Capitolo primo. Stepan e Pëtr Verchovenskij, padri e figli
I. Stepan Verchovenskij è la «pietra di fondazione di tutto il romanzo» [1], scrive Dostoevskij a Majkov nella lettera del 2 (14) marzo 1871. Frivolo, ridicolo, sentimentale fino alla nausea, parassita, sedicente letterato di grande ingegno che porta con sé il Tocqueville mentre tiene nascosto in tasca un romanzetto di de Kock, certo e orgoglioso di essere perseguitato dalle autorità per le sue idee liberali di un tempo, mentre nessuno si cura più di lui, eccetto Varvara Petrovna, Stepan Trofimovič è il padre naturale e ideale dei demòni. Con il suo personaggio «Dostoevskij mette sotto accusa la borghesia liberale degli anni Quaranta a cui va la responsabilità storica di aver generato, senza accorgersene, i ribelli che distruggeranno tutto con forza oscura» [2] (alla stessa categoria appartiene lo scrittore Karmazinov, velenosa parodia di Turgenev), ma al termine del romanzo, quando il mondo è ridotto ormai a un cumulo di rovine, Stepan Trofimovič «ha la forza e la lucidità di riconoscere tutta la stoltezza del proprio liberalismo, di auspicarne la distruzione, di accettare il risorgere della fede del Cristo» [3]. Fuggito a piedi dalla città invasa, messa a ferro e fuoco dagli ossessi, offeso e sdegnato, negli ultimi giorni della sua vita Stepan Trofimovič si avvicina finalmente al Vangelo e, rischiarato, annuncia la liberazione dai demòni:
vedete, è esattamente come la nostra Russia. Questi demoni, che escono dal malato ed entrano nei porci, sono tutte le piaghe, tutti i miasmi, tutte le impurità, tutti i demoni e i demonietti che si annidano nel nostro grande e diletto malato, nella nostra Russia, da secoli e secoli! […] Ma una grande idea e una grande volontà le pioveranno dall’alto, come piovvero su quel folle indemoniato, e usciranno tutti questi demoni, tutte le impurità, tutte le turpitudini, che imputridiscono in superficie… ed essi stessi chiederanno di entrare nei porci. E sono già entrati, forse! Siamo noi, noi e loro, e Petruša… e les autres avec lui, e io forse sono il primo, in testa a tutti, e noi ci getteremo, folli e indemoniati, da una roccia sul mare e annegheremo tutti, e questa è la meta del nostro cammino, perché non siamo in grado di far nient’altro. Ma ‘ossesso intanto sarà liberato e siederà ai piedi di Gesù… e tutti guarderanno meravigliati… [4].
Un momento di lucidità estrema, persino miracolosa considerando il personaggio: Stepan Trofimovič, padre dei demòni, uomo vano, inconsistente, incapace di comprendere il popolo russo, ma capace di giocarsi un servo alle carte, condannandolo a una vita criminale (Fed’ka, il forzato fuggiasco, ladro e assassino), padre irresponsabile che abbandona il figlio, intellettuale senza qualità, mantenuto per vent’anni da una donna che non ha il coraggio di amare perché lontana dai suoi canoni estetici, alla fine dei suoi giorni apre finalmente gli occhi, vede la luce, comprende la forza rigenerante del Vangelo e se ne fa interprete, riscattando così la sua esistenza, fino a quel momento perfettamente inutile e persino nociva, sebbene suo malgrado. Le parole di Stepan Trofimovič, l’annuncio della prossima liberazione dei demòni, costituiscono l’unico raggio di luce all’interno del romanzo, cupo come una notte senza stelle.
II. Figlio di Stepan, Pëtr Verchovenskij, modellato, almeno inizialmente, sulla figura di Nečaev, è una sorta di diabolico saltimbanco che semina zizzania e genera il caos. Naturalmente predisposto al grigiore (è Stavrogin a definirlo «grigio», lo stesso appellativo utilizzato da Chamisso per il suo diavolo nella Storia straordinaria di Peter Schlemihl [5]), Pëtr Verchovenskij travolge il suo interlocutore con un torrente di parole, che snocciola una dietro l’altra, freneticamente, ma senza giungere mai a una conclusione. Il suo scopo è risultare semplice, incomprensibile e infine venire a noia: «ditemi chi dopo di questo vi potrà sospettare di macchinazioni segrete?». Egli instilla nei componenti della cinquina organizzata in città (Liputin, Virginskij, Šigalëv, Ljamšin e Tolkačenko) la convinzione di essere «una delle centinaia e migliaia di analoghe cinquine sparse per tutta la Russia, e che tutte dipendessero da qualche organo centrale, immenso ma segreto, a sua volta collegato organicamente con la rivoluzione universale europea» (440). Di universale c’è solamente la menzogna di Verchovenskij, che nel corso del romanzo pronuncia ben poche parole assennate, come quando, ad esempio, si definisce un semplice mascalzone e non un socialista. La sua fede non è il socialismo, non è lo scigaliovismo, ma lo stavroginismo: Verchovenskij vuole porre Stavrogin a capo della nuova Russia, nata dopo la distruzione della vecchia e una o due generazioni di «corruzione inaudita, abbietta, l’uomo che si trasforma in un rifiuto osceno, vile, crudele, egoista» (469). Verchovenskij convince i membri della cinquina a uccidere Šatov, ma il suo piano si ferma qui e l’inchiesta giudiziaria rivela tutta la sua «perfetta ignoranza della realtà», tutta la sua «terribile astrattezza» (due delle caratteristiche principali dei demòni di Dostoevskij), che lo portano a un «abnorme e assurdo sviluppo in una sola direzione, con le gravissime conseguenze di irresponsabilità che ne derivano» (730).
Pëtr Verchovenskij è un personaggio davvero misero, abbietto, un «piccolo demone servile», un «Mefistofele da trivio», un «buffone da operette» che conosce «soltanto il volto più meschino del male» [6] e si trova a un livello infinitamente inferiore rispetto al suo «idolo», al suo «sole», cui avrebbe voluto consegnare la nuova Russia, come dice Fed’ka: «Il signor Stavrogin di fronte a te sta come su una scala, e tu in basso gli abbai dietro come un cagnetto rognoso, mentre lui è in alto e considera un onore anche sputarti sulla testa» (615). Diavolo meschino e ridicolo, saltellante nel fango, suscita in Stavrogin solamente riso e disprezzo, mentre il suo fanatico entusiasmo si concretizza in una violenza cieca fine a se stessa. Le trame, gli intrighi, le menzogne e la distruzione che Verchovenskij dissemina attorno a sé con cura maniacale, finiscono per ritorcersi contro di lui, incapace di concepire un vero piano politico, coraggioso e innovativo. Le sue parole e le sue azioni non producono che caos e rivelano tutta la sua brutale inconsistenza di ambizioso politicante. Non a caso Dostoevskij lo relega in una posizione di secondo piano nel romanzo, spiegando a Katkov che da solo un simile personaggio non lo avrebbe sedotto, perché certi «miserabili aborti» non sono neppure degni di entrare nella letteratura [7].
NOTE
[1] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, p. 123.
[2] Fausto Malcovati, Premessa a Fëdor Dostoevskij, I demoni, in Id., Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 984.
[3] Ibidem.
[4] Fëdor Dostoevskij, I demoni, traduzione di Giovanni Buttafava, BUR, Milano 2006, p. 712. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[5] Per un approfondimento sul racconto rimando al contributo Adelbert von Chamisso, Storia straordinaria di Peter Schlemihl.
[6] Pietro Citati, Introduzione a Fëdor Dostoevskij, I demoni, BUR, Milano 2006, p. 7.
[7] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, cit., p. 115.