Albert Camus, «Il mito di Sisifo»: la grande opportunità dell’Assurdo. Seconda parte

3. Uomini assurdi

Nel Mito di Sisifo Camus presenta tre tipi di uomini assurdi: l’amante, l’attore e il conquistatore (o avventuriero). Uomini che in una «schiavitù liberamente accettata trovano una libertà profonda, la vera, l’unica», «morituri» che si fanno gioco delle regole dei comuni mortali, «sganciati dal passato e dalle sue remore tormentose», «sollevati dal peso dei ricordi» e «liberati da qualsiasi preoccupazione del futuro» [1]. Creature quasi demoniache nella loro consapevolezza e nella loro spietata coerenza, si nutrono «del vino dell’assurdo e del pane dell’indifferenza».

Don Giovanni è un luminoso esempio di quantità: «è proprio perché egli ama le donne con uguale trasporto e ogni volta con tutto se stesso, che deve sempre rinnovare questo dono e questo approfondimento» [2]. Don Giovanni conosce i propri limiti, sa e non spera, è consapevole di essere un seduttore e tale consapevolezza lo rende assurdo. Contrariamente al santo, sua ideale antitesi, che tende alla qualità rinchiuso nella sua illusione religiosa, il mitico amante pratica «un’etica della quantità» e il suo scopo non è collezionare donne, ma esaurirne il numero e, con loro, «le probabilità di vita» (69). Il metodo conoscitivo di Don Giovanni è fondato sulla seduzione, l’amore e il possesso, sulla conquista, l’esaurimento e il conseguente abbandono. Del resto godimento e ascesi, apparentemente agli antipodi, sono facce della stessa miseria e Camus accoglie l’epilogo che vede Don Giovanni, alla fine dei suoi giorni, ritirarsi in monastero; l’immagine spaventosa, raccapricciante del vecchio seduttore che, tradito dal corpo, s’inginocchia davanti al vuoto e tende le braccia verso un cielo muto e senza profondità:

Vedo Don Giovanni entro la cella di uno di quei monasteri spagnoli perduti su una collina. E s’egli guarda qualche cosa, non sono i fantasmi degli amori svaniti, ma, forse, attraverso una feritoia ardente, una silenziosa pianura di Spagna, terra magnifica e senza anima, nella quale egli si riconosce. Sì, è su questa immagine malinconica e sfavillante che bisogna fermarsi. L’estrema fine, attesa ma non mai desiderata, l’estrema fine è degna di disprezzo (72).

La morte esaurisce la vita e l’assurdo, portando con sé il nulla, per questo motivo è quanto di meno desiderabile per gli uomini assurdi come Don Giovanni, che fondano le proprie esistenze sull’etica della quantità. Tra il suo pensiero assurdo e il suicidio Camus scava un solco incolmabile.

Per quanto riguarda l’attore, la sua interpretazione teatrale, che si consuma in poche ore e in pochi metri quadrati, è un’efficacissima rappresentazione plastica dell’assurdo. Inoltre, grazie ai personaggi che interpreta, l’attore vive innumerevoli vite.

Infine il conquistatore. La conquista non è più geografica; la grandezza ha cambiato ambito «e sta nella protesta e nel sacrificio senza avvenire» (82). Il conquistatore è perfettamente consapevole dell’inutilità dell’azione. Non vi sarebbe che una sola azione utile, «quella che rifacesse l’uomo e la terra» (ibidem), ma un’azione di questo tipo è impossibile e Camus stesso non scrive certo con questo scopo (se lo facesse non sarebbe uno scrittore assurdo), del resto «il pensiero sterile è il solo che non sia falso. Nel mondo assurdo, il valore di una nozione o di una vita viene misurato in base alla sua infecondità» (65).

4. Scrittori esistenzialisti: Dostoevskij e Kafka

4.1. Accanto all’amante, all’attore e al conquistatore Camus colloca il creatore. La creazione rappresenta infatti la «gioia assurda per eccellenza», creare è «vivere due volte» e nell’universo assurdo l’opera si configura come «l’unica possibilità di conservare la coscienza e di fissarne le avventure» (92). L’opera d’arte è un fenomeno assurdo, non un rimedio all’assurdo, un sintomo del male dello spirito, non una via d’uscita dal male, anzi essa mostra proprio «la via senza uscita in cui tutti si inoltrano».

Per Camus la grande letteratura è necessariamente legata alla filosofia, e viceversa. In tal senso, lo scrittore che forse meglio di ogni altro incarna questo rapporto inscindibile tra creazione e pensiero è Dostoevskij, di cui Camus nel Mito di Sisifo analizza un personaggio in particolare: Aleksej Kirillov, l’ingegnere suicida dei Demòni, l’Uomo-Dio [3]. La rivolta è alla base del suicidio di Kirillov, che è dunque un personaggio assurdo. È vero, l’assurdo non ammette il suicidio (l’uno esclude l’altro), ma Kirillov «stesso spiega questa contraddizione, e in tal maniera che svela, nel medesimo tempo, il segreto dell’assurdo in tutta la sua purezza. In lui, infatti, alla logica mortale si aggiunge una straordinaria ambizione, che dà al personaggio tutta la sua prospettiva: egli vuol uccidersi per diventare dio» (103). Diventare dio significa essere libero, non servire un essere immortale: Dio non esiste e tutto dipende da noi. Il delitto metafisico, l’assassinio filosofico di Dio (compiuto da Nietzsche, ma anche da Stirner, Mainländer e prima di lui – tra l’altro Mainländer è l’unico, vero filosofo del suicidio nel pensiero occidentale [4]) basterebbe al compimento dell’uomo, ma l’uomo, come un bambino, ha bisogno che gli si mostri il cammino, ha bisogno di una guida e dunque Kirillov deve uccidersi per amore dell’umanità, per indicare la via: il suo è un «suicidio pedagogico». Non è la disperazione a spingere Kirillov alla morte, ma l’amore per il prossimo, e proprio per questo motivo Stavrogin, suo demiurgo, lo definisce generoso. Lo stesso Stavrogin fa «esercizio di verità assurda», e con lui anche un altro celebre personaggio dostoevskiano, Ivan Karamazov: entrambi sono re dell’indifferenza [5]. Le teorie di questi tre fondamentali personaggi, il tutto è bene di Kirillov, il nulla è detestabile di Stavrogin e il tutto è permesso di Ivan Karamazov, «sono giudizi assurdi».

Nessuno scrittore al pari di Dostoevskij «ha saputo dare al mondo assurdo una grandezza a noi così prossima e torturante» (106), ma Dostoevskij non è uno scrittore assurdo, imposta solamente il problema dell’assurdo. Dostoevskij, nella prospettiva camusiana, è uno scrittore esistenzialista, e non perché cristiano – si può essere cristiani e assurdi -, ma perché annuncia la vita futura, e ormai sappiamo che per l’uomo assurdo non esiste avvenire.

4.2. Camus compendia il senso dell’opera kafkiana attraverso un brevissimo apologo, di tipo barocco, come lo definisce lui stesso, ma particolarmente efficace:

Si sa la storia del pazzo che pescava in un bagno. Un medico, che aveva idee proprie sui trattamenti psichiatrici e gli chiedeva: “se abboccava all’amo”, si sentì rispondere con severità: “Ma no, imbecille! Se è un bagno”. Questa storiella è di tipo barocco, ma vi si comprende con evidenza come l’effetto assurdo sia legato a un eccesso di logica. Il mondo di Kafka è […] un universo indicibile, in cui l’uomo si permette il torturante lusso di pescare in un bagno, pur sapendo che non ne ricaverà nulla (129-130).

Tuttavia Kafka non è uno scrittore assurdo, ma uno scrittore esistenzialista. Come Kierkegaard opera una «deificazione dell’assurdo», come mostra chiaramente Il castello: il castello è Dio e K. si sforza con tutto se stesso di raggiungerlo. Il castello rappresenta così la risposta esistenzialista all’assurdo Processo [6], come I fratelli Karamazov rappresentano la risposta ai Demòni, soprattutto nella figura di Aleksej, che contraddice le verità assurde esposte dal fratello Ivan, da Kirillov e da Stavrogin.

Le opere degli scrittori (Dostoevskij, Kafka) e le filosofie dei pensatori (Kierkegaard) esistenzialisti, «interamente rivolte verso l’Assurdo e le sue conseguenze», si risolvono infine in un «immane grido di speranza»; tutti questi autori e pensatori finiscono per abbracciare «il Dio che li divora» (134). Secondo Camus è esistito un solo artista «che abbia tratto le estreme conseguenze da un’estetica dell’Assurdo», e il cui «ultimo messaggio consiste in una lucidità sterile e conquistatrice e in una negazione ostinata di ogni consolazione soprannaturale» (136): Nietzsche, che, come il suo equivalente letterario, Ivan Karamazov, sprofonda infine, non a caso, nella follia.

5. Sisifo felice

Come rivela già il titolo del saggio, Sisifo rappresenta l’eroe assurdo per eccellenza, «tanto per le sue passioni che per il suo tormento. Il disprezzo per gli dei, l’odio contro la morte e la passione per la vita, gli hanno procurato l’indicibile supplizio, in cui tutto l’essere si adopra per nulla condurre a termine» (118). Camus si sofferma su un momento in particolare della condanna di Sisifo, quando l’eroe, dopo aver fatto precipitare il masso giù dalla montagna, scende a recuperarlo, «con passo pesante, ma uguale». Questo momento, «che è come un respiro, e che ricorre con la stessa sicurezza della sua sciagura», è il momento della consapevolezza, in cui Sisifo «conosce tutta l’estensione della sua miserevole condizione: è a questo che pensa durante la discesa» (119). Ciò che interessa Camus è lo stato d’animo dell’eroe, che all’inizio prova dolore: «Quando le immagini della terra sono troppo attaccate al ricordo, quando il richiamo della felicità si fa troppo incalzante, capita che nasca nel cuore dell’uomo la tristezza: è la vittoria della pietra, è la pietra stessa» (ibidem). Ma se Sisifo compie la discesa nel dolore, può anche compierla nella gioia, perché felicità e assurdo «sono figli della stessa terra e sono inseparabili». La «silenziosa gioia» di Sisifo sta nel fatto che il destino gli appartiene: «il macigno è cosa sua». Il destino è una «questione di uomini», che deve essere regolata tra uomini, e Sisifo insegna proprio quella «fedeltà superiore» che «nega gli dei e solleva i macigni». Anch’egli, come l’Edipo di Sofocle e Kirillov, «giudica che tutto sia bene»: «Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice» (121).

Il macigno trascinato da Sisifo è la vita, quella vita di cui l’uomo assurdo, in un mondo finalmente senza padrone, consapevole del proprio destino mortale, della propria insensatezza, della propria gratuità, si fa carico con gioia, prima di sprofondare nel nulla. Nonostante tutto, vale la pena vivere e uccidersi significa sprecare una grande opportunità, la grande opportunità dell’Assurdo, unica via verso un’esistenza piena, intensa, libera, autenticamente umana. Insomma, l’Assurdo è la risposta di Camus alla profonda e drammatica crisi spirituale che segna il Novecento, la risposta di uno scrittore-pensatore che non si arrende alle tenebre del proprio tempo e si sforza di aprire un varco alla luce, proprio mentre l’uomo, attorno a lui, scrive alcune delle pagine più buie, violente, sanguinose della sua folle e autodistruttiva storia.

NOTE

[1] Corrado Rosso, Prefazione a Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano 2020, pp. XIII-XIV.

[2] Albert Camus, Il mito di Sisifo, traduzione di Attilio Borelli, cit., p.66. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[3] Per un approfondimento sul personaggio rimando al capitolo terzo dello studio Fëdor Dostoevskij, «I demòni»: del male e della (auto)distruzione: Aleksej Kirillov, l’Uomo-Dio.

[4] Per un approfondimento su questi due pensatori rimando ai contributi Max Stirner, L’unico e la sua proprietà; Philipp Mainländer, il suicidio come redenzione dall’esistenza.

[5] Per un approfondimento su questi due protagonisti, che rappresentano le più tenebrose incarnazioni del sottosuolo dostoevskiano, rimando al capitolo secondo del già citato studio Fëdor Dostoevskij, «I demòni»: del male e della (auto)distruzione, Nikolaj Stavrogin, «Tutto», e al capitolo quinto dello studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso: Ivàn, il nichilista estremo – I-IV, V-VI, VII-IX.

[6] Per un approfondimento sui due romanzi rimando ai contributi Franz Kafka, «Il processo»: colpevole senza colpa e per legge di natura; «Il castello»: l’ultimo grande incubo di Franz Kafka.

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