13] il suo esito più drammatico, violento, distruttivo, mentre in quello della Marchesa di O… il suo esito più pacifico e conciliante: quello del racconto è un vero lieto fine, l’unico vero lieto fine di Kleist.

NOTE

[1] Citato in Anna Maria Carpi, Kleist, il «genio sinistrato», in Heinrich von Kleist, Opere, Mondadori, Milano 2011, p. XXVI.

[2] Citato in Anna Maria Carpi, Notizie sui testi e note di commento, in Heinrich von Kleist, Opere, cit., p. 1213.

[3] Per un approfondimento sul dramma rimando al contributo del presente lavoro ad esso dedicato, «Anfitrione» ovvero dell’inganno.

[4] Anna Maria Carpi, Notizie sui testi e note di commento, cit., p. 1234.

[5] Heinrich von Kleist, La marchesa di O…, traduzione di Marina Bistolfi, in Id., Opere, cit., p. 826.

[6] Anna Maria Carpi, Notizie sui testi e note di commento, cit., p. 1234.

[7] Per un approfondimento su questi due personaggi e le relative opere rimando ai contributi del presente lavoro ad esse dedicati, «Käthchen di Heilbronn» ovvero della dedizione, «Il principe di Homburg» ovvero dell’affrancamento.

[8] Heinrich von Kleist, La marchesa di O…, cit., p. 841.

[9] Anna Maria Carpi, Notizie sui testi e note di commento, cit., p. 1236.

[10] Heinrich von Kleist, La marchesa di O…, cit., p. 844.

[11] Anna Maria Carpi, Notizie sui testi e note di commento, cit., p. 1217.

[12] Ivi, p. 1236.

[13] Per un approfondimento sulla tragedia rimando al contributo del presente lavoro ad essa dedicato, «Pentesilea» ovvero della dismisura.

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