4. L’amore
È soprattutto attraverso l’amore che l’uomo tenta di colmare la propria atavica insufficienza. È soprattutto attraverso l’amore che l’uomo tenta di dare un senso alla propria vita. Di questo supremo e disperato tentativo, Michelstaedter decreta l’inevitabile fallimento proprio in apertura della Persuasione e la rettorica, già nel primo capitolo, dopo poche pagine: «Né se l’uomo cerchi rifugio presso alla persona ch’egli ama – egli potrà saziar la sua fame: non baci, non amplessi o quante altre dimostrazioni l’amore inventi li potranno compenetrare l’uno dell’altro: ma saranno sempre due, e ognuno solo e diverso di fronte all’altro» [1]. Anche se legati da quel sentimento comunemente chiamato amore, l’uomo e la donna restano entità separate, divise, incompenetrabili. La solitudine e l’alterità che caratterizzano ogni individuo restano intatte anche in relazione alla persona amata, alla quale ci si sente legati per soddisfare un bisogno meramente individuale. Nell’amore, come in ogni altro aspetto della vita, dalla carriera alla semplice conversazione, cerchiamo di appagare esclusivamente noi stessi, le nostre necessità, senza domandarci se ciò di cui abbiamo bisogno noi sia anche ciò di cui ha bisogno l’altro. In ogni cosa che diciamo e che facciamo, in ogni persona che incontriamo e con la quale instauriamo rapporti d’amicizia, d’amore o anche solo di circostanza, cerchiamo esclusivamente la nostra soddisfazione, appaghiamo il nostro interesse. Ci relazioniamo al mondo, alle cose, agli individui che ci circondano in base alle nostre esigenze e non a ciò che essi sono, dicono, fanno. Un approccio profondamente egoistico, autoreferenziale e nocivo, come mostrano gli esiti di molte relazioni interpersonali decretate dal caso. L’uomo crede di amare, ma non è vero amore il suo, perché, come dichiara Rico nel Dialogo della salute, bisogna «avere in sé la forza dell’amore per essere amati. Dare e non chiedere. Più il vano chiede e più bisognoso si rende…» [2]. Un concetto che troviamo anche nella tesi di laurea e in un altro dialogo, tra lo stesso Michelstaedter e Nadia Baraden, signora russa morta suicida nel 1907 e alla quale lo scrittore fu sentimentalmente legato:
nessuno può amare chi ama solo l’amore di cui ha bisogno – che se n’ha bisogno vuol dire che non l’ha. Tu non hai niente e niente puoi dare, ma chiederai sempre, sempre più miserabile, – che non sei e non puoi amare ma chiedi l’amore per illuderti d’essere qualcuno. Ma nessuno può amare chi non è [3].
Michelstaedter stesso tenta di trovare conforto nell’amore, come dimostra il dialogo sopracitato (interessante notare come sia proprio la donna a farsi portavoce del pensiero dell’autore, che si pone da sé sul banco degli imputati) e, soprattutto, il ciclo di poesie A Senia, sorta di piccolo canzoniere dedicato ad Argia Cassini. Nei sette componimenti che formano il ciclo, è possibile notare le varie fasi del processo amoroso, legato indissolubilmente alle aspirazioni filosofico-morali di Michelstaedter [4], che mai, nella sua breve vita, si è limitato a fare teoria, come dimostra forse il suo suicidio, dall’entusiasmo iniziale al drammatico scacco conclusivo, certificato nelle due ultime poesie, la sesta e la settima:
Ti son vicino e tu mi sei lontana,
mi guardi e non mi vedi, o s’io ti parlo,
pur amando ascolti, non però m’intendi;
ti sono questo corpo e questi suoni,
ti sono un nome, ti son un dei tanti,
come un altro sarebbe
che per nome e per vista conoscessi.
[…] Io non sono per te: questo mio amore
disperato e lontano e doloroso
– gli passi accanto e non lo senti amare.
[…] Mentre mi vince gelosia crudele
[…] d’ogni cosa che ti sia vicina,
[…] gelosia d’ogni giorno, d’ogni istante,
che vivi, che non vivi di me solo,
che l’aria e il pane e il sole, che ogni cosa,
che il mondo intero, che la vita stessa
vorrei esser per te – ma tu l’ignori (VI).
che giova, se del tutto io t’ho perduta
quando mia tu non fosti il giorno stesso
che c’incontrammo? […]
se tua vita
crear non so della mia vita stessa,
che più giova sperar, che più volere,
che mi giova la vita e il mio dolore
e questo amore lontano e disperato?
[…] vivo ad ogni istante
nella tua indifferenza la mia morte.
Né più mi giova mendicare i giorni
né chieder altro più dal dio nemico,
se non che faccia mia morte finita (VII) [5].
Promessa di completezza, di autenticità, di realizzazione filosofica ed esistenziale, l’amore si scioglie infine, si dissolve nel dolore e in un’invocazione della morte davvero tale. Distrutta per sempre la possibilità di dare un senso alla propria vita attraverso l’unione con la donna amata, l’io lirico non desidera che scomparire, finitamente, fisicamente. Questi versi cupi, severi nascono da una sofferenza profonda e inestinguibile, la sofferenza di un uomo che credeva di poter contare su un rapporto autentico e indissolubile, di un uomo che, dopo tanto tempestoso navigare, credeva di aver raggiunto finalmente la pace [6].
NOTE
[1] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 41.
[2] Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1988, p. 58.
[3] Ivi, p. 98.
[4] «in te concreta vidi la mia fiamma, / in te il mio sogno fatto era vicino / e la mia vita più certa» (A Senia, V, in Carlo Michelstaedter, Poesie, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1987, pp. 85-96).
[5] Ibidem.
[6] Il nome Argia, traslitterato in greco, ΑΡΓΙΑ, significa proprio «pace».