il coraggio dell’impossibile è la luce che rompe la nebbia, davanti a cui cadono i terrori della morte e il presente divien vita.
Carlo Michelstaedter, «La persuasione e la rettorica»
Introduzione
«Io lo so che parlo perché parlo ma che non persuaderò nessuno» [1]: è questo il memorabile incipit della Persuasione e la rettorica, la tesi di laurea di Carlo Michelstaedter che rappresenta, «senz’ombra di dubbio», nella forma ma non solo, «la più anomala ovvero la più eccezionale nel canone delle grandi opere della letteratura italiana» [2]. La persuasione e la rettorica si apre così all’insegna della disperazione, una disperazione cupa, profonda, irriducibile, che non riguarda solamente l’autore, ma tutti i persuasi citati da Michelstaedter nella Prefazione – Parmenide, Eraclito, Empedocle, Socrate, l’Ecclesiaste, Cristo, Eschilo, Sofocle, Simonide, Petrarca, Leopardi, Ibsen, Beethoven -, assimilati dunque depotenziati, normalizzati, traditi da quella stessa moltitudine di deboli e morti ai quali avrebbero voluto infondere forza e vita: «quanto io dico è stato detto tante volte e con tale forza che pare impossibile che il mondo abbia ancor continuato ogni volta dopo che erano suonate quelle parole» (ibidem). Da queste parole potremmo già ricavare una terribile verità negativa: la persuasione è destinata al fallimento. Lo sforzo del persuaso, valido in sé, viene vanificato dagli altri, dai deboli, dai cadaveri che se ne servono per fingersi forti e vivi, per rafforzare il loro mondo inautentico e la società violenta.
1. La persuasione
Sottoposte a quel sistematico processo di risemantizzazione delle parole [3] che s’impone come una delle più originali e significative caratteristiche della scrittura e del pensiero di Michelstaedter, i termini persuasione e rettorica assumono un valore eminentemente ontologico, nel senso parmenideo del termine, rappresentando, rispettivamente, il polo positivo e il polo negativo della filosofia del goriziano. Sinonimo di «autodeterminazione» [4], la persuasione è il «possesso presente della propria vita» [5], «non vive in chi non vive solo di sé stesso», in chi è ridotto a una cosa tra le cose: «Persuaso è chi ha in sé la sua vita: l’anima ignuda nelle isole dei beati» (42). Possedere la propria vita, averla in sé, vivendo solo ed esclusivamente di se stessi, significa fare i conti con il dolore, che segna ogni umana esistenza, indistintamente, rendendo la nascita una tragedia, significa guardarlo dritto in faccia e non distogliere mai lo sguardo, sostenerne coraggiosamente il peso, come Sisifo, ma gli uomini «hanno paura del dolore e per sfuggirlo gli applicano come empiastro la fede in un potere adeguato all’infinità della potenza ch’essi non conoscono, e lo incaricano del peso del dolore ch’essi non sanno portare» (55). Così gli uomini donano tutto al benevolo, prudente, familiare, caro, affabile, conosciuto dio della philopsichia (amore alla vita, viltà, come traduce Michelstaedter), al piacere, mentre all’altro dio, quello tradizionale, diciamo così, affidano tutto ciò che «trascendendo la potenza del singolo, apparisce ad ognuno come il caso, e sorvegli la casa mentre essi banchettano, e volga tutto al meglio» (55-56). Stretti tra questi due confortanti iddii, gli uomini si sforzano di dimenticare, di soffocare, di reprimere il dolore che costituisce le loro esistenze, ma la cui «sorda voce» non tace mai, dominando più volte «sola e terribile nel pavido cuore degli uomini» (56).
Avviene quando la «trama dell’illusione s’affina, si disorganizza, si squarcia» e gli uomini, resi «impotenti», si sentono in balia «di ciò che non sanno». Sono queste le «spaventevoli soste», in cui gli uomini, destati dal sonno, si ritrovano immersi nella completa oscurità, senza identità, senza passato, senza storia, soli, nudi, gli occhi spalancati nelle tenebre, privi di punti di riferimento, di appigli ai quali aggrapparsi con il loro peso inerte e inconsistente. In questi momenti terribili tutto si sgretola, si scompone, cede, tutto fugge, si allontana e domina il «ghigno sarcastico» che rivela all’uomo tutta la sua miseria, tutta la sua nullità: «niente, niente, niente, non sei niente, so che non sei niente, so che qui t’affidi ed io ti distruggerò sotto il piede il terreno, so quello che riprometti a te stesso e non ti sarà mantenuto, come tu hai sempre promesso e mai tenuto, non hai mai tenuto – perché non sei niente, e non puoi niente, io so che non puoi niente, niente, niente…» (58-59). In queste soste, quando l’impotenza repressa riemerge in tutta la sua desolante forza, l’uomo percepisce nitidamente «d’esser già morto da tempo e pur vive e teme di morire»; soffre l’insostenibile «dolore della morte», che «accomuna tutte le cose che vivono e non hanno in sé la vita, che vivono senza persuasione, che come vivono temono la morte» (59). Questo dolore rimosso, soffocato, dimenticato, lenito dagli empiastri, resiste nel fondo di ogni singolo individuo, è invincibile e riemerge nei «terrori della notte e della solitudine», distruggendo l’uomo, ciò che gli sta attorno, la sua menzogna. Ma esso è legato anche a sentimenti come il rimorso, la malinconia, la noia, l’ira, il dolore della perdita, la paura, la gioia troppo forte. Il rimorso è il «terrore per la propria vita distrutta nell’irrevocabile passato» e genera impotenza dinanzi al futuro; la malinconia e la noia (occasioni della «noia melanconica» sono la monotonia, che «esaurisce il valore delle cose […] e fa sentire infinito il tempo»; il «riconoscimento dell’altrui individualità come illusoria quando questa abbia un manifesto contatto con la propria»; il rimpianto e la delusione per lo stato presente rispetto alle aspettative del passato) il «terrore dell’infinito quando la trama dell’illusione» s’interrompe e l’uomo prova il «dolore di non essere» e si sente «in balia dell’ignoto a volere impotentemente»; la paura è il «terrore di fronte all’infinita oscurità di chi […] si esperimenti impotente», sentendo la propria persona andare in frantumi; l’ira è il sentimento invincibile che cresce infinitamente alimentato dall’impotenza dinanzi al «fatto compiuto o alla maggior forza altrui»; il dolore della perdita è il «terrore per la rivelazione della impotenza della propria illusione; è il tale accidente, la tal malattia, è la morte, è la rovina, la catastrofe di cose date conosciute: – ma è il mistero che apre la porta della tranquilla stanza chiara e scaldata a sufficienza per la determinata speranza, e ghigna: “ora vengo io, da te che ti credevi sicuro, e tu non sei niente”»; infine la gioia troppo forte, che priva l’uomo della ragione di vivere, mentre, senza saziarlo completamente, completamente «lo fa voler ancora senza saper più cosa: impotentemente» (60-62). Tutti questi sentimenti negativi, rivelatori, scaturiscono dal trauma della scoperta della propria atavica e irriducibile impotenza, quando, «interrotta la voce del piacere che le dice tu sei», l’illusione «sente solo il sordo mormorio del dolore fatto distinto che dice: tu non sei, mentre pur sempre essa chiede la vita» (62).
L’uomo senza persuasione obbedisce alla paura della morte, fondando proprio su di essa la sua vita inautentica. In tal senso, non c’è trauma, non c’è strappo più forte, doloroso, stordente, devastante dell’improvvisa consapevolezza del proprio destino mortale, che spezza il confortante filo della philopsichia e annienta l’uomo (come scrive Camus nel Mito di Sisifo, il destino mortale cancella ogni possibilità di eternità e fornisce all’uomo la grande opportunità dell’assurdo [6]). La paura della morte è il principale sintomo di mancanza di persuasione e Michelstaedter si sforza di recidere le palpebre del lettore, serrate nel timore e nella menzogna:
«Sei persuaso o no di ciò che fai? […] Tu dici che sei persuaso di quello che fai, avvenga che può? – Sì? – Allora io ti dico: domani sarai morto certo: non importa? pensi alla fama? pensi alla famiglia? ma la tua memoria è morta con te, con te è morta la tua famiglia; – pensi ai tuoi ideali? vuoi far testamento? vuoi una lapide? ma domani sono morti, morti anch’essi; – tutti gli uomini muoiono con te – la tua morte è una cometa che non falla; ti rivolgi a dio? – non c’è dio, dio muore con te; il regno dei cieli crolla con te, domani sei morto, morto; domani è finito tutto; il tuo corpo, la tua famiglia, i tuoi amici, la tua patria, quello che fai, quello che ancora puoi fare, il bene, il male, il vero, il falso, le tue idee, la tua parte, iddio e il suo regno, il paradiso, l’inferno, tutto, tutto, domani è finito tutto – fra 24 ore è la morte.
Allora… allora… il dio d’ora non è più quello di prima, non è più quella la patria, quello il bene, quello il male, quelli gli amici, quella la famiglia. – Vuoi mangiare? no, non puoi mangiare, il sapore del cibo non è più quello, il miele è amaro, acido il latte, la carne è nauseante; e poi l’odore, è l’odore che è nauseante: pute di cadavere; – vuoi una donna che ti conforti gli ultimi istanti? no, peggio: è carne morta; – vuoi godere il sole, l’aria, la luce, il cielo? – godere?! – il sole è un’arancia fradicia, la luce è spenta, l’aria irrespirabile, il cielo è una volta bassa che m’opprime… no, tutto è chiuso e buio ormai. – Ma il sole splende, l’aria è pura, tutto è come prima, eppure tu parli come un sepolto vivo che descriva la sua tomba. E la persuasione? non sei persuaso nemmeno della luce del sole, non puoi più muovere un dito, non puoi più tenerti in piedi. Il dio che ti teneva in piedi, che ti faceva chiaro il giorno, e dolce il cibo, che ti dava la famiglia, la patria, il paradiso – quello ti tradisce ora e t’abbandona, poiché è rotto il filo della tua [philopsichia]» (67-68).
Come mostra Tolstoj – autore amatissimo da Michelstaedter e celebrato in un vibrante articolo scritto e pubblicato in occasione degli ottant’anni dello scrittore russo [7] -, con un’efficacia difficilmente eguagliabile, nella Morte di Ivan Il’ič [8], la scoperta e la certezza dell’imminenza della fine svuotano completamente di senso la vita dell’uomo, che, finalmente consapevole del proprio destino mortale, vede se stesso e le cose per quello che effettivamente sono: una menzogna. Tutte le crepe, tutte le illusioni, tutte le ipocrisie vengono di colpo in superficie e sgretolano l’intero edificio di bugie. La vita mostra all’uomo in punto di morte il suo vero, terribile volto, il volto dell’insensatezza e del nulla. Come nel caso del personaggio tolstoiano, con la morte non termina la vita, ma la morte stessa, perché una vita fondata sulla menzogna non è vera vita ed equivale alla morte.
Per l’uomo lontano dalla via della persuasione, essere nati non è che «voler continuare», vivere non è che vivere ovvero non morire: «La loro persuasione è la paura della morte, esser nati non è che temere la morte. Così che se si fa loro certa la morte in un certo futuro – si manifestano già morti nel presente». Tutto ciò che gli uomini dicono e fanno ostentando «Ferma persuasione», in realtà non è che «paura della morte»; la loro stessa vita, ogni singolo presente della loro vita, disperso in un futuro sempre inesausto, non è che «paura della morte». Ma la vita è nel presente: «se questo non ha valore niente ha valore», e chi «teme la morte è già morto» (69). Chi vuole, almeno per un momento, fare sua la propria vita, chi vuole, almeno per un momento, essere persuaso di ciò che dice e fa, «deve impossessarsi del presente; vedere ogni presente come l’ultimo, come se fosse certa dopo la morte: e nell’oscurità crearsi da sé la vita». L’uomo sulla via della persuasione è immune alla morte, se ne affranca, perché la morte toglie solo ciò che «ha già preso dal dì che uno è nato, che perché nato vive della paura della morte». L’uomo sulla via della persuasione è tutto in sé, nel suo presente, nella sua vita e non conosce necessità: «non c’è pane per lui, non c’è acqua, non c’è letto, non c’è famiglia, non c’è patria, non c’è dio – egli è solo nel deserto, e deve crear tutto da sé: dio e padre e famiglia e l’acqua e il pane» (69-70). L’uomo sulla via della persuasione deve «permanere» e non inseguire i bisogni sempre sfuggenti e rinnovati, solo apparentemente appagati, deve «resister» alla corrente trascinante dell’illusione, perché, se cede, «nuovamente si dissolve la sua vita, ed ei vive la propria morte», perché sotto l’appagamento apparente del bisogno si cela «l’ombra del dolore cieco e muto, che amaro e vuoto gli rende quel piacere» (71). Colui che vuole «fortemente» la propria vita, che la vuole davvero sua, non «s’accontenta», non teme di soffrire, ha il coraggio di strapparsi di dosso la «trama delle dolci e care cose», chiede il «possesso attuale», crea se stesso «per avere il valore individuale, che non si muove a differenza delle cose che vanno e vengono, ma è in sé persuaso» (72). Tutti hanno ragione, uomini, sassi, formiche, zanzare, pulci, ma solo lui ha la ragione.
Le parole e le azioni di chi, per paura della morte, s’accontenta di vivere, o forse sarebbe meglio dire sopravvivere, meglio ancora tirare avanti, trascinarsi per mera inerzia da un giorno all’altro, sono ingiuste e disoneste, sempre, in ogni caso, poiché «affermazione d’un’individualità illusoria». A togliere la violenza, a estirparla dalla radice deve invece andare tutta l’attività dell’uomo – «tutto dare e niente chiedere»: è questo il suo dovere, il suo imperativo morale. Come fare? Togliendo ai propri simili la paura della morte, dando loro la vita, la vita vera, autentica, non la vita illusoria: è questa l’attività che sola estirpa la violenza dalla radice. È questo il «coraggio dell’impossibile», la «luce che rompe la nebbia, davanti a cui cadono i terrori della morte e il presente divien vita» (82). Dare è fare l’impossibile, dare è, in realtà, secondo il tipico processo di risemantizzazione delle parole attuato da Michelstaedter, «avere». Sull’impegnativa, ma luminosa via della persuasione non ci sono soste: «La vita è tutta una dura cosa» (83). L’uomo sulla via della persuasione deve avere il coraggio di sentirsi solo, di restare solo, di guardare in faccia il dolore e sostenerne il peso. Da sé deve riempire il deserto, colmare il vuoto e illuminare l’oscurità. Deve agire positivamente sugli altri, mostrando, anzi, dando loro la «vicinanza delle cose lontane così che anche i ciechi le vedano» (84). Egli deve arricchire la propria vita di negazioni e creare se stesso e il mondo, perché il mondo è il mio mondo e se lo possiedo possiedo me stesso.
Come abbiamo già visto, il dolore, forza costitutiva e inconsumabile che brulica sotto il velo d’illusioni e menzogne tessuto dagli uomini, riemerge nelle occasioni in cui essi scoprono la loro atavica impotenza e insufficienza. In chi ha la capacità di farsene carico, di sostenerlo, di sopportarlo, come Sisifo il suo masso, il dolore, «muto e cieco» per chi lo fugge spaventato, diviene «parola eloquente» e «vista lontana». L’uomo sulla via della persuasione, che non s’accontenta di un piacere «grigio», che non ha paura della morte, non reprime il dolore, ma lo sente parlare e «parlando la voce del proprio dolore egli parlerà loro la voce ad essi lontana del loro stesso dolore» (86). L’aspirante persuaso allora apparirà agli uomini insufficienti «come l’aurora d’un nuovo giorno» e rivoluzionerà le loro vite, rendendoli «partecipi d’una vita più vasta e più profonda», finalmente libera da tutto ciò che ritenevano indispensabile, dalle cure e dal calcolo di quelle piccole cose in cui ogni giorno si dissolve la vita vera, autentica, dalla «miseria della loro meschinità». Così essi «assaporeranno nell’impossibile, nell’insopportabile la gioia d’un presente più pieno» (ibidem); vedranno che non c’è nulla da temere, da cercare, da fuggire.
Come un sicuro falco e non come una qualunque goffa cornacchia, l’uomo sulla via della persuasione, fattosi carico del dolore, vivendolo in ogni singolo punto, mantiene perennemente «l’equilibrio della sua persona». Dove per tutti gli altri è l’oscurità, per lui è la luce; consapevole della propria insufficienza dinanzi all’infinita potestas, «egli si fa sempre più sufficiente alle cose». Così nella sua presenza, nelle sue parole, nei suoi gesti si rivela, si fa vicina e concreta una «vita che trascende la miopia degli uomini» – Cristo ne è un fulgido esempio. La sua parola «luminosa» «crea la presenza di ciò che è lontano» e muove il cuore d’ognuno. Solo nel deserto, il persuaso «vive una vertiginosa vastità e profondità di vita»; ogni suo singolo attimo è un «secolo della vita degli altri», asserviti al dio della philopsichia che accelera, dilata, disperde il tempo distruggendo il presente, «finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente. In questo egli sarà persuaso – ed avrà nella persuasione la pace» (88-89).
NOTE
[1] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 35. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[2] Alberto Asor Rosa, «La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter», in Letteratura italiana. Le Opere, vol. IV, Il Novecento, I. L’età della crisi, Einaudi, Torino 1995, p. 265.
[3] Sergio Campailla, Introduzione a Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 17.
[4] Thomas Harrison, 1910. L’emancipazione della dissonanza, traduzione di Marco Codebò e Federico Lopiparo, Castelvecchi, Roma 2017, p. 72.
[5] Carlo Michelstaedter, Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, p. 728.
[6] Per un approfondimento sul saggio rimando al contributo Albert Camus, «Il mito di Sisifo»: la grande opportunità dell’Assurdo. Prima parte, Seconda parte.
[7] Per la lettura integrale dell’articolo rimando al contributo Michelstaedter e Tolstoj, «l’apostolo del popolo».
[8] Per un approfondimento sul racconto rimando al contributo Lev Tolstoj, «La morte di Ivan Il’ič»: la scoperta della fine e della menzogna.