Capitolo quarto. Šigalëv, il dispotismo illimitato
Šigalëv è uno dei personaggi più inquietanti, oscuri e lugubri di Dostoevskij: «In vita mia non avevo mai visto in faccia un uomo così fosco, così cupo, così tetro. Sembrava che aspettasse la distruzione del mondo, e non in un’epoca indeterminata, secondo profezie che potevano anche non avverarsi, ma con assoluta sicurezza, per esempio, per due giorni dopo, alle dieci e venticinque esatte del mattino» [1].
Sorta di «predecessore del Grande Inquisitore» [2], Šigalëv si è dedicato allo studio della struttura della futura società e, partendo dal principio della libertà illimitata, ha concluso con il dispotismo illimitato. Questo sinistro pensatore dalle orecchie enormi, dai movimenti goffi e lenti, propone «la divisione dell’umanità in due parti diseguali. Un decimo riceve la libertà personale e un diritto illimitato sugli altri nove decimi. Questi devono perdere la loro personalità e trasformarsi in una sorta di gregge e in completa obbedienza, attraverso una serie di rigenerazioni, raggiungere l’innocenza primigenia, una specie di paradiso primordiale, anche se, d’altronde, dovranno lavorare» (453). Lo scopo dello scigaliovismo è raggiungere l’uguaglianza attraverso la schiavitù – «Tutti sono schiavi, e nella schiavitù tutti sono uguali» (466) -, e per fare ciò è necessario anzitutto abbassare il livello dell’educazione, delle scienze e dei talenti, tagliare la lingua a Cicerone, cavare gli occhi a Copernico, lapidare Shakespeare, come dichiara entusiasticamente Pëtr Verchovenskij [3] spiegando il piano di Šigalëv:
La sete dell’istruzione è già una sete aristocratica. Non appena spuntano la famiglia e l’amore, subito compare il desiderio di proprietà. Noi stermineremo il desiderio: daremo via libera all’ubriachezza, al pettegolezzo, alla delazione; avvieremo un’inaudita corruzione: soffocheremo ogni genio nella più tenera età. Tutti ridotti a un comun denominatore, assoluta uguaglianza. “Noi abbiamo imparato un mestiere, siamo uomini onesti, non abbiamo bisogno d’altro”, così hanno risposto non molto tempo fa gli operai inglesi. È necessario solo il necessario, ecco, d’ora in poi, la parola d’ordine del globo terrestre. Ma ci vogliono anche degli spasimi; ce ne occuperemo noi, governanti. Perché gli schiavi devono avere dei governanti. Piena disciplina, piena assenza di personalità, ma una volta ogni trent’anni Šigalëv ammette degli spasimi; tutti, d’un tratto, cominceranno a divorarsi l’un l’altro, fino a un determinato limite, unicamente per allontanare la noia. Giacché la noia è un sentimento aristocratico; nello scigaliovismo non ci saranno desideri. Il desiderio e la sofferenza saranno per noi, per gli schiavi ci sarà lo scigaliovismo (467).
Eliminare l’istruzione, distruggere ogni forma di cultura, fonte di indipendenza ed emancipazione, riducendo nove decimi dell’umanità in schiavitù, senza desiderio: è questo il nucleo dello scigaliovismo, che non rappresenta semplicemente lo spaventoso delirio di un pensatore da strapazzo, ma l’esito naturale del socialismo, secondo la prospettiva dostoevskiana. Un’ideologia che riduce tutto alla materia, riducendo l’essere umano a un oggetto, per Dostoevskij sfocia necessariamente nel dispotismo illimitato, come la distruzione nell’autodistruzione.
Šigalëv è l’unico membro della cinquina a non partecipare all’assassinio di Šatov, ad andarsene un attimo prima, e non per un improvviso lampo di umanità, ma perché ritiene l’omicidio dello studente soltanto una perdita di tempo, e lui, che conosce il giorno e l’ora esatta della distruzione del mondo, non ha neppure un minuto da perdere:
«Sin da ieri sera ho riflettuto su quest’impresa», attaccò, sicuro e metodico, come sempre (credo che, se anche gli si fosse spalancata la terra sotto i piedi, non per questo avrebbe forzato il tono, o avrebbe cambiato di uno iota la metodicità del suo discorso), «e dopo aver riflettuto, ho concluso che questo progettato assassinio equivale non soltanto a una perdita di tempo prezioso, ben altrimenti utilizzabile in modo più autentico e concreto, ma costituisce anche di per sé un esempio di quella perniciosa tendenza a deviare dalla strada maestra, tendenza che ha sempre nuociuto grandemente alla causa e ne ha ritardato il successo di decine d’anni, sottoposta com’è all’influenza di gente sconsiderata, principalmente di politici, in luogo di socialisti puri. Io sono venuto qui al solo scopo di protestare contro l’iniziativa intrapresa, ad edificazione generale, e, personalmente, di ritirarmi dall’attuale momento, che voi non so per quale motivo chiamate momento del pericolo, del vostro pericolo. Io mi allontano non per paura di questo pericolo né per sentimenti delicati nei confronti di Šatov, che non ho affatto intenzione di baciare, ma unicamente perché tutta questa impresa, dal principio alla fine, contraddice alla lettera il mio programma» (656-657).
Furioso, Pëtr Verchovenskij gli punta la rivoltella contro e lo appella con disprezzo «signor Fourier». Dopo aver puntualizzato di non avere niente a che fare con quel «dolce, astratto chiacchierone», Šigalëv, incurante della minaccia, se ne va, più cupo della notte.
NOTE
[1] Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Giovanni Buttafava, BUR, Milano 2006, p. 183. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[2] Fausto Malcovati, Premessa a Fëdor Dostoevskij, I demoni, in Id., Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 983. Per un approfondimento sul Grande Inquisitore rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso. Capitolo quinto – Ivàn, il nichilista estremo – V-VI.
[3] Per un approfondimento sul personaggio rimando al capitolo primo del presente contributo: Stepan e Pëtr Verchovenskij, padri e figli.