Fëdor Dostoevskij, «I demòni»: del male e della (auto)distruzione. Capitolo secondo

Capitolo secondo. Nikolaj Stavrogin, «Tutto»

I. Nikolaj Stavrogin, scrive Dostoevskij in un appunto, «è Tutto». «Se ogni romanzo è un universo, egli è il centro di questo universo: il sole verso cui guardano i personaggi, il punto al quale fanno capo Šatov e Kirillov, Verchovenskij e Lebjadkin, Varvara Petrovna, Daša, Marja Lebjadkina, Liza, la moglie di Šatov, che non sembrano di possedere nessun’altra ragione di vita. Come Dio o il demiurgo, egli li ha creati dal nulla. Le idee che ci espongono con voce rabbiosa e frenetica sono state, una volta, le sue idee: le loro parole sono state le sue parole, ognuno di essi è qualcosa che Stavrogin ha proiettato fuori di sé, con un gesto di noncuranza e di indifferenza sovrana» [1]. Stavrogin ha insegnato a Šatov «il segreto della sapienza: se un giorno ci dimostrassero matematicamente che la verità è lontana dal Cristo, “dovremmo restare insieme al Cristo, e non insieme alla verità”»; ha convinto Kirillov che «quando ognuno di noi sarà pronto a uccidersi, Dio morirà, il tempo si arresterà, il regno dell’uomo scenderà sulla terra, e conosceremo finalmente la bellezza del mondo»; anche Pëtr Verchovenskij «è soltanto una caricatura di una parte della sua anima, dove si nasconde un “turpe sguattero di cucina”» [2]. Dotato di una forza sconfinata, Stavrogin emana un fascino irresistibile e funesto: «gli uomini e le donne che subiscono la sua influenza si perdono, si uccidono o sono uccisi, vengono comunque risucchiati dal malefico gorgo del suo fascino indifferente» [3]. Stavrogin sparge attorno a sé male e distruzione, «la sigla di ogni suo atto, di ogni suo rapporto» [4], configurandosi come «la più tenebrosa incarnazione del “sottosuolo” che sia uscita dalla penna di Dostoevskij» [5] – non a caso Nietzsche vide in lui la massima e più autentica rappresentazione del nichilista. Stavrogin rappresenta il male, la distruzione, il nulla nella sua forma primigenia, ancestrale, dunque più terribile: egli «profana, oltraggia, corrompe senza grandiosità, senza slancio» [6], con divina indifferenza. Alla base della sua condotta scellerata non c’è un pensiero, un’idea, egli non è un teorico del nulla come Ivan Karamazov [7], ma una «natura tenebrosa», come scrive Dostoevskij a Katkov, ed è questo che fa più spavento: la totale gratuità dei suoi misfatti e l’imperturbabile distacco con il quale li compie. Tutto ciò fa di Stavrogin uno dei personaggi più cupi della storia della letteratura, che definire malvagio probabilmente non sarebbe corretto, perché egli nasce, ancor prima di vivere, al di là del bene e del male, concetti di cui ignora completamente il significato.

II. In giovinezza Stavrogin si distingue per una «selvaggia sfrenatezza»: «duellante di professione», attacca briga e offende per il puro gusto di litigare e insolentire. Sostiene quasi contemporaneamente due duelli, uccidendo e mutilando i suoi avversari. Processato e degradato a soldato semplice, privato di tutti i diritti e spedito al confino in un reggimento di fanteria di linea, riesce a distinguersi e a ottenere una croce al merito, che gli vale la promozione prima a sottufficiale e poi a ufficiale. A questo punto Stavrogin si congeda e, a Pietroburgo, stringe rapporti con la feccia cittadina, insinuandosi nei bassifondi della città e circondandosi di impiegatucci scalcagnati, di militari a riposo che vivono di elemosina, di ubriaconi. Ma Stavrogin ha la straordinaria capacità di restare fisicamente immacolato nonostante le bestialità. La sua bellezza abbagliante resta intatta e in società egli appare elegante e raffinato, discretamente colto, persino assennato. Ciò che colpisce di più è il suo volto, bello e al tempo stesso ripugnante, che ricorda una maschera (aspetti che accomunano Stavrogin a Svidrigajlov [8], il personaggio di Dostoevskij cui assomiglia di più): «aveva capelli fin troppo neri, occhi chiari fin troppo tranquilli e sereni, colorito fin troppo delicato e bianco, con un rossore fin troppo vivido, denti come perle, labbra come coralli, sembrava il tipico bell’uomo, e nello stesso tempo aveva qualcosa di ripugnante. Dicevano che il suo viso ricordava una maschera» [9]. Il volto di Stavrogin è così perfetto da apparire artificiale. La madre lo guarda con orgoglio, fiera di tanta bellezza ed eleganza, ma anche con inquietudine e timore: «aveva paura di qualcosa di indistinto, di misterioso, di qualcosa che lei stessa non poteva spiegare» (91). Con il suo istinto di madre, Varvara Petrovna percepisce la sinistra straordinarietà del figlio, ma senza osare contrastarla: donna orgogliosa e forte, di carattere, al cospetto di Nicolas china il capo, come tutti.

III. Stavrogin non conosce la paura. In un duello è capace di restare immobile e impavido sotto il fuoco dell’avversario, per poi prendere la mira e uccidere con una tranquillità feroce. Se qualcuno lo schiaffeggiasse, non sfiderebbe a duello l’offensore, ma lo ammazzerebbe sul posto, a mani nude, in piena coscienza, perfettamente consapevole delle conseguenze, della condanna ai lavori forzati. Nell’ira non perde mai la testa, anche nella collera smisurata conserva il pieno dominio di sé. Stavrogin cerca il pericolo, provoca, offende, si batte, ma senza entusiasmo, «senza nessuna sensazione di piacere, unicamente per una sgradevole necessità, fiaccamente, pigramente, persino con noia» (252). Egli non prova che rabbia, ma una rabbia «fredda, tranquilla, e, se così si può dire, ragionata, quindi la più disgustosa e terribile che ci possa essere» (ibidem). Eppure, quando Šatov lo colpisce con un pugno in pieno volto, davanti a tutti, facendolo barcollare, Stavrogin non reagisce, reprime il suo istinto bestiale di reazione, non muove un dito, ritira le braccia dietro la schiena e osserva il suo aggressore con occhi freddi e calmi. Questo perché quattro anni dopo il suo primo soggiorno in provincia, Stavrogin è un uomo diverso, completamente svuotato ed esaurito, «un nulla profondissimo e senza confini» [10]. Lo dimostra, tra le altre cose, il suo modo innaturale di dormire, seduto, perfettamente immobile, come un oggetto inanimato, come un cadavere:

Sembrò colpita dall’idea che Nicolas si fosse addormentato così in fretta, che potesse dormire in quel modo, standosene semplicemente seduto, senza il più piccolo movimento; perfino il respiro quasi non si avvertiva. Il suo viso era pallido e severo, ma stranamente raggelato, completamente inerte; le sopracciglia un po’ aggrottate e corrugate; assomigliava in tutto e per tutto a una morta figura di cera. Varvara Petrovna rimase in piedi davanti a lui per qualche minuto, respirando appena, e d’un tratto fu presa dalla paura; uscì in punta di piedi, si fermò sulla porta, gli fece in fretta il segno della croce e si allontanò senza farsi notare, con una nuova potente sensazione, con una nuova angoscia (276).

Non un solo muscolo del suo volto si muove, non un solo brivido gli percorre il corpo, le sopracciglia restano sempre aggrottate, nello stesso modo severo: un’«inerzia letargica», da maschera mortuaria, che terrorizza la madre.

IV. Amleto privo della salutare compagnia di un Orazio, che avrebbe potuto salvarlo dal «demone dell’ironia», animato da un’«insaziata brama del contrasto», secondo il giudizio di Varvara Petrovna, Stavrogin non trova una differenza di bellezza tra un atto di animalesca lussuria e una grande impresa; in entrambi gli estremi trova una coincidenza di bellezza, un’identità di piacere. Stavrogin non si accontenta di camminare sull’orlo del precipizio, ma vi si getta a capofitto, e questo atteggiamento provocatorio e autodistruttivo spiega il suo incredibile matrimonio con Mar’ja Timofeevna: «Vi siete sposato per amore del martirio, per amore della coscienza straziata, per lussuria morale. […] La sfida al buon senso era davvero troppo seducente! Stavrogin e una zoppa, stecchita, deficiente, miserabile!» (302).

Stavrogin provoca, dissacra, uccide, violenta e, al tempo stesso, è capace di concepire idee luminose, grandiose, imponendosi come il portavoce di concetti fondamentali del pensiero dostoevskiano: Stavrogin insegna a Šatov, resuscitandolo così dal mondo dei morti, che l’unico popolo portatore di Dio, chiamato a rinnovare e salvare il mondo, l’unico che possieda le chiavi della vita e del nuovo verbo, è il popolo russo (il cosiddetto messianismo russo di Dostoevskij); attacca il cattolicesimo romano, accusandolo di proclamare un Cristo che ha ceduto alla terza tentazione del diavolo, ovvero l’Anticristo, conducendo alla rovina l’intero occidente; arriva persino ad annunciare il celebre Credo di Dostoevskij, esposto dallo scrittore nella famosa lettera alla Fonvizina del 1854 [11]: «Ma non siete stato voi a dirmi che, se vi dimostrassero matematicamente che la verità è al di fuori del Cristo, voi avreste preferito restare col Cristo, piuttosto che con la verità?» (296). Questa incredibile, violenta mescolanza di bene e male dimostra proprio il naturale posizionamento di Stavrogin al di là del bene e del male, nella regione più profonda, umida e oscura del sottosuolo dostoevskiano.

Šatov, legato a Stavrogin da un sentimento di devozione morbosa, incapace di strapparlo dal suo cuore nonostante i crimini, lo esorta a inchinarsi, a baciare la terra, a inondarla di lacrime, a chiedere perdono, lo esorta a conquistare Dio con il lavoro del contadino per non scomparire «come volgare muffa». Stavrogin potrebbe contare anche sulla sorella di Šatov, Daša, che gli si offre umilmente come appiglio, come fa Sonja con Raskol’nikov, ma, al contrario del protagonista di Delitto e castigo, Stavrogin non conosce amore e rifiuta l’aiuto dell’unica donna disposta ad amarlo nonostante tutto, dell’unica creatura umana disposta a farsi carico del suo dolore. Indifferente, distaccato, impassibile, vuoto, giunto ormai al termine della sua scandalosa parabola esistenziale, Stavrogin cerca un carico, come nota acutamente Kirillov, un carico enorme, che nessun uomo potrebbe sopportare – l’ultimo, estremo espediente che gli resta per sentirsi ancora vivo. Per questo motivo segue il consiglio di Šatov e si reca in monastero dall’ex vescovo Tichon.

V. Stavrogin confessa a Tichon di soffrire di allucinazioni, soprattutto di notte, di vedere o sentire accanto a sé «un essere maligno, beffardo e “ragionevole”» (l’allucinazione è un elemento che caratterizza molti personaggi negativi di Dostoevskij, come Svidrigajlov e Ivan Karamazov, quasi a dimostrazione dell’insostenibilità cerebrale del male), e domanda all’ex vescovo di recitare il seguente passo dell’Apocalisse: «E all’Angelo della chiesa di Laodicea scrivi: Ecco quello che dice l’Amen, il testimone fedele e verace, il principio con cui Dio operò la creazione: conosco le tue opere; tu non sei né freddo, né caldo; oh, fossi almeno o freddo o caldo! Ma perché sei tiepido e né freddo né caldo, Io sto per vomitarti dalla Mia bocca. Tu vai dicendo: Io sono ricco, dovizioso, non mi manca niente; e non sai d’esser meschino, miserabile, povero, cieco, nudo…» (747). Questo passo dell’Apocalisse rappresenta un’efficace descrizione di Stavrogin, racchiude il senso del suo personaggio: la tepidezza è il suo tratto caratteristico, al quale egli tenta di ribellarsi, ma senza successo. «Vi ha colpito il fatto», commenta Tichon, «che l’Agnello ami più l’uomo freddo, di quello soltanto tiepido […] Voi non avete voluto essere soltanto tiepido» (748). Ma la volontà di Stavrogin si infrange contro la sua stessa natura, irreversibilmente tiepida, distaccata, fiacca, impassibile, incompatibile con la vita.

Stavrogin consegna a Tichon la sua confessione, che intende pubblicare – ecco il carico -, «una testimonianza morbosa, la testimonianza del demone che s’era impadronito di quest’uomo». La confessione esprime «il terribile, aperto bisogno di un castigo, il bisogno di una croce, di un pubblico supplizio. E nello stesso tempo questo bisogno di una croce si manifesta in un uomo che non crede nella croce» (749). A causa della sua natura tiepida Stavrogin è condannato, suo malgrado, a non credere  – «Stavrogin se crede, non crede di credere. E se non crede, non crede di non credere» (671) -, e anche questo bisogno di sofferenza si riduce a una scandalosa provocazione, a una violenta sfida alla società.

A guisa di introduzione, Stavrogin spiega come ogni situazione abbietta, infamante, vile, ridicola abbia sempre suscitato in lui, «accanto a una sterminata rabbia, un incredibile godimento»: la «straziante coscienza» della sua bassezza lo inebria. Così quando si trova faccia a faccia con il suo avversario in un duello, oppure quando riceve uno schiaffo: «Se si riesce a contenere la collera, la voluttà che se ne ricava supera ogni possibile immaginazione» (752). Stavrogin ci tiene a precisare che in simili circostanze non ha mai perso il dominio di se stesso, anzi, tutto si fonda proprio sulla consapevolezza, e non cerca giustificazioni per i suoi delitti, secondo quell’impulso all’auto-flagellazione proprio dell’uomo del sottosuolo. Dopo queste considerazioni preliminari, Stavrogin confessa il suo peccato più orribile, già commesso da Svidrigajlov, suo oscuro progenitore: l’abuso di una bambina, Matrëša, che non sopporta il peso della colpa, della vergogna e si uccide, dopo aver ucciso Dio, come sussurra nel delirio. Matrëša, prima di togliersi la vita, trova la forza di rimproverare il suo carnefice, ma senza dire nulla, agitando semplicemente il suo piccolo pugno, mentre il visino emaciato esprime «una disperazione inaudita, quale era impossibile immaginare in una bambina». Stavrogin sa tutto, sente Matrëša entrare nello sgabuzzino e impiccarsi, ma non muove un dito, anzi, prova persino gioia per essersi liberato della sua pericolosa vittima, consapevole però che dopo quel fatto «non sarei mai più stato nobile, né qui, né dopo la morte, né mai». Per la prima volta, Stavrogin formula un giudizio preciso su se stesso: «non conosco e non sento il male e il bene, e non perché ne abbia perso la sensazione; il male e il bene non esistono […], sono solo pregiudizi; io posso esser libero da ogni pregiudizio ma, se raggiungerò questa libertà, sarò perduto» (762). Dopo il suicidio della bambina da lui violata e la consapevolezza di trovarsi al di là del bene e del male, a Stavrogin, particolarmente rabbioso, viene l’idea di «storpiare» in qualche modo la sua vita, pubblicamente, e lo fa sposando Mar’ja Timofeevna: «Il pensiero del matrimonio di Stavrogin con l’ultimo degli esseri umani eccitava i miei nervi. Non si poteva immaginare niente di più orrendo» (763).

Stavrogin descrive un suo sogno, il sogno dell’età dell’oro, ispirato alla tela di Lorrain Aci e Galatea (un sogno ricorrente in Dostoevskij, fatto anche da Versilov nell’Adolescente [12] e il cui tema si trova alla base del racconto Il sogno di un uomo ridicolo [13]). Dopo aver ammirato questa dimensione ideale dell’esistenza umana, questo paradiso terrestre cui l’uomo ha dedicato tutte le sue forze, Stavrogin si sveglia con gli occhi umidi di lacrime, per la prima volta nella sua vita. Stavrogin piange, è felice e non prova vergogna: «Una sensazione di felicità per me ancora sconosciuta attraversò tutto il mio cuore, fino a farmi male» (765). Ma il sogno si rovescia presto nell’incubo e a Stavrogin appare la piccola Matrëša, dimagrata e con gli occhi febbricitanti, il pugno minuscolo alzato contro il suo carnefice, come l’ultima volta: un’immagine che Stavrogin non riesce a sopportare. Non gli rincresce del delitto, della bambina, della sua morte, ma di quell’unico momento, della minaccia e del rimprovero muto, che da quel giorno gli appare quotidianamente e gli ricorda la sua condanna definitiva. E Stavrogin si rifiuta di cancellare quel terribile ricordo – non lo cancellerà mai, pur avendo in sé la forza di farlo.

Stavrogin vuole pubblicare la sua confessione perché tutti lo guardino: è l’ultimo, estremo espediente che gli resta per sentirsi ancora vivo, per sollevarsi da questo stato di inerzia che lo consuma lentamente. Stavrogin invoca su di sé il castigo, ma senza comprende il significato del castigo, come rileva puntualmente Tichon dopo la lettura del documento:

Questo documento viene direttamente da un bisogno del cuore, di un cuore mortalmente ferito, se ben capisco […]. Sì, è il pentimento, è il naturale bisogno di pentimento che vi ha vinto. E voi vi siete incamminato su un grande cammino, su un cammino inaudito. Ma si ha l’impressione che voi odiate già in anticipo tutti coloro che leggeranno il fatto qui descritto, e che li sfidiate a battaglia. Se non vi vergognate di confessare il delitto, perché vi vergognate del pentimento? “Mi guardino pure”, voi dite, ma voi come guarderete loro? Alcuni passi del vostro racconto sono potenziati dalla forza dello stile; sembra che ammiriate molto la vostra psicologia e che vi vantiate di ogni sottigliezza al solo scopo di stupire il lettore con un’insensibilità che forse in voi non esiste. Cos’è, se non un’orgogliosa sfida di un colpevole al giudice? (769-770).

Tichon centra il punto: la decisione di Stavrogin di pubblicare la sua scandalosa confessione non nasce da una sincera contrizione, dal pentimento e dal desiderio di pagare per i terribili peccati commessi, ma dalla volontà di sfidare per l’ennesima volta il mondo intero, e nel modo più forte, come confessa lo stesso protagonista: «Li costringerò a odiarmi di più. Così starò meglio io». Ovvero, spiega Tichon: «il loro odio provocherà il vostro e voi troverete maggior sollievo odiandoli, che accettando la loro compassione!» (771). Per accettare la compassione degli uomini bisogna saper amare, cosa di cui Stavrogin non è assolutamente capace, perché al di là del mero desiderio non esiste niente per lui, e così egli cerca conforto nell’odio, un odio sconfinato, contro tutti. Ma nei lettori della confessione non sorgerà solo odio, sorgerà anche scherno, secondo l’esatta previsione dell’ex vescovo: «Tutti mostreranno orrore, e, naturalmente, più simulato che vero. Gli uomini hanno paura soltanto di quello che minaccia direttamente i loro interessi personali. Non parlo delle anime pure: esse inorridiranno fra sé e accuseranno se stesse, ma non si noteranno. Tutti cominceranno presto a schernirvi. E aggiungete l’osservazione di un pensatore, che nella disgrazia altrui c’è sempre qualcosa di piacevole» (773). Stavrogin può vincere solo se sarà capace di accogliere sinceramente lo scherno e gli sputi degli uomini: solo così, e solo se è sincera l’umiltà della sua decisione, può rendere la sua croce infamante «una grande gloria e una immensa forza». Il castigo offre a Stavrogin, come a Raskol’nikov, la possibilità di diventare un vero sole, luminoso e splendente, ma il protagonista non è pronto a sostenere una simile croce e Tichon, alla fine del colloquio, gli predice un destino tragico: «un giorno prima della pubblicazione, forse un’ora prima del grande passo, tu ti lancerai in un nuovo delitto, come in una via di uscita, e lo compirai unicamente per sfuggire alla pubblicazione di questi fogli, sulla quale ora tu insisti tanto» (777). Tichon annuncia, di fatto, il suicidio di Stavrogin, che rappresenta il naturale epilogo della sua esistenza dissennata e dei Demòni, l’universo di cui egli è il centro vuoto.

VI. Stavrogin si aggrappa a Liza, che si compromette pubblicamente fuggendo da lui. È lo stesso protagonista, sorprendentemente, a dichiarare alla giovane che lei rappresenta la sua ultima speranza di resurrezione: «Tormentami, straziami, sfoga su di me la tua rabbia […] Ne hai pieno diritto! Io sapevo che non ti amavo e ti ho rovinato. Sì, “mi sono lasciato sfuggire il momento”; ma avevo una speranza… da molto tempo ormai… un’ultima speranza… Non ho potuto resistere alla luce che ha illuminato il mio cuore, quando ieri sei venuta da me, proprio te, sola, per prima. Improvvisamente ho cominciato a credere… Forse ci credo ancora adesso» (578). Flebili bagliori d’umanità, destinati però a spegnersi presto. Liza infatti fugge da Stavrogin, per sempre, quando il protagonista confessa la sua responsabilità nel brutale assassinio di Mar’ja Timofeevna: «Io non ho ucciso ed ero contrario, ma sapevo che li avrebbero uccisi e non ho fermato gli assassini» (586). Anche in questo caso Stavrogin resta immobile, non impedisce il delitto, come nel caso del suicidio di Matrëša, e il suo colpevole immobilismo produce morte e distruzione. Inorridita, Liza fugge da Stavrogin e si reca sul luogo del delitto, dove viene linciata dalla folla sdegnata e inferocita: «Non si accontentano di uccidere, vengono anche a vedere!». L’ennesima morte da imputare a Stavrogin.

VII. Prima di uccidersi, Stavrogin scrive a Daša, l’unica donna che, con la sua sconfinata pietà, avrebbe potuto salvarlo. In questo prezioso documento il protagonista confessa di non aver mai saputo come impegnare la sua illimitata forza ed evidenzia ancora una volta il tratto caratteristico della sua natura, la tepidezza: «Sempre, come prima, anche ora posso desiderare di fare il bene e ne ricavo piacere; ma parallelamente desidero anche il male e anche nel male provo piacere. Ma l’uno e l’altro sentimento, proprio come una volta, sono sempre troppo meschini, e non sono mai molto forti. I miei desideri sono troppo deboli; non possono dominare. Si può guadare un fiume su una trave, non su una scheggia» (732). E ancora: «da me è uscita soltanto una negazione, senza nessuna magnanimità, senza nessuna forza. Anzi non è uscita neanche la negazione. Tutto è sempre stato meschino e appassito» (733). Stavrogin sente il dovere di uccidersi, ma il suicidio richiede generosità, come nel caso di Kirillov, ed egli non prova generosità, perché non prova niente: «So che sarebbe anche questo un inganno, l’ultimo inganno nella lunga serie degli inganni. Che vantaggio ci sarebbe a ingannare se stesso, solo per recitare il ruolo del generoso? In me non ci potranno mai essere indignazione e vergogna; quindi, neanche disperazione» (ibidem). Stavrogin non prova rimorso, non prova vergogna e neppure disperazione, è perfettamente vuoto, al di là del bene e del male, al di là della vita e della morte, in una dimensione sospesa che coincide con il nulla. Eppure si uccide, perché per Dostoevskij il suicidio è l’epilogo inevitabile di simili esistenze dispersive che non hanno fatto altro che spargere dolore e distruzione. Stavrogin deve morire, e deve essere lui stesso a uccidersi, sebbene la sua natura tiepida non contempli un tale slancio di generosità; in conclusione del romanzo il centro dei Demòni deve disperdersi, sprofondare definitivamente, completamente nel nulla: solo così la liberazione dagli ossessi diventa possibile. Nella prospettiva di Dostoevskij la distruzione sfocia necessariamente nell’autodistruzione, e questo vale soprattutto per Stavrogin, che incarna la distruzione nella sua forma primigenia, ancestrale ovvero fine a se stessa, senza scopo, senza slancio, senza piacere. Un elemento quest’ultimo, la totale assenza di piacere, di compiacimento, che potrebbe attenuare la portata negativa del personaggio, e che invece lo rende ancor più spaventoso, collocandolo sulla sommità dell’umanità nera creata da Dostoevskij, dunque nel punto più profondo, buio e umido del sottosuolo.

NOTE

[1] Pietro Citati, Introduzione a Fëdor Dostoevskij, I demoni, BUR, Milano 2006, pp. 9-10.

[2] Ivi, p. 10.

[3] Fausto Malcovati, Premessa a Fëdor Dostoevskij, I demoni, in Id., Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 981.

[4] Ibidem.

[5] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, p. 97.

[6] Fausto Malcovati, Premessa, cit., p. 981.

[7] Per un approfondimento sul personaggio rimando al capitolo quinto dello studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso: Ivàn, il nichilista estremo – I-IV, V-VI, VII-IX.

[8] Per un approfondimento sul personaggio e il romanzo in cui compare rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Delitto e castigo»: la resurrezione di Raskol’nikov. Prima parte, Seconda parte, Terza parte, Epilogo.

[9] Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Giovanni Buttafava, BUR, Milano 2006, p. 89. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[10] Pietro Citati, Introduzione, cit., p. 10.

[11] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, p. 51.

[12] Per un approfondimento sul personaggio rimando al capitolo terzo dello studio Personaggi e temi dell’«Adolescente» di Dostoevskij: Versilov, l’«uomo libresco».

[13] Per un approfondimento sul racconto rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Il sogno di un uomo ridicolo»: dal suicidio alla Verità.

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