Ispirata all’omonima commedia di Molière, l’Anfitrione è la prima opera pubblicata da Kleist con il proprio nome, nel 1807. Dell’illustre modello restano l’inizio e l’epilogo, pressoché invariati, e la presenza del doppio, Sosia-Mercurio e Anfitrione-Giove. Per il resto, Kleist rielabora completamente l’opera, rimodernandola. Se nella commedia di Molière Alcmena svanisce alla fine del secondo atto, Kleist ne fa l’indiscussa protagonista dell’Anfitrione. Questo perché l’obiettivo del drammaturgo tedesco è creare un vero e proprio dramma dell’io, rappresentare una profonda crisi interiore, simile a quella vissuta in prima persona nel 1801, dopo la scoperta della filosofia di Kant, e la sua idea della donna come antitesi del razionale universo maschile, vi si adatta alla perfezione. Se la crisi di Kleist è una crisi dell’intelletto, quella di Alcmena è una crisi del cuore che la scuote dalle più intime profondità, fino a toglierle la parola. Priva di tutte le certezze, del principale punto di riferimento femminile, il proprio sentire, la donna non può fare altro che sospirare.
I drammi di Kleist procedono per strappi, improvvise lacerazioni psicologiche che stravolgono le esistenze dei personaggi. In questo senso, nell’Anfitrione il momento di svolta, dopo il quale niente sarà più come prima, è rappresentato dalla scoperta di Alcmena dell’iniziale incisa sul monile di Labdaco, prezioso pegno amoroso, letta per svista come «A.», poi come «G.». Attraverso il gioiello, potente mezzo di rivelazione del represso (nella Marchesa di O… questa funzione di svelamento spetterà al corpo), Alcmena avrebbe potuto avvedersi subito dell’inganno, ma, travolta dalla passione per Giove, presentatosi a lei come idealizzazione di Anfitrione, ovvero come amante che oscura lo sposo, vede ciò che non c’è, ciò che avrebbe voluto ci fosse. Avvedutasi dell’errore, grazie al decisivo intervento di Charis, dunque di un elemento esterno, estraneo alla propria persona, Alcmena sprofonda nella disperazione e anela all’oblio. Perché la protagonista, faccia a faccia con l’«inspiegabile», ha perduto improvvisamente la fiducia in ciò che, per una donna, costituisce il principale punto di riferimento, ovvero l’intimo sentire, il cuore:
Io mi sentivo forte, prima, e senza colpa.
Ma da quando lo sguardo mi è caduto
su questa cifra estranea,
io voglio diffidare
di ciò che sento nell’intimo [1].
Ancora:
Niente voglio sentire, no, non voglio
vivere se il mio cuore ha perso l’innocenza [2].
Il tema dell’incomprensione, centrale nell’opera kleistiana, riguarda in questo caso il proprio io, soggetto a quella forza imperscrutabile, oscura, spaventosa che è l’inconscio, di cui Kleist intuisce l’esistenza con un secolo d’anticipo rispetto alla psicoanalisi: «L’infallibile campana, ossia il cuore, l’unica istanza certa, ha fallito non avvertendo la donna che il visitatore notturno, così bello da sembrare “un ritratto dipinto con mano d’artista: / fedele al naturale, trasposto nel divino”, è Giove e non Anfitrione. Lo sdoppiamento dell’amato in uomo e dio è la proiezione del suo desiderio inconscio, è una sublimazione» [3].
In balia di quella profonda crisi interiore che rappresenta il vero nucleo dell’opera, completamente smarrita, frastornata, priva di certezze, Alcmena perde la parola e non può fare altro che sospirare. Il conclusivo «Ah» della protagonista, divenuto topos letterario, racchiude il senso più profondo e inquietante dell’Anfitrione: se l’uomo non può avere fiducia nell’intelletto, incapace di giungere alla verità, non può avere fiducia neppure nel cuore (sono questi i due poli, rispettivamente maschile e femminile, della riflessione kleistiana), soggetto a quella forza misteriosa e ancora indefinibile, di cui Kleist intuisce la presenza e l’importanza, che è l’inconscio (un simile dramma interiore lo ritroviamo nella Marchesa di O…). Kleist sgretola tutte le presunte certezze dell’uomo, di cui rivela le fragilità e scopre nuovi, insondati orizzonti interiori. Con il suo sguardo acuto, visionario, incompreso dai contemporanei e da buona parte dei posteri, almeno quelli ottocenteschi, Kleist scruta le profondità umane e giunge laddove l’individuo diviene incomprensibile a se stesso, in una dimensione d’abisso che troverà la sua definizione un secolo dopo e che, per ora, può essere espressa solamente con un sospiro.
NOTE
[1] Heinrich von Kleist, Anfitrione, traduzione di Roberta De Monticelli, in Id., Opere, Mondadori, Milano 2011, p. 242.
[2] Ivi, p. 243.
[3] Anna Maria Carpi, Notizie sui testi e note di commento, in Heinrich von Kleist, Opere, cit., pp. 1168-1169.