A Palermo Marta sembra rinascere. In lei si ridesta il senso antico, infantile della vita, «lucido e gajo», e prova finalmente un piacevolissimo e benefico sentimento di soddisfazione: «Era paga: aveva vinto; sentiva di far bene, e le piaceva di vivere» [1]. La primavera torna anche per lei, non solo per la terra, e Marta si sottrae «all’incubo delle tristi memorie», ma non dura molto: la protagonista viene presto insidiata dai tre professori del collegio, in particolar modo dal mostruoso e folle Falcone (una delle più straordinarie caricature espressioniste di Pirandello), e pedinata dal marito, furioso per la sua fuga e certo che lei si trovi a Palermo per la sua relazione con l’Alvignani: «sassi, spine ovunque, per quella via lontana dalla vita» [2].
Mentre la madre e la sorella, creature quasi evanescenti, ritrovano la serenità perduta, una nuova vita calma e modesta, corrispondente alle loro nature arrese, Marta è tormentata dall’insoddisfazione. L’energia giovanile sprecata, le aspirazioni frustrate – Marta si sente esclusa dalla vita e ne prova dolore:
Ma lei? la sua vita, la sua giovinezza dovevano rimanere sepolte lì, nel passato? Non se ne doveva più parlare? Quel ch’era stato era stato? Morta? Tutto morto, per lei? Viva solamente per far vivere gli altri? Sì, sì, se ne sarebbe magari contentata se, esclusa così dalla vita, le avessero almeno concesso di godere in pace dello spettacolo dolce e quieto di quella casetta, ch’era come edificata sul sepolcro di lei… Ma che si parlasse almeno un poco, che si avesse qualche compianto almeno della sua giovinezza morta, della sua vita spezzata! Era stato pure un delitto spezzarle la vita così, senza ragione, stroncarle così la giovinezza! Non se ne doveva più parlare? [3]
Marta si sente come sepolta viva e l’assurdo e violento corteggiamento del Falcone, sommato alla rabbia del marito, che minaccia nuovi scandali, nuovo fango, acuiscono questa sensazione angosciante. La protagonista sente approfondirsi ogni giorno di più il distacco tra lei, la madre e la sorella, che ignorano le sue sofferenze, i suoi turbamenti e «con la schiva umiltà contegnosa, coi riguardi timorosi e l’apprensione costante di non dar mai nell’occhio alla gente, erano già rientrate in quel mondo da cui ella era stata espulsa e condannata senza remissione» [4].
Il dramma della condanna iniqua, senza colpa, allontana Marta da tutti, dal mondo e dalla vita, la isola, relegandola in una dimensione sospesa, di morte-in-vita, in uno stato di prigionia, di impossibilità, di impotenza insostenibile per una giovane nel pieno delle sue forze, intellettualmente dotata, coscienziosamente sviluppata e bella. In questo momento così complicato e doloroso ricompare Gregorio Alvignani, con la sua vibrante esortazione a vivere, vivere, vivere e Marta cede al seduttore, ma con sgomento, in uno stato di annebbiamento, di incoscienza, senza trasporto: «Quand’egli la abbracciò, ella ebbe un fremito per tutte le membra, un singulto, come uno schianto, di chi cede senza concedere» [5]. Marta si abbandona all’Alvignani «senza volontà», come se le ingiustizie patite avessero conferito un diritto all’amante, il diritto di possederla, di farla sua. Marta si sente «come giunta al suo fine, piombata nel suo fondo, dove tutti, tutti, la avevano spinta, quasi a furia d’urtoni alla terga, e precipitata. […] Dove tutti avevano voluto ch’ella arrivasse, era arrivata» [6]. Il fatto che ha sancito la condanna di Marta Ajala all’esclusione, all’emarginazione dalla società infine si compie, deve compiersi e la protagonista, che ne percepisce la terribile ineluttabilità, mentre l’Alvignani, ebbro di piacere, la stringe forte a sé, invocandola come sua, sua, sua, si sente ridotta a una cosa da prendere e usare, priva di coscienza, priva di volontà. Questo processo di reificazione costituisce probabilmente il momento culminante del dramma di Marta Ajala e rivela tutta l’assurda influenza della legge sociale sull’individuo, ridotto a burattino, a fantoccio che d’umano conserva solamente la forma – la sostanza è annullata, cancellata, annichilita.
Marta, sconvolta, costringe se stessa a vedere nella caduta «una vendetta voluta da lei, la vendetta della sua antica innocenza, contro tutti» [7]. Un’illusione fragile, destinata a dissolversi presto, al primo debole soffio della coscienza riacquistata, e Marta si trova sprovvista dell’unico sostegno sul quale aveva fondato la sua coraggiosa lotta contro il fango: l’innocenza, perduta per sempre. «Tutti l’hanno voluto…», sussurra la protagonista tra sé, rabbiosamente, a denti stretti, e scrive all’Alvignani una lunga lettera di sfogo, in cui il rimorso della caduta si mostra «in uno slancio aggressivo di passione, nella frase appositamente ripetuta e sottolineata: “Ora sono tua!” quasi per fargli paura» [8]. L’Alvignani tenta di rassicurare Marta, ma sofisticando, sostenendo che la coscienza non rappresenta altro che il giudizio del mondo radicato dentro di noi. Il deputato si compiace di se stesso, dei suoi brillanti ragionamenti, dei suoi sofismi e la protagonista si costringe a credere alle parole dell’amante, che la scagionano, ma in cuor suo non è affatto convinta. Frequentare l’Alvignani le pesa, le sue notti sono tormentate dall’angoscia, e Marta si reca dall’amante esclusivamente per sentirsi dire ciò che «avrebbe voluto credere: che ella non era stata vinta; che quell’uomo non s’era impadronito di lei per violenza altrui; ma che ella lo aveva voluto, e ormai doveva starci, poiché gli s’era data» [9]. Marta non ama l’Alvignani e lui lo sa, sa che la donna non gli si concede per «virtù d’amore», ma che gli si aggrappa «come un naufrago s’aggrappa ad un altro, senza probabilità di scampo, disperatamente» [10]. Così la relazione tra i due si trascina per un paio di mesi, fino a un punto morto, stagnante, reso particolarmente sgradevole «dall’ombra della colpa» che, da Marta, si proietta su entrambi.
Marta resta incinta dell’Alvignani e per lei si prospettano due vie: trasferirsi a Roma con il deputato e abbandonare la madre e la sorella, oppure tornare dal marito, che, dopo aver rischiato di perdere la vita a causa del tifo, desidera riavere la moglie, e a tal proposito ha inviato il professor Blandino a Palermo come ambasciatore. L’Alvignani la spinge proprio verso questa seconda possibilità:
vedi, vedi, sarebbe questa la vera vendetta, questa; e se io fossi in te, non esiterei un solo minuto! Pensaci! Innocente, ti hanno punita, scacciata, infamata; e ora che tu, spinta da tutti, perseguitata, non per tua passione, non per tua volontà, hai commesso il fallo – per te è tale! – il fallo di cui t’accusarono innocente, ora ti riprendono, ora ti rivogliono! Vacci! Li avrai puniti tutti quanti, come si meritavano! [11]
Vili sofismi che non convincono Marta, la quale vede davanti a sé una sola possibilità: la morte. Il pensiero del suicidio assume ogni giorno maggiore consistenza, ma giunge la notizia dell’agonia della madre di Rocco, anche lei scacciata dal marito e abbandonata a Palermo, sola, come una «cagna», sepolta in una stamberga, e Marta corre dalla donna, «orribile immagine dell’imminente suo destino» [12]. Marta confessa a Rocco, giunto per assistere la madre moribonda, la sua relazione con l’Alvignani, verso cui l’hanno spinta tutti, e il marito per primo, cacciandola di casa, ingiustamente. Ed eccoci giunti all’amaro finale del romanzo: Marta e Rocco si riconciliano, al cospetto del cadavere di Fana Pentàgora, ennesima povera vittima della brutale e assurda legge sociale che domina L’esclusa e tutti i suoi personaggi. Commessa infine quella colpa di cui ingiustamente era stata accusata, Marta Ajala viene riammessa nella società, riassumendo il ruolo di moglie di Rocco Pentàgora. La sua coraggiosa e disperata lotta contro il fango la vede sconfitta; ancora una volta gli altri decidono per lei, e la legge per tutti.
L’esclusa concede molto al romanzo d’appendice, eppure già in questa prima prova narrativa di Pirandello troviamo diversi elementi fondamentali della sua scrittura, come la caricatura espressionista, che deforma mostruosamente o ridicolmente numerosi personaggi; come la rappresentazione e la critica della gretta e meschina legge sociale, feroce e assurda; come il tema dell’esclusione, dell’emarginazione dell’individuo, centrale nei tre maggiori romanzi dello scrittore siciliano: Il fu Mattia Pascal, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Uno, nessuno e centomila [13]. L’esito non cambia: come nell’Esclusa, anche in queste opere i protagonisti, tutti emarginati, lacerati, Amleti incerti, sono destinati alla sconfitta.
NOTE
[1] Luigi Pirandello, L’esclusa, Mondadori, Milano 2017, p. 91.
[2] Ivi, p. 109.
[3] Ivi, p. 110.
[4] Ivi, p. 117.
[5] Ivi, p. 128.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, p. 129.
[8] Ivi, p. 131.
[9] Ivi, p. 132.
[10] Ivi, p. 133.
[11] Ivi, pp. 142-143.
[12] Ivi, p. 160.
[13] Per un approfondimento sui romanzi rimando ai contributi Vivo morto, morto vivo… insomma, Mattia Pascal, Luigi Pirandello, «Quaderni di Serafino Gubbio operatore» ovvero della reificazione, Luigi Pirandello, «Uno, nessuno e centomila»: dall’illusione alla dissociazione e infine alla dissoluzione.