IV. La rivalutazione della vita operata da Zarathustra passa necessariamente da una rivalutazione della morte. Zarathustra riconcilia gli uomini con la morte, con il loro destino mortale: morire è una festa, un «adempimento», una «spina e una promessa». La morte dei superflui è «ghignante», si «avvicina di soppiatto come un ladro», mentre Zarathustra insegna «la libera morte che viene a me perché io voglio» [1]. Chi «voglia avere la gloria deve congedarsi per tempo dall’onore ed esercitare la difficile arte di andarsene – al momento giusto» (ibidem). Nella morte devono brillare spirito e virtù, «come il crepuscolo che avvolge la terra», quello spirito e quella virtù fanciulleschi, danzanti, ironici assenti nel giovane, il cui amore e il cui odio sono immaturi, acerbi. Nell’uomo c’è più bambino che nel giovane, dunque meno malinconia (si ricordi che il bambino è l’ultimo stadio delle tre metamorfosi teorizzate da Zarathustra, seguente al cammello e al leone), egli s’intende della vita, della morte ed è libero nella morte.
Quella di Cristo non è una morte libera, frutto di una volontà salda, ma una morte precoce («Egli è morto troppo presto», dichiara Zarathustra) e disperata, come mostra il grido di dolore, rimprovero e paura rivolto a Dio sulla croce. La morte non è una sciagura, come la intendono gli uomini superflui, cancellandola di fatto dalle loro vite come se non ne facesse parte, come se fosse solamente un accidente, né un momento di passaggio verso fantomatiche realtà ultraterrene, ma pace, in sostanza l’unica, vera possibilità di pace concessa all’uomo, e ricongiungimento con la terra: «Voglio morire io stesso perché voi amici per causa mia amiate di più la terra; e terra voglio ritornare, per aver pace in quella che mi generò» (269).
V. La religione e la società, con i suoi tipi, le sue istituzioni, le sue autorità, con i suoi pregiudizi chiamati morale, sono i bersagli principali della critica distruttiva di Zarathustra. Le religioni sono fughe dall’umana miseria, che i malati e i moribondi non sanno sostenere. Guardando mari lontani un tempo si diceva «Dio»; Zarathustra riconduce l’umano supporre all’interno dei confini della sua volontà creatrice, al di qua dei limiti della «pensabilità»: per lui, come per ogni vero creatore, non ha alcun valore un senso posto al di fuori della sua condizione mortale. Dio è illusione, menzogna, debolezza, malattia, un tentativo goffo, grossolano di dare senso alla vita e di rendere meno misero l’uomo. Zarathustra libera il cielo dalla menzogna della «volontà eterna», libera le cose «dall’asservimento al fine»: «Per accidente», ovvero per caso è «la più antica nobiltà del mondo». Zarathustra restituisce al cielo la sua purezza originaria, lo ripulisce dai ragni e dalle «ragnatele della ragione eterna» (319).
Volontà e ragione sono nelle mani dell’uomo, primo e ultimo, solo e misero sulla terra. L’uomo, libero, deve imporre la propria volontà, e non solo nel presente, ma anche nel futuro e nel passato. La soluzione all’apparente impossibilità dell’uomo di agire sul fu è rappresentata dalla formula: «Ma così volevo». In questo modo la volontà redime se stessa, si concilia con il tempo e con cose più alte di ogni conciliazione, divenendo «volontà di potenza». L’avvenire è invece rifugio e obiettivo di Zarathustra e di ogni creatore: «Con i miei figli voglio rimediare di essere il figlio dei miei padri: e con tutto il futuro rimediare questo presente!» (295). La volontà di potenza si estende su tutte le dimensioni temporali, agisce in tutte le dimensioni: un’estensione e una capacità di azione che prefigurano il conclusivo approdo filosofico-morale di Zarathustra: l’eterno ritorno.
Zarathustra esorta l’uomo a sollevarsi contro la schiavitù divina e la schiavitù umana, rappresentata dallo Stato, il nuovo idolo dei troppi, dei superflui, dei borghesi, degli uomini hegeliani, «il più freddo di tutti i freddi mostri», in cui «tutti sono assuefatti al veleno, buoni e cattivi», in cui «tutti perdono se stessi, buoni e cattivi», in cui il «lento suicidio di tutti si chiama “la vita”» (254-255). Lo Stato è una prigione per l’individuo, le sue leggi catene: Zarathustra esorta l’uomo a ribellarsi a questo nuovo idolo moderno, secondo una prospettiva impolitica, implicitamente anarchica, che caratterizza la grande filosofia e la grande letteratura individualista da Stirner a Thomas Mann. Zarathustra, come il Mann delle Considerazioni di un impolitico, è un ribelle, non un rivoluzionario, secondo l’illuminante distinzione operata da Stirner nell’Unico e la sua proprietà:
Rivoluzione e ribellione non devono essere considerati sinonimi. La prima consiste in un rovesciamento della condizione sussistente o status, dello Stato o della società, ed è perciò un’azione politica o sociale; la seconda porta certo, come conseguenza inevitabile, al rovesciamento delle condizioni date, ma non parte di qui, bensì dall’insoddisfazione degli uomini verso se stessi, non è una levata di scudi, ma un sollevamento dei singoli, cioè un emergere ribellandosi, senza preoccuparsi delle istituzioni che ne dovrebbero conseguire. La rivoluzione mirava a creare nuove istituzioni, la ribellione ci porta a non farci più governare da istituzioni, ma a governarci noi stessi, e perciò non ripone alcuna radiosa speranza nelle “istituzioni”. Essa non è una lotta contro il sussistente, poiché, se essa appena cresce, il sussistente crolla da sé, essa è solo un processo con cui mi sottraggo al sussistente. E se abbandono il sussistente, ecco che muore e si decompone. Ma siccome il mio scopo non è il rovesciamento di un certo sussistente, bensì il mio sollevarmi al di sopra di esso, la mia intenzione e la mia azione non hanno carattere politico e sociale, ma invece egoistico, giacché sono indirizzate solo a me stesso e alla mia propria individualità [2].
Il principale nemico sociale di Zarathustra è l’«ultimo uomo», che rende tutto piccolo, a misura d’uomo appunto, che abbandona le regioni più impervie e ardue in cerca della comodità. L’«ultimo uomo» è tiepido, grigio, mediocre, il suo dominio omologante, uniformante, a tal punto da costringere chi sente diversamente a consegnarsi da sé ai manicomi, schernisce senza fine, ride di tutto ciò che è davvero importante e non sa penetrare l’essenza delle cose con le sue limitate facoltà morali e intellettive, accontentandosi del proprio misero interesse, del proprio «piacerucolo», purché non intacchi la sua salute: l’importante è che ci sia la salute, dice. L’«ultimo uomo», il borghese, l’uomo nella botte di ferro di Michelstaedter, ricerca il benessere, che accorda una «virtù modesta», una parvenza di virtù, e fonda la propria vita, piccola e meschina, sulla «misura», sulla mediocrità. Egli ignora la «somma virtù […] del Tutto o Niente» [3] e si accontenta, esercitando quotidianamente la deprecabile arte del compromesso, non conosce bianco e nero, ma solo il grigio, non conosce il caldo e il freddo, ma solo il tiepido. L’«ultimo uomo», frammento e membra d’uomo, è una malattia epidermica della terra: «La terra […] ha la pelle; e questa pelle ha delle malattie. Una di queste malattie si chiama per esempio “uomo”» (300). L’«ultimo uomo» parla di progresso, se ne riempie la bocca, ma il suo progredire è in realtà un tirare avanti, uno «zoppicare». Il secolare processo evolutivo dell’uomo rallenta, fino ad arrestarsi, e una moltitudine di deboli e malati infesta il mondo: Zarathustra indica la via della guarigione, rimette in moto l’evoluzione, la cui meta è rappresentata dall’oltreuomo.
VI. Zarathustra non predica l’edonismo, l’abbandono sfrenato, animalesco ai sensi, come fanno i nobili che hanno perduto la speranza, che, oltrepassata la morale, non sanno guardare oltre e restano intrappolati nei piaceri: «”lo spirito è anche voluttà” – così dicevano. Così spezzarono al loro spirito le ali: ora esso s’aggira strisciando e rosica tutto insozzandolo» (252). Volevano essere eroi, sono diventati spregevoli gaudenti: «non gettar via l’eroe nella tua anima!» (ibidem). I gaudenti, i grugni di porco si esauriscono nell’attimo effimero dell’orgasmo e chi è preda dell’attimo, chi vive solo dell’attimo non ha una fede salda nella vita, è vuoto, troppo vuoto per attendere, persino per essere pigro. Per i lussuriosi non c’è niente di meglio che giacere accanto a una donna e fango è nel fondo della loro anima. Degli animali hanno la bestialità, ma non l’innocenza.
La stessa colpevole inautenticità che domina il mondo e la società si trova nei rapporti tra uomo e donna. Per i vuoti, i superflui il matrimonio non è che «povertà dell’anima in due», «sudiciume in due», «misero piacere in due» (266). Ciò che viene definito amore in realtà è una lunga serie di «sciocchezze di breve durata», un mero istinto bestiale, necessario, alimentato dall’insoddisfazione, dall’incapacità di sopportare il peso della solitudine e del dolore, «un animale che indovina la presenza dell’altro» (267) e nulla più. Zarathustra insegna il vero, grande amore, quello che supera il perdono e la compassione, quello innocente perché ispirato dalla volontà di generare, di creare al di sopra di se stessi, della propria componente bestiale, della propria necessità terrena (anche chi supera la morale si riduce a predicare il «terreno» e non la terra con il suo senso, l’oltreuomo), della propria insoddisfazione e della propria paura di svanire nel nulla senza lasciare traccia (la procreazione non è forse un tentativo di sopravvivere a se stessi?). Chi vuole creare oltre se stesso ha la volontà più pura e la bellezza è dove si vuole con tutta la volontà, dove si vuole amare e tramontare perché un’immagine non resti solo un’immagine, ma divenga realtà. Amare e tramontare devono congiungersi, fino a diventare una cosa sola: volontà d’amore è anche volontà di morte. Non è possibile amare senza aver prima riconosciuto, compreso, accettato e apprezzato il proprio destino mortale, senza prima aver visto nella morte l’unica possibilità di pace e di ricongiungimento fisico con la terra concessa all’uomo.
VII. Anche Zarathustra cede alla tentazione dell’eternità. Egli è creatore e profeta non solo dell’oltreuomo, ma anche dell’eterno ritorno, come annunciano i suoi animali: «tu sei il maestro dell’eterno ritorno, – questo è il tuo destino!» (353). E Zarathustra leva il suo vibrante inno all’eternità: «Mai ho trovato donna dalla quale volessi avere figli, all’infuori di questa donna che amo: poiché io ti amo, o eternità!» (358). Forse neanche Nietzsche riesce a sostenere la terribile verità rivelata dalla morte: «Alla luce del destino mortale, appare l’inutilità. Nessuna morale, nessuno sforzo sono giustificabili a priori davanti alla sanguinante matematica che regola la nostra condizione» [4]. Insostenibile è il peso dell’inutilità, dell’insignificanza, dell’insensatezza, talvolta per gli stessi profeti dell’umana miseria (Camus stesso, scrivendo L’uomo in rivolta dopo Il mito di Sisifo compie innumerevoli passi indietro; giunto al fondo della filosofia, procede a ritroso). Del resto Zarathustra, con i suoi discorsi, tenta l’impossibile, dare un senso alla vita e all’uomo senza guardare al cielo, l’unico possibile portatore di significato (il senso, che non esiste e non può esistere, data la nostra condizione mortale, può giungere solamente da qualcosa di altrettanto inesistente, e Dio è l’inesistente per eccellenza), e lo fa sondando ciò che finora è rimasto inesplorato, l’uomo e la sua terra, di cui intende fare la sola cosa che non sarà mai: un «luogo di guarigione».
NOTE
[1] Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, traduzione di Anna Maria Carpi, in Id., Opere 1882/1895, Newton Compton editori, Roma 2008, p. 268. D’ora in avanti il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[2] Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, traduzione di Leonardo Amoroso, Adelphi, Milano 2009, pp. 330-331.
[3] Albert Camus, La peste, traduzione di Yasmina Mélaouah, Bompiani, Milano 2017, p. 239.
[4] Albert Camus, Il mito di Sisifo, traduzione di Attilio Borelli, Bompiani, Milano 2020, p. 17.