Heinrich von Kleist, il dramma dell’incomprensione. «Il principe di Homburg» ovvero dell’affrancamento

Tra tutti i personaggi maschili di Kleist, il principe Homburg è quello in cui la componente femminile, istintiva, impulsiva, irrazionale, dedita al cuore e non alla ragione, dunque incurante delle leggi, che infrange senza problemi per assecondare il proprio sentimento, è maggiormente sviluppata, fino a sovrastare del tutto la componente maschile, talvolta ridotta alla mera apparenza. Questo aspetto peculiare di Homburg lo rende con ogni probabilità il personaggio più simile a Kleist, ancor più di Pentesilea [1], con la quale una piena, totale identificazione è resa impossibile dalla insuperabile differenza di genere: «Non nell’amazzone Kleist ha posto il suo “più intimo essere”, bensì in questo giovane, eterno giovane, bifronte, egocentrico ma assetato di appartenenza» [2]. Homburg è un «individuo preda di una smodata sete di gloria e d’amore: quella che conosciamo assai bene dall’epistolario dello stesso Kleist», ed è proprio di questa sete inestinguibile che parla l’opera [3]. Fiducioso solo ed esclusivamente nel «proprio puro sentire, il principe è totalmente impolitico, e non è nemmeno un eroe» [4]: «scisso», come si definisce egli stesso, è smisurato, spropositato, inopportuno, insofferente a ogni ordine, a ogni imposizione, a tal punto che persino scrivere sotto dettatura lo fa impazzire. Per Homburg la propria individualità, la propria indipendenza, la propria unicità vengono prima di tutto ed è emblematica, in questo senso, la sua critica all’assolutismo statale che riduce l’uomo a un nulla, con l’illuminante riferimento a Lucio Giunio Bruto, fondatore e primo console della repubblica romana che all’interesse dello stato sacrificò i propri figli:

Mio cugino Federico vuol fare la parte di Bruto
e, disegnato col gesso su una tela,
si vede già seduto sulla sedia curule;
le bandiere svedesi in primo piano
e il codice di guerra della Marca sul tavolo.
Ma, per Dio, non troverà in me il figlio
che lo ammira anche sotto la mannaia.
Il mio cuore tedesco d’antica lega
è abituato alla nobiltà e all’amore,
e se adesso mi viene incontro
con la durezza d’un antico romano
mi desta pietà, e lo compiango [5].

Homburg pronuncia queste parole durante l’arresto, conseguenza della sua insubordinazione sul campo di battaglia, vittoriosa, ma ribelle. Il caso viene esaminato dalla corte marziale, che decreta la condanna a morte del principe. Homburg non è affatto turbato dalla sentenza, è certo di ricevere la grazia e questa sicurezza gli deriva dal «sentimento» che ha del Principe Elettore, al quale lo lega un affetto paterno, ma la vista della fossa, già scavata e pronta ad accogliere il suo cadavere, muta radicalmente il suo stato d’animo. Homburg sprofonda nella paura, nella disperazione e, dinanzi alle donne, alla Principessa Elettrice e a Natalia, sua amata, si lascia andare a uno sfogo sconveniente, in cui il suo timore di morire prorompe senza controllo. Homburg non ricopre più alcuna carica, non è più un valoroso generale di cavalleria, ma semplicemente un uomo sconvolto, che mostra tutta la sua naturalissima fragilità, tutta la sua naturalissima paura dinanzi a una fine prematura, che reciderebbe di colpo le sue speranze di felicità, e in questo passo straordinario, che rappresenta quel decisivo momento di svolta dopo il quale niente sarà più come prima, Kleist dà voce a «quanto di meno retorico o ideologico esista, la nuda paura della morte» [6]:

Questo mondo divino, madre, è così bello!
Ti supplico, non farmi scendere tra le ombre nere
prima che scocchi la mia ora!
Mi punisca se ho colpa,
ma perché fucilandomi?
Mi tolga ogni mia carica,
mi destituisca, se così vuole la legge,
mi allontani dall’esercito: Dio mio,
da quando ho visto la mia tomba, voglio solo vivere
e non mi chiedo se è onorevole o no [7].

In queste parole di Homburg, nella sua reazione tutt’altro che eroica, sublime alla certezza della morte, sta la sua umana grandezza. Il principe si denuda, si umilia agli occhi di quelle donne che vedevano in lui un emblema di forza e coraggio, un valoroso componente di quell’ingranaggio di onore e devozione che è la corte del Brandeburgo, e si dichiara disposto a rinunciare a tutto, alla gloria, all’amore, alla felicità pur di vivere, semplicemente vivere:

Rinuncio a ogni felicità. E riguardo
a Natalia, ricordati di dirgli
che non la desidero più, che nel cuore
s’è spenta ogni tenerezza per lei:
è di nuovo libera come il capriolo nella landa,
può promettere la sua mano a chiunque –
come se non fossi mai esistito –
e m’andrebbe bene anche se fosse il re di Svezia, Carlo Gustavo.
Voglio ritirarmi nelle mie terre
lungo il Reno, costruire, demolire:
sudare, seminare e mietere,
come se avessi moglie e figli, ma sarò solo,
e una volta mietuto, seminerò di nuovo
e così giù per il cerchio della vita,
finché, giunta la sera, declinerò e morrò [8].

In queste pagine formidabili Kleist rappresenta un profondo e sconvolgente dramma dell’io: la paura della morte scuote Homburg dalle fondamenta e mette in discussione tutto. Il puro istinto di conservazione, il puro diritto del corpo, della vita, proprio di ogni essere vivente, prevale su tutto il resto. Nell’inno alla sopravvivenza del principe riecheggia una «rivendicazione della vita come bene in sé a partire dalla sua elementarità», il «paradigma di un umanesimo essenziale che respinge nella sua radicalità ogni ideologia che serva a giustificare la vita stessa» [9]. Infrangendo quel codice dell’onore che regola l’universo politico e militare di cui fa parte, rompendone le regole con il suo prorompente istinto di sopravvivenza, tanto umano quanto sconveniente, Homburg «compie un secondo atto di insubordinazione, perché non risponde all’imminenza della morte nei termini che si confanno a un personaggio sublime» [10]. Il principe, come ogni condannato a morte, e penso alle riflessioni di Dostoevskij nell’Idiota [11], scopre il valore inestimabile della vita, della vita in sé, del puro essere, del puro esistere e questa nuova consapevolezza, raggiunta grazie alla certezza di morire, assente persino su un campo di battaglia, che lascia sempre una possibilità di salvezza, prevale su tutto il resto, permettendo a Homburg di accedere a una dimensione intimamente, autenticamente umana, incomprensibile per tutti coloro che lo circondano, legati a valori quali l’onore, il coraggio, la devozione e così via.

L’inattesa reazione del principe sconcerta le donne e lo stesso Elettore, che, informato da Natalia dell’abietta involuzione di Homburg, decide di rimettere a lui la decisione finale sulla sua condanna, lasciandolo libero di scegliere. A questo punto si verifica la seconda, fondamentale svolta psicologica di Homburg, che rifiuta la grazia e accetta di morire. Una svolta che non rappresenta un ritorno del principe in quella logica autoritaria e militare che egli ha sempre faticato ad accettare, ma un definitivo affrancamento da essa, e nella sua forma più estrema, che coincide con l’affrancamento dalla stessa vita. La decisione di Homburg di accettare la condanna e morire, non risponde a una volontà di sacrificio che ratifichi le leggi dello stato e la supremazia dell’autorità sull’individuo, ma all’aspirazione di entrare in una nuova dimensione trascendentale, nell’immortalità, ovvero «nel potenziamento, oltre la vita, del proprio io che raduna attorno a sé non più uno, bensì mille soli» [12]:

Immortalità, ora sei mia.
E m’abbagli, attraverso questa benda,
con lo splendore di mille soli,
mi crescono le ali alle spalle,
lo spirito si libra nell’etere silente
e come una nave, spinta dal vento,
vede immergersi lontano l’allegria del porto,
così per me tramonta ogni vita:
distinguo ancora colori e forme
ma poi vedo soltanto nebbia [13].

La morte rappresenta per Homburg un’esaltazione e una sublimazione della propria individualità, libera di scegliere il proprio destino. Egli affronta un’esperienza di conoscenza e superamento della vita che gli permette di assimilare il trauma della fine e trascenderlo. Kleist rappresenta un complesso, tortuoso, brusco percorso di consapevolezza di se stessi, e dell’esistenza umana in generale, che conduce prima alla scoperta del valore autentico della vita, dopo, ottenuta la piena libertà, la piena indipendenza, alla scoperta dell’immanenza della morte nella condizione umana e, più oltre, alla sua funzione di accesso verso quella dimensione trascendentale che è l’immortalità. Un approdo conciliante, ottimistico, che contraddice la visione irriducibilmente materialista, leopardiana dell’autore, per il quale la morte è solamente la fine di tutto e nient’altro. Non a caso Kleist in conclusione dell’opera ricolloca Homburg sulla terra: l’esecuzione si rivela infatti una messinscena e il principe, riportato bruscamente alla vita, sviene. Se ciò avvenga «per troppa felicità, come dice Natalia, o per un’emozione contraria, non lo sapremo mai, è un’incertezza inscritta nel testo. Che l’Elettore abbia ripreso la regia della sua vita, strappandolo all’etere per rigettarlo nella sabbia, non suggerisce un lieto fine, tutt’al più una “utopia dissonante”» [14].

La grazia dell’Elettore, la sua realizzazione del sogno di felicità di Homburg, nel segno del quale si apre l’opera, dall’andamento perfettamente circolare, si configura davvero come una riappropriazione da parte dell’autorità del destino del principe, della sua ribelle individualità: un processo di assimilazione che ricorda quello subito da Käthchen, altra figura eccezionale dalla forte carica sovversiva [15]. L’affrancamento dall’autorità, dallo stato, dalla legge è possibile solo nella morte, e non a caso Il principe di Homburg rappresenta «l’estrema delusione patita da Kleist prima del suicidio» [16].

NOTE

[1] Per un approfondimento sulla protagonista dell’omonima tragedia rimando al contributo del presente lavoro ad essa dedicato, «Pentesilea» ovvero della dismisura.

[2] Anna Maria Carpi, Kleist, il «genio sinistrato», in Heinrich von Kleist, Opere, Mondadori, Milano 2011, p. XXV.

[3] Anna Maria Carpi, Notizie sui testi e note di commento, in Heinrich von Kleist, Opere, cit., p. 1205.

[4] Ibidem.

[5] Heinrich von Kleist, Il principe di Homburg, traduzione di Cesare Lievi, in Id., Opere, cit., p. 648.

[6] Anna Maria Carpi, Notizie sui testi e note di commento, cit., p. 1206.

[7] Heinrich von Kleist, Il principe di Homburg, cit., p. 660.

[8] Ivi, p. 661.

[9] Stefania Sbarra, «Quale cavalleria?» Distrazione ed emancipazione dell’artista nel Principe di Homburg, in AA.VV., Il teatro di Kleist. Interpretazioni, allestimenti, traduzioni, a cura di Elena Polledri e Luigi Reitani, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 2014, p. 111.

[10] Ivi, p. 112.

[11] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Il sovversivo «Idiota» di Dostoevskij. Prima parte, Seconda parte.

[12] Stefania Sbarra, «Quale cavalleria?» Distrazione ed emancipazione dell’artista nel Principe di Homburg, cit., p. 115.

[13] Heinrich von Kleist, Il principe di Homburg, cit., p. 700.

[14] Stefania Sbarra, «Quale cavalleria?» Distrazione ed emancipazione dell’artista nel Principe di Homburg, cit., p. 116.

[15] Per un approfondimento sull’opera rimando al contributo del presente lavoro ad essa dedicato, «Käthchen di Heilbronn» ovvero della dedizione.

[16] Anna Maria Carpi, Notizie sui testi e note di commento, cit., p. 1204.

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