Fëdor Dostoevskij, «I demòni»: del male e della (auto)distruzione. Capitolo terzo

Capitolo terzo. Aleksej Kirillov, l’Uomo-Dio

I. Ingegnere civile di ventisette anni, Aleksej Kirillov è un uomo schivo, taciturno, tetro, quasi selvatico. Come Dostoevskij all’epoca della scrittura del romanzo, passa le notti sveglio, camminando nella sua stanza e bevendo tè. In uno stato di isolamento totale, che ricorda quello di Raskol’nikov prima del delitto [1], Kirillov è sprofondato nella sua teoria, incarnando forse meglio di ogni altro personaggio dei Demòni la definizione di «uomini d’idea» coniata da Bachtin: «non so gli altri, ma io sento di non poter fare come tutti. Tutti pensano a qualcosa, poi subito pensano ad altro. Io non posso pensare ad altro, io penso tutta la vita a una cosa sola» [2].

Filosofo del suicidio, Kirillov individua due cause, o meglio, due «pregiudizi» che trattengono gli uomini dal togliersi la vita. Il primo pregiudizio, molto piccolo, è rappresentato dal dolore; il secondo pregiudizio, molto grande, è rappresentato dall’aldilà. Secondo Kirillov ci «sarà piena libertà quando sarà indifferente vivere o non vivere» (161): è questo il vero fine, raggiunto il quale nessuno vorrà più vivere. Nelle condizioni attuali infatti la vita non è che dolore, non è che paura e l’uomo è infelice; la vita si concede solamente a prezzo di paura e di dolore; tutto è un inganno e questo uomo non è il vero uomo: «Verrà l’uomo nuovo, felice e superbo. E colui al quale sarà indifferente vivere o non vivere, quello sarà l’uomo nuovo. Colui che vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio. E non ci sarà più l’altro Dio (161-162). L’altro Dio, quello tradizionale, diciamo così, «è il dolore della paura della morte» e chi vincerà il dolore e la paura diventerà Dio – siamo al nocciolo della filosofia del suicidio di Kirillov. Allora sorgerà una nuova vita, un nuovo uomo, un nuovo mondo e la storia si dividerà in due parti: «dal gorilla alla distruzione di Dio, e dalla distruzione di Dio […] alla trasformazione fisica della terra e dell’uomo» (162). Chi ha il coraggio di uccidersi dimostra di aver scoperto il segreto dell’inganno ed è questa la libertà fondamentale, questo è tutto, più in là non c’è nulla. «Chi ha il coraggio di uccidersi», ovvero chi si uccide per uccidere la paura, «è Dio».

Spaventosamente solo, rinserrato a doppia, tripla mandata in se stesso, Kirillov viene divorato dalla sua idea, che si sforza disperatamente di tradurre in azione: «Per tutta la vita ho voluto che non fossero solo parole. Ho vissuto proprio perché volevo questo, sempre. Anche adesso ogni giorno, voglio che non siano solo parole» (670). Kirillov non si limita a fare professione di nichilismo, la sua natura radicale, opposta alla natura tiepida di Stavrogin [3], che ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo di questa filosofia del suicidio, glielo impedisce ed egli è costretto a mettere in pratica la sua idea, con la convinzione folle di apportare un beneficio straordinario all’umanità. Come il principe Myškin [4], anche Kirillov, ricorrendo a un’espressione di Michelstadter, si contraddistingue per il «coraggio dell’impossibile» [5], sebbene in un senso diametralmente opposto rispetto al protagonista dell’Idiota, completamente negativo – non a caso entrambi i personaggi soffrono di epilessia e, dall’esperienza della malattia, traggono quella teoria dell’attimo miracoloso, precedente l’attacco epilettico, quell’utopia del momento che rappresenta uno degli esiti più singolari della riflessione dostoevskiana:

Ci sono degli attimi, cinque o sei secondi ogni volta, nei quali si avverte la presenza dell’eterna armonia, perfettamente raggiunta. È qualcosa di non terreno; non voglio dire che sia qualcosa di celeste, è qualcosa che l’uomo nel suo aspetto terreno non può sopportare. Ci si deve trasformare fisicamente oppure morire. È un sentimento limpido e inequivocabile. È come se d’un tratto si sentisse tutta la natura, e improvvisamente si esclama: sì, questa è la verità. Dio, quando creò il mondo, alla fine di ogni giorno della creazione disse: “Sì, questa è la verità, questo è buono”. Non è… non è commozione, è qualcosa di più semplice, è gioia. Non si perdona nulla, perché non c’è più nulla da perdonare. E non si ama, oh no, si è più in alto dell’amore! La cosa più terribile è questa tremenda limpidezza unita a una simile gioia. Se durasse più di cinque secondi l’anima non potrebbe sopportarlo, sarebbe costretta a scomparire. In quei cinque secondi io vivo un’intera esistenza e per quei cinque secondi sono pronto a dare tutta la mia vita, perché ne vale la pena. Per sopportarlo per dieci secondi, bisogna trasformarsi fisicamente. Io penso che l’uomo deve smettere di generare. A che scopo i figli, a che scopo il progresso, se il fine è già raggiunto? (645-646).

II. Per Kirillov, molto semplicemente, la vita esiste, mentre la morte non esiste. Kirillov crede nella «vita eterna presente» e la sua massima speranza è giungere a quel momento meraviglioso, legato all’esperienza della malattia, in cui «il tempo improvvisamente si ferma per esistere eternamente» (284). Tutto dipende dalla felicità: quando l’uomo raggiungerà la felicità il tempo non esisterà più, perché il tempo è soltanto un’idea e si spegnerà nella mente. Per Kirillov tutto è bello, tutto, e l’uomo è infelice unicamente perché non sa di essere felice, solo per questo, e chi riuscirà a capirlo diventerà felice, immediatamente. Tutto è bello e tutto è bene: «Tutto è bene per colui che sa che tutto è bene. Se sapessero di star bene, starebbero bene, ma finché non sapranno di star bene, non staranno bene. Ecco tutta l’idea, tutta, non ce n’è nessun’altra!» (285). La stessa cosa vale per la bontà: l’uomo non è buono perché non sa di essere buono; quando gli uomini lo sapranno diventeranno buoni, tutti, dal primo all’ultimo, e colui «che insegnerà che tutti sono buoni, terminerà il mondo»: egli verrà e il suo nome è Uomo-Dio.

III. Dio è necessario, quindi deve esistere, ma Kirillov sa che non esiste, che non può esistere: una contraddizione che lo schiaccia e gli impedisce di continuare a vivere. Per Kirillov Dio non esiste, dunque tutto è per sua volontà ed egli si sente costretto ad affermare il libro arbitrio nella sua massima manifestazione ovvero il suicidio: «Sono obbligato a spararmi, perché la massima manifestazione del mio libero arbitrio è uccidere me stesso» (672). Per Kirillov non c’è idea più grande dell’inesistenza di Dio ed egli si ritiene il primo uomo nella storia del mondo a non aver inventato Dio, perché tutto il senso della storia consiste nell’invenzione di Dio come ragione per vivere senza uccidersi. Ma, nonostante questa estrema teoria nichilistica, Kirillov riconosce l’ineguagliabile grandezza di Cristo, sebbene solo del Cristo figlio dell’uomo, naturalmente: «quell’uomo era il più grande che mai fu al mondo, diede al mondo una ragione di vita. Tutto il pianeta, con tutto quello che c’è sopra, senza quell’uomo, è pura follia. Non c’è stato prima, e non c’è stato dopo un uomo come quello, mai, ha persino del miracoloso. È davvero un miracolo che non ci sia mai stato e che non ci sarà mai uno come Lui» (673). Ma se le spietate, feroci leggi di natura «non hanno risparmiato neanche il proprio miracolo», e si pensi al terribile Cristo morto di Hans Holbein il Giovane, argomento di discussione nell’Idiota, «ne deriva che tutto il pianeta è menzogna e si regge sulla menzogna, su una stupida presa in giro. Quindi anche le leggi del pianeta sono menzogna, sono un diabolico vaudeville. Perché allora vivere […]?» (674). Nella sofferenza fisica di Cristo, nell’accanimento feroce della natura sul corpo del proprio miracolo, Kirillov vede una prova fondamentale a sostegno della sua filosofia del suicidio. Kirillov che, a un passo ormai dalla morte, confessa di essere infelice e di avere paura, di essere infelice perché ha una terribile paura. Eppure non si tira indietro, afferma lo stesso il libero arbitrio, obbligato, dopo aver scoperto la menzogna, a credere di non credere: «Io comincerò, io finirò, aprirò una porta. E salverò» (ibidem). Naturalmente il suicidio di Kirillov non produce nessun cambiamento nella storia dell’uomo, non salva nessuno, riducendosi al «tragico sogno di una disperata solitudine, di una disperata assenza di amore, di una categorica volontà di autodistruzione» [6].

IV. Kirillov è un ateo, un nichilista, un suicida, ovvero quanto di più negativo e cupo nella prospettiva cristiana di Dostoevskij, ma conserva bagliori di luce: al contrario di Pëtr Verchovenskij [7], che lo costringe ad assumersi la responsabilità dell’assassinio di Šatov prima del suicidio, non è un povero di spirito, non è un mascalzone; al contrario di Stavrogin, suo funesto demiurgo, è un uomo generoso che non conosce tepidezza; comprende la grandezza di Cristo e dell’attimo che precede l’attacco epilettico. Insomma, Kirillov è la dimostrazione che «l’ateismo totale è più rispettabile dell’indifferenza mondana», come dichiara Tichon, che l’«ateo assoluto […] è pur sempre sul penultimo scalino in alto prima della perfettissima fede […] mentre l’indifferente non ha più nessuna fede all’infuori di una paura nera» (746). Se Kirillov avesse conosciuto l’amore, se avesse avuto accanto a sé una Sonja, come Raskol’nikov, sarebbe senz’altro resuscitato, consacrando la propria esistenza a Cristo: «Kirillov! Se… Se voi riusciste a rinnegare le vostre orribili fantasie, ad abbandonare il vostro delirio ateo… ah, che uomo potreste essere, Kirillov!» (626). Ma nessuno si salva da solo, mai, e il suicidio di Kirillov è il tristissimo dramma di un uomo privato del conforto dell’altro, di quell’amore che solo può resuscitare persino un duplice omicida come Raskol’nikov.

NOTE

[1] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Delitto e castigo»: la resurrezione di Raskol’nikov. Prima parteSeconda parteTerza parteEpilogo.

[2] Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Giovanni Buttafava, BUR, Milano 2006, p. 162-163. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[3] Per un approfondimento sul protagonista dei Demòni rimando al capitolo secondo del presente contributo: Nikolaj Stavrogin, «Tutto».

[4] Per un approfondimento sul personaggio e il romanzo di cui è protagonista rimando al contributo Il sovversivo «Idiota» di Dostoevskij. Prima parte, Seconda parte.

[5] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 82.

[6] Fausto Malcovati, Premessa a Fëdor Dostoevskij, I demoni, in Id., Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 983.

[7] Per un approfondimento sul personaggio rimando al capitolo primo del presente contributo: Stepan e Pëtr Verchovenskij, padri e figli.

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