Autoritratto di Michelstaedter del 1908

La filosofia dell’impossibile di Carlo Michelstaedter. Quinta parte – L’impossibile

5. L’impossibile

La persuasione, a livello collettivo, sociale è destinata al fallimento, esaurendosi, di fatto, con la vita del persuaso: Aristotele fa di Parmenide, Eraclito ed Empedocle naturalisti inesperti; su Socrate fabbricano quattro sistemi; l’Ecclesiaste viene spiegato come libro sacro che non può contraddire l’ottimismo della Bibbia; su Cristo fondano la Chiesa; Petrarca e Leopardi vengono ridotti a generi letterari e così via [1]. A livello individuale invece?  Un individuo può raggiungere la persuasione, pur non avendo le straordinarie qualità di Socrate o Cristo? Di certo può incamminarsi sulla via della persuasione, ma raggiungerla sembra davvero impossibile. Nel momento in cui il presente diventasse la mia vera vita, la mia vita cesserebbe di essere vita, come se il peso saziasse la sua fame di scendere, ovvero in un punto possedesse l’infinito scendere dell’infinito futuro, cesserebbe di essere un peso. È proprio all’insegna di questo paradosso che si apre La persuasione e la rettorica [2]. Ma si legga anche il seguente appunto di Michelstaedter del 1909:

Vera coscienza è la coscienza della nullità, cioè quella che cessa d’essere coscienza. Tale è l’intima contraddizione e l’estremo sarcasmo di tutta la commedia. […]
La coscienza non arriva mai a possedersi perché nel momento in cui è in condizione di farlo cessa d’essere coscienza. Così avviene che essa non giunge mai all’assoluto, alla vera essenza [3].

Un appunto che si collega alle considerazioni precedenti sulla vita, sul peso e che ha il tono e il senso amarissimi della resa, resa filosofica ed esistenziale, perché in Michelstaedter, come dimostra l’ultima, commovente lettera scritta alla madre [4], pensiero e vita non sono mai disgiunti, ma una sola cosa inseparabile – la coerenza, quella coerenza feroce, implacabile, autocritica propria dei grandi filosofi radicali come Stirner, Mainländer e Weininger [5] è uno dei tratti principali, caratteristici del goriziano.

Dunque la vita cessa nel momento in cui diviene vera vita, la coscienza nel momento in cui diviene vera coscienza, e allora non stupisce che Michelstaedter individui nelle anime «ignude», ovvero le anime dei morti, i suoi modelli ideali, ancor più ideali di Socrate e Cristo forse, di salute e persuasione: defunte, esse «sono»; prive di volontà, di corpo, di tempo, di spazio, di principio e fine, «libere e potenti d’ogni cosa», vivono in un eterno presente, in una attualità permanente [6]. Solo quando si è morti si ha tutto. E allora, stando a queste ultime considerazioni, la filosofia di Michelstaedter si configura davvero come impossibile, e non solo relativamente all’insufficienza propria dell’uomo incivilito, ma in sé. Intraprendere la via della persuasione è possibile, anzi, è un dovere morale, ma solamente nella morte l’individuo coraggioso trova la sua completa realizzazione, la persuasione.

Conclusione

Sarebbe semplice legare il suicidio di Michelstaedter alle cupe considerazioni precedenti, semplice e, forse, semplicistico, perché la filosofia del goriziano non è apertamente una filosofia dell’autodistruzione, del suicidio, come quelle di Kirillov [7] e Mainländer (la stessa cosa vale per Weininger). Riguardo a questo delicato punto, mi limito a una riflessione frutto dell’esperienza personale: ci sono casi , nell’ambito filosofico-letterario, e si pensi anche a Leopardi, il Leopardi del Dialogo di Tristano e di un amico, che conclude le Operette morali [8], e a Kleist, in cui la vita dell’uomo si esaurisce presto, con drammatico anticipo rispetto alla consuetudine. Avviene quando ci si approccia all’esistenza interamente, quando non ci si accontenta dell’apparato di pregiudizi e luoghi comuni che ci viene fornito alla nascita, ma si tenta di penetrare l’essenza delle cose e giungere all’assoluto, contando solo ed esclusivamente su se stessi e le proprie forze, restando sempre fedeli alla propria natura e alle proprie idee. L’uomo che intraprende questa via durissima, la via della critica e della consapevolezza, dell’autenticità e della vera vita, non conosce compromessi, non conosce consolazioni, non si accontenta di porzioni o sfumature, e giunge troppo presto a scoprire il vero volto terribile della vita, che la maggior parte degli esseri, se sfortunati, scoprono in punto di morte: l’insensatezza, il nulla. Per l’uomo che giunge precocemente a questa drammatica verità, l’esistenza diviene un peso insostenibile, che egli, come Sisifo, è costretto a trascinare ogni giorno sperando di trovare almeno un conforto nel sonno (il momento della caduta del masso e della discesa per recuperarlo, recupero che può comunque avvenire durante il sonno, attraverso l’incubo). L’uomo consapevole ha le palpebre recise, è costretto a vedere le cose per quello che davvero sono – vanità, nient’altro che vanità -, non conosce pace, non conosce amore, non conosce distrazione e soffre per il semplice fatto di essere, di esistere. Che egli resti in vita oppure si uccida non fa alcuna differenza, perché, in queste terribili condizioni, tra vivere e morire non c’è più alcuna distinzione.

NOTE

[1] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, pp. 35-36.

[2] Ivi, p. 39.

[3] Carlo Michelstaedter, Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, p. 779.

[4] A proposito dell’epistola scrive la Benussi: «è nella splendida lettera alla madre del 10 settembre 1910 che fa capire come ciò che andava scrivendo cercava di viverlo: i temi toccati sono proprio quelli del vivere per se stessi, della libertà dalle contingenze, dei vani piaceri e della noia altrui, del rapporto vicino-lontano, e così via» (Cristina Benussi, La persuasione e la rettorica: autobiografia e scrittura, in AA.VV., Eredità di Carlo Michelstaedter, Forum, Udine 2002, p. 74).

[5] Per un approfondimento sui due filosofi tedeschi rimando ai contributi Max Stirner, «L’unico e la sua proprietà», Philipp Mainländer, il suicidio come redenzione dall’esistenza.

[6] Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1988, p. 103.

[7] Per un approfondimento sul personaggio dostoevskiano rimando al capitolo terzo dello studio Fëdor Dostoevskij, «I demòni»: del male e della (auto)distruzione: Aleksej Kirillov, l’Uomo-Dio.

[8] Per un approfondimento sul dialogo rimando al contributo «Operette morali»: la filosofia della sofferenza di Giacomo Leopardi. Terza parte.

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