Il sovversivo «Idiota» di Dostoevskij. Seconda parte

IV. Rogožin è l’antitesi del principe Myškin. Mentre quest’ultimo è animato dalla pietà, Rogožin, eccessivo in tutto, è animato da una passione morbosa e violenta, acuita dalla totale assenza di fede, che sfocia infine nel delitto. Myškin ama Nastas’ja di un amore pietoso, puro, disinteressato, spassionato, Rogožin invece la ama con una furia tale da non riuscire a fare a meno di odiarla – della pietà non sente neppure l’ombra. I due personaggi rappresentano i poli opposti, estremi del pensiero dostoevskiano, Cristo e il sottosuolo [1], quest’ultimo nella sua variante violentemente passionale, ed è emblematico che alla figura di Rogožin sia associata la più terribile rappresentazione artistica di Cristo, ovvero il Cristo morto di Hans Holbein il Giovane. Dinanzi a questo dipinto spaventoso, dal «realismo spietato», che raffigura, attraverso la riduzione di Cristo alla sua dimensione corporea, materiale, finita, tutta la ferocia delle leggi della natura, mettendo in dubbio il miracolo della resurrezione, «c’è da perdere ogni fede», nota acutamente Myškin. «E infatti si perde» [2], conferma Rogožin, che nel brutale accanimento della natura sul corpo di Cristo trova una sorta di giustificazione al proprio vuoto di fede e alla sua incapacità di colmarlo.

A Rogožin manca la caratteristica più importante del cuore russo, il «sentimento religioso», e questa mancanza, questa sorta di mutilazione spirituale, che egli, stando all’amico-rivale Myškin, vive come una tortura e tenta di colmare a ogni costo, ma senza riuscirci, segna la sua condanna definitiva «al passionale mondo della tenebra» [3], oscura regione del sottosuolo in cui tutto è ridotto al corpo, alla materia e l’amore degenera in odio e violenza.

V. Nastas’ja è la «commovente e addirittura straziante» [4] protagonista femminile dell’Idiota. Compromessa da un uomo tanto ricco quanto pavido, Nastas’ja è una donna socialmente perduta, in cui l’orgoglio smisurato e un disprezzo che rasenta l’odio, rendendola spesso cinica, insolente e crudele, convivono con la semplicità, la fiducia, persino l’ingenuità. Uno strano contrasto, che rivela la sua natura intimamente lacerata, costantemente sospesa tra l’amore e l’odio, tra la bontà e la crudeltà, tra la fiducia e la disperazione, tra la vita – Myškin – e quell’impulso autodistruttivo – Rogožin – che alla fine prevarrà su tutto il resto.

Se il volto di Myškin, dallo sguardo dolce ma segnato dalla malattia, è il volto della pietà, il volto di Nastas’ja, bellissimo – la sua proverbiale bellezza «è la forza che può cambiare il mondo» -, con quelle «lunghe ciglia umide di lacrime lucenti», è il volto della sofferenza. Un volto che ricorda quello di Cristo durante la Passione (penso al Cristo coronato di spine di Beato Angelico, o al Cristo alla colonna di Donato Bramante) e che persino il principe, nonostante la sua sconfinata pietà, fatica a sostenere.

Con i suoi occhi liberi dai pregiudizi, dai luoghi comuni, dunque spalancati sulla sostanza delle cose, Myškin è l’unico a vedere in Nastas’ja una creatura sofferente, non «una cosa da vendere e da comprare», come si è sempre sentita la donna, l’unico a notare in lei, sotto l’abbagliante e provocatoria corazza, qualcosa di più forte e profondo. Nastas’ja, da parte sua, è l’unica a vedere in Myškin non un idiota, come lo etichettano tutti in società, ma una miracolosa incarnazione della bellezza, innamorandosene. Il principe si propone di salvarla, di sottrarla al suo destino tragico, annunciato già nelle prime pagine del romanzo, ma fallisce, perché in Nastas’ja la paura di rovinare una «natura umana pienamente bella» e l’impulso autodistruttivo prevalgono sull’amore e la vita.

VI. Con la sua pietà, con la sua nobile semplicità, con la sua fiducia illimitata nel genere umano, con la sua fede incondizionata nel Cristo russo, cui affida la salvezza del mondo contro le minacce incombenti dell’ateismo e del socialismo, il principe Myškin non è meno sovversivo dei nichilisti e degli anarchici dostoevskiani. Egli è una sorta di rivoluzionario bianco, che mette in crisi l’intero sistema sociale ricorrendo alle armi della compassione, dell’amore, della dolcezza, della sincerità. Ma, al contrario dei nichilisti e degli anarchici di Dostoevskij, e si pensi a Stavrogin e Ivan Karamazov, i due più tenebrosi rappresentanti del sottosuolo, i due più estremi profeti del nulla [5], Myškin non viene capito (la società lo accoglie solo per la sua improvvisa fortuna, ma non lo comprende, non può comprenderlo), il suo messaggio rivoluzionario si perde nel vuoto ed egli, dopo la morte di Nastas’ja, precipita di nuovo nell’abisso della malattia, forse in modo irreversibile questa volta. Un epilogo che ricorda quello immaginato da Michelstaedter per il suo Cristo:

La società che non può difendersi dalle verità enunciate da quelli, che per lei sono rivoluzionari e che minacciano la sua sicurezza, “onestamente” rispondendo con argomenti razionali agli argomenti, ma solo opponendo la violenza e materialità del suo esistere come dato di fatto – quando non li può imprigionare come delinquenti, può porre così la pregiudiziale della pazzia e non incaricarsene. – Se Cristo tornasse oggi, non troverebbe la croce ma il ben peggiore calvario d’un’indifferenza inerte e curiosa da parte della folla ora tutta borghese e sufficiente e sapiente – e avrebbe la soddisfazione di esser un bel caso pei frenologi e un gradito ospite dei manicomi. – [6]

Queste parole di Michelstaedter aderiscono perfettamente al principe Myškin. Incapace di difendersi con argomenti razionali alle verità enunciate dal protagonista, rivoluzionarie e pericolose perché sgretolano dalle fondamenta l’intero sistema di convenzioni, pregiudizi e luoghi comuni sul quale essa si fonda, la società gli applica l’etichetta di idiota e se ne libera, ristabilendo l’ordine.

Scomparsa l’unica creatura capace di comprenderlo, apprezzarlo e amarlo, Myškin torna in Svizzera, nella clinica del dottor Schneider, svuotato dalla malattia, ed ecco che, alla luce della conclusione del romanzo, la salvezza di Nastas’ja avrebbe rappresentato la salvezza dello stesso principe. Del resto, anche Nastas’ja è una figura dalla profonda carica sovversiva, capace di rompere le regole e destare scandalo, le sprezzanti etichette di mantenuta, di pazza affibbiatele dalla società lo dimostrano. Per Nastas’ja e il principe Myškin sarebbe stato possibile vivere solo se uniti; separati, sono destinati a disperdersi, a disgregarsi. Lo sviluppo ciclico del romanzo lo conferma: Myškin rientra in Russia dalla Svizzera per trovare Nastas’ja, nella quale si imbatte già in treno, sebbene tramite Rogožin; perduta la donna, la sua unica vera donna – l’amore per Aglaja è una debolezza del principe, che non resiste al fascino della giovane -, lascia la Russia e torna in Svizzera, nelle stesse drammatiche condizioni in cui la prima volta era partito dalla sua patria.

NOTE

[1] Per un approfondimento sul pensiero dello scrittore rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, il pensiero: l’uomo tra Cristo e il sottosuolo.

[2] Fëdor Dostoevskij, L’Idiota, traduzione di Federigo Verdinois, in Id., Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 725.

[3] Mauro Martini, Premessa a Fëdor Dostoevskij, L’Idiota, cit., p. 584.

[4] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, p. 130.

[5] Per un approfondimento su questi due personaggi rimando ai contributi Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Prima parte, Seconda parte; Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso. Capitolo quinto – Ivàn, il nichilista estremo – I-IV, V-VI, VII-IX.

[6] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 183.

In copertina: il principe Myškin in un’illustrazione di Il’ja Glazunov.

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