Marcel Proust, «Dalla parte di Swann»: l’ouverture della «Recherche». Prima parte

Da molto tempo, ormai, mio padre ha cessato di dire alla mamma: «Va’ col piccino». La possibilità di ore simili non rinascerà mai per me. Ma, da qualche tempo, ricomincio a percepire con chiarezza, se tendo l’orecchio, i singhiozzi che ebbi la forza di trattenere dinanzi a mio padre e che scoppiarono più tardi, quando mi ritrovai solo con la mamma. In realtà, non sono mai cessati; ed è soltanto perché la vita ora tace più spesso intorno a me che li sento di nuovo […].

I. Tra tutti i grandi romanzieri, Proust è forse quello che meglio di ogni altro rappresenta la figura dello scrittore-creatore. Chiuso nella sua stanza foderata di sughero, isolato dal mondo, rinserrato in se stesso, «in tutto simile a quel sovrano folle e recluso, da lui evocato nella sua opera, che giocava a carte mentre fuori infuriava la guerra» [1], sordo alle vane e affascinanti sirene della mondanità, di cui in giovinezza è stato grande protagonista e cantore, con la raccolta I piaceri e i giorni, del 1896, incurante della tempesta bellica che sconvolge, sconquassa l’Europa, Proust concentra tutte le proprie attenzioni e le proprie energie notturne nella creazione di un altro mondo, vasto e soprattutto ideale, popolato di innumerevoli personaggi, dotato di una propria geografia, attraversato da infinite impressioni analizzate microscopicamente (in questo senso, possiamo definire Proust lo scrittore-impressionista per eccellenza, e si ricordi la fondamentale importanza esercitata da Monet nella sua formazione estetica [2]). Nella Recherche, autentica opera-mondo, secondo la celebre definizione di Franco Moretti, nulla è tralasciato. Attraverso la creazione letteraria, dunque artificiosamente, spinta fino alle sue estreme possibilità, Proust realizza ciò che umanamente risulta impossibile: avere il pieno possesso del proprio passato, tempo irreversibilmente perduto e che, come fa Proust, si può al massimo inventare, ricreare.

II. Alla base del processo creativo di Proust si colloca, come è noto, l’esperienza della cosiddetta memoria involontaria, accostata da Benjamin al concetto di oblio [3]. A questo fenomeno miracoloso, che in realtà altro non è che un meccanismo artificioso, un ordigno letterario, Proust dedica alcune delle pagine più celebri del primo volume della sua immensa opera, Dalla parte di Swann, e dell’intera Recherche, in cui il Narratore, utopico uomo della memoria e del passato, dopo aver mangiato un pezzetto di madeleine imbevuto nel tè, torna ai giorni felici e spensierati e alle notti dolorose e tormentate di Combray [4]. Questo l’effetto prodotto dal piccolo dolce:

Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. Di colpo, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la mia brevità, allo stesso modo in cui agisce l’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, questa essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale» [5].

Questo piacere dal valore inestimabile, che, come l’amore, rende di colpo la vita meno dolorosa e anestetizza, diciamo così, la consapevolezza del Narratore della propria miseria, della propria nullità (già da queste poche righe, un soffio all’interno del vasto universo di parole della Recherche, emerge il pessimismo proustiano, reso ancor più desolante proprio dal fatto di mostrarsi, quasi inconsapevolmente, anche in una costruzione così ideale), è il primo miracoloso effetto della memoria involontaria, dell’oblio. Successivamente, dal pezzetto di madeleine imbevuto nel tè, il cui sapore è lo stesso di quello offerto, la domenica mattina, dalla zia Léonie al Narratore, emerge come per magia un intero mondo, il mondo di Combray. Il Narratore recupera così la piena consapevolezza – una vera e propria sapienza -, il pieno possesso del proprio passato, e ciò grazie ad un semplice sapore, perché «quando di un passato lontano non resta più nulla, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore rimangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a sorreggere senza piegare, sulla loro stilla quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo» [6].

Proust non consacra la propria vita al culto delle rovine che lo circondano, ma, ultimo reduce del proprio passato, le ricrea pezzo per pezzo, pietra dopo pietra. Del resto, dalla morte della madre, l’«unica persona veramente amata» [7], avvenuta nel 1905, la creazione letteraria, fino a questo momento discontinua, dilettantistica e spesso dispersa, rappresenta l’unica opportunità di sopravvivenza che gli resta. Proust la afferra e, esiliandosi nella sua stanza foderata di sughero, dove trascorre gli ultimi anni della sua vita, dal 1910 al 1922, immerso in una «estenuante, dolorosa solitudine» [8], isolato da tutto e da tutti, monaco dell’arte, vi si dedica interamente, passando ogni singola notte tra le sue carte.

III. Tra gli episodi più significativi dell’infanzia del Narratore, vi è senza dubbio quello che, di fatto, inaugura la Recherche. Mi riferisco naturalmente all’episodio della dolorosa e disperata sera senza bacio della buonanotte, che segna una svolta epocale nella vita del protagonista. Il padre del Narratore permette alla moglie di passare la notte con il bambino e questi proruppe in un pianto incontenibile che in realtà, come recita il passo posto in epigrafe, non è mai cessato, e che la madre accoglie finalmente, per la prima volta, per quello che è, ovvero il sintomo di un male nervoso che tormenterà il Narratore per tutta la vita:

«per la prima volta, la mia tristezza non era più considerata una colpa da punire, ma un male involontario che veniva riconosciuto ufficialmente, uno stato nervoso di cui non ero responsabile; avevo il conforto di non dover più mescolare gli scrupoli all’amarezza delle mie lacrime, potevo piangere senza peccato. […] questo rivolgimento delle cose umane […] mi faceva raggiungere di colpo una sorta di pubertà del dolore, di emancipazione delle lacrime» [9].

L’ideale che la madre del Narratore, come ogni altra madre, aveva concepito per lui, inizia a sgretolarsi, precocemente, in questo preciso istante, e quella notte piena di lacrime e di singhiozzi segna l’inizio di una nuova epoca per il protagonista, l’epoca della sofferenza, che, salvo rari momenti di gioia, rappresentati, ad esempio, in questo primo volume della Recherche, dalle letture di Bergotte, dalle prime ispirazioni letterarie, dagli inattesi doni di Gilberte, durerà fino alla morte.

NOTE

[1] Paolo Pinto, E il letterato snob scelse l’esilio, in Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Newton Compton editori, Roma 2010, p. XXVII.

[2] Cfr. Giuliana Giulietti, Proust e Monet. I più begli occhi del XX secolo, Donzelli editore, Roma 2011.

[3] «Per l’autore che ricorda la parte principale non è affatto svolta da ciò che egli ha vissuto, ma dal lavoro del suo ricordo, dalla tela di Penelope della memoria. O non sarebbe meglio dire dalla tela di Penelope dell’oblio? La “memoria” involontaria di Proust non è forse assai più vicina all’oblio che a ciò che si chiama comunemente ricordo? E quest’opera della memoria spontanea, in cui il ricordo è la trama e l’oblio l’ordito, non è forse il contrario dell’opera di Penelope, piuttosto che la sua copia? Poiché qui il giorno disfà ciò che aveva fatto la notte» (citato in Paolo Pinto, E il letterato snob scelse l’esilio, cit., p. XXIX).

[4] Per un approfondimento sull’episodio rimando al contributo Marcel Proust, «Alla ricerca del tempo perduto»: l’importanza inestimabile di un piccolo dolce.

[5] Marcel Proust, Dalla parte di Swann, traduzione di Paolo Pinto ed Eurialo De Michelis, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, cit., p. 37.

[6] Ivi, p. 39.

[7] Paolo Pinto, E il letterato snob scelse l’esilio, cit., p. XI.

[8] Ivi, p. XXVII.

[9] Marcel Proust, Dalla parte di Swann, cit., p. 31.

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