I. Il teatro di Kleist si distingue per il carattere fortemente innovativo, come mostra già il suo primo lavoro. Rispetto alla tragedia tradizionale, fondata sulle antiche poetiche, e in particolar modo sulla poetica aristotelica, nella Famiglia Schroffenstein è del tutto assente l’unità azione-spazio-tempo, mancano inoltre i cori, con la loro funzione di commento, e i monologhi, utilizzati per veicolare gli stati d’animo dei personaggi e dunque spiegarne gli atteggiamenti e i comportamenti. Questo per quanto riguarda il piano della forma, della struttura. Per quanto riguarda invece il piano del contenuto, dei temi Kleist non pone al centro del dramma l’amore tra i due giovani rampolli di famiglie rivali, come avviene in Giulietta e Romeo, tra le principali fonti d’ispirazione del drammaturgo tedesco, ma l’odio tra i padri. Questi elementi di rottura con il passato, di innovazione fanno della Famiglia Schroffenstein un vero e proprio «noir di pura azione» [1], che ha il maggiore punto di forza nel carattere profondamente, cupamente angoscioso della vicenda: «Uno stolido vuoto separa i protagonisti da se stessi, dagli altri e dalle due piccole comunità che sono lo “specchio concavo delle dicerie”» [2].
II. Nella Famiglia Schroffenstein compare uno dei temi più importanti, se non il più importante in assoluto, perché intimamente legato alla vicenda esistenziale dell’autore, nel suo complesso, della riflessione e della scrittura di Kleist: l’impossibilità di una comunicazione, di una comprensione, di una corrispondenza autentiche e totali con l’altro. Gli uomini parlano, ma «non fanno che equivocarsi, ognuno si tiene stretto al proprio pensiero e la convergenza è impossibile» [3]. Nella Famiglia Schroffenstein è proprio un equivoco a generare la catastrofe finale (l’uccisione dei due giovani rampolli da parte dei rispettivi padri, ingannati dallo scambio degli abiti, rovinoso stratagemma escogitato da Ottokar), e solo dopo l’orrendo misfatto si scopre che questo sangue innocente è stato versato a causa di un errore, di un malinteso innescato dall’incomprensione.
III. Nell’Introduzione del presente contributo, ho sottolineato come la concezione della donna esposta da Kleist nella lettera alla von Schlieben del 18 luglio 1801, sia alla base della creazione di molti dei suoi personaggi femminili e, in tal senso, la giovane Agnes ne è un esempio evidente. Abbandonandosi istintivamente al proprio sentire, alle leggi irrazionali del cuore, dunque indifferente ai freddi calcoli della ragione, Agnes vive il suo amore per Ottokar pienamente, con coraggio, fiducia e passione, incurante della condanna a morte che pende su di lei (all’inizio della Famiglia Schroffenstein tutti i componenti del casato di Rossitz, Ottokar compreso, giurano dinanzi a Dio, durante le esequie del piccolo Philipp, di sterminare i rivali di Warwand e Agnes lo sa). Inoltre è la sola a dubitare che siano stati proprio gli uomini del padre a uccidere il piccolo Philipp. Mentre Ottokar è incapace di spingersi oltre la presunta evidenza dei fatti, confermata dalla confessione dei presunti assassini materiali del fratello (confessione peraltro estorta sotto tortura), Agnes crede nel «sentimento della bontà d’animo d’altri» [4], ben più profondo si ogni sapere.
Il sogno di felicità coniugale come sublimazione dell’amore, esaltato da Ottokar, resta drammaticamente tale, e Agnes, prima eroina kleistiana, paga con la vita l’irrazionale, autentico, fiducioso abbandono al proprio cuore. La giovane appartiene a una dimensione originaria, primordiale, autenticamente umana, in cui il sentimento, libero dal giogo della ragione, dell’intelletto, sgorga spontaneo, puro, incontaminato, come l’acqua dalla sorgente. Salvo rari casi, che tuttavia sfociano nella favola e nel sogno, conservando comunque nell’epilogo apparentemente lieto insolubili ambiguità, come nel caso della Käthchen di Heilbronn e del Principe di Homburg, questa vitalità primigenia, libera e anticonvenzionale è destinata allo scacco, alla sconfitta, come la quercia viva è abbattuta dalla bufera (immagine già utilizzata da Kleist nelle lettere e che compare per la prima volta proprio nella Famiglia Schroffenstein): «La quercia morta e senza linfa resiste alla tempesta, che invece abbatte quella sana perché la può afferrare per la chioma» [5].
La razionalità, la logica, il calcolo, la sottomissione alle convenienze sociali, al pensiero comune, alla presunta evidenza dei fatti sono sinonimi di morte. Solamente chi ascolta il proprio cuore, chi ha fiducia nel proprio sentire e ha il coraggio di seguirlo, incurante dell’opinione del mondo, è vivo, ma, in quanto tale, immancabilmente esposto alla violenza della vita, che prima o poi lo afferrerà e abbatterà. È solo una questione di tempo.
NOTE
[1] Anna Maria Carpi, Kleist, il «genio sinistrato», in Heinrich von Kleist, Opere, Mondadori, Milano 2011, p. XIV.
[2] Anna Maria Carpi, Notizie sui testi e note di commento, in Heinrich von Kleist, Opere, cit., p. 1145.
[3] Anna Maria Carpi, Kleist, il «genio sinistrato», cit., p. XIV.
[4] Heinrich von Kleist, La famiglia Schroffenstein, traduzione di Marina Bistolfi, in Id., Opere, cit., p. 51.
[5] Ivi, p. 37.