Fëdor Dostoevskij, «Delitto e castigo»: la resurrezione di Raskol’nikov. Terza parte

7. La tentazione del male

Raskol’nikov deve disperdersi, deve abbattere il proprio io (quell’io che è d’intralcio per l’uomo, impedendogli di avvicinarsi a Cristo, come scrive Dostoevskij nei Pensieri sulla morte e sull’immortalità [1]) per rinascere, per tornare alla vita perduta: un processo ancora lungo e faticoso, che non si conclude certo con la confessione a Sonja e neppure con la confessione alle autorità. Il protagonista si trova in un permanente stato febbrile, che lo sfibra ed egli agisce solamente grazie a una forza artificiale che non può durare ancora per molto. Dopo il secondo colloquio con Sonja Raskol’nikov sprofonda in uno stato di annebbiamento, di offuscamento della coscienza che lo isola ancora di più da tutto e da tutti, interrotto solamente per brevi istanti. È tormentato da «un’ansia morbosa» che si trasforma spesso in «terror panico», ma vive ore e persino giorni colmi d’apatia, pieni di quell’indifferenza propria dei moribondi. Spesso dorme fuori casa, nella boscaglia. Una figura lo turba più di tutti, Svidrigajlov, che ha scoperto il suo segreto, ascoltando la sua confessione a Sonja: «si sarebbe potuto perfino dire che su Svidrigajlov egli s’era fermato». Svidrigajlov diviene per Raskol’nikov una vera e propria ossessione, che lo accompagna nei suoi vagabondaggi senza meta per Pietroburgo.

Innamorato della sorella di Raskol’nikov, la verginale ed eroica Dunja, Svidrigajlov rappresenta la più bassa estremizzazione del tutto è permesso, rappresenta il nichilismo nella sua forma più becera e brutale: «baro», come egli stesso si definisce, è stato in carcere per debiti; è il responsabile del suicidio di un servo e di una ragazzina da lui violata (dello stesso terribile peccato si renderà protagonista Stavrogin [2]); molto probabilmente ha ucciso la moglie. Sebbene il suo volto, straordinariamente giovanile, ma sgradevole, ricordi una maschera, Svidrigajlov asseconda alla luce del sole la propria natura depravata, vive comodamente, infischiandosene del giudizio della gente. «Se non ci fossero i vizi si finirebbe col tirarsi un colpo di pistola» [3]: è questa la sua filosofia.

Il personaggio di Svidrigajlov riveste un ruolo fondamentale nel romanzo, è il «doppio deforme» del protagonista, una «figura» della sua coscienza: «Raskòlnikov vede in Svidrigàjlov la trasformazione della morale del “tutto è permesso” […] in una esistenza depravata che, per la propria meschinità, suscita solo disgusto e ripugnanza. Svidrigàjlov è così il doppio di Raskòlnikov che riconosce in lui il riflesso del proprio destino subumano. Svidrigàjlov incarna la trasformazione della ribellione in stato di indifferenza, dell’orgoglio titanico in voluttà abbietta, del tormento per la propria caduta in ebbrezza per la propria denigrazione. La confessione resa a Raskòlnikov dei propri misfatti non è animata dal pentimento, bensì da un sentimento di provocazione, dove si esprime la radice pervertita della sua anima. La rivelazione della propria miseria morale diventa motivo di compiacimento. […] La vita non è più per lui lo spazio per affermare la propria volontà, ma il teatro della propria voluttà che lo rende schiavo della sensualità e concupiscenza» [4].

Sonja rappresenta il polo positivo, Cristo, con il suo inossidabile Credo, che la rende immune al fango, Svidrigajlov il polo negativo, il sottosuolo in una sola parola, con la sua autocompiaciuta depravazione, e non è certo un caso che i due abitino nello stesso caseggiato, divisi solamente da una parete. Raskol’nikov oscilla tra questi due poli, attratto ora dall’uno ora dall’altro: mentre Sonja è per il protagonista «una condanna inesorabile, una decisione definitiva», ma, al tempo stesso, una promessa di rinascita, di salute morale e spirituale, Svidrigajlov rappresenta la tentazione del male, il male come condizione permanente, esistenziale. Ma Svidrigajlov è ormai alla fine dei suoi giorni. Vinto dall’amore e incapace di godere, tenta di approfittare di Dunja, che attira nella sua stanza sfruttando il segreto di Raskol’nikov, ma la giovane si divincola e gli spara, ferendolo superficialmente. L’uomo la afferra, le domanda se lo ama, se potrà mai amarlo e la risposta negativa di Dunja lo ferisce a tal punto da generare un improvviso e inatteso cambiamento in Svidrigajlov, che lascia andare l’amata, ma intimandole di fare presto, di sbrigarsi, prima che la sua parte più oscura, diabolica, assorbito il colpo, riprenda il sopravvento (una scena davvero impressionante, dalla forza cinematografica). Svidrigajlov risparmia Dunja, assicura l’avvenire dei tre figli di Katjerina Ivanovna, la matrigna di Sonja, stroncata dalla tisi, versando per ognuno di loro una cospicua somma di denaro e raccomandandoli a un importante collegio, libera Sonja dalla sua misera condizione e pensa al futuro di Raskol’nikov, donando alla giovane tremila rubli («Darli a voi è lo stesso che darli a lui»), infine, al termine di una notte tormentata, passata in una squallida locanda e funestata dagli incubi, si uccide, sparandosi un colpo di pistola in strada.

Dostoevskij ci presenta Svidrigajlov al termine della sua scandalosa parabola esistenziale: i vizi non lo soddisfano più e, fallito l’assalto all’oggetto dei suoi desideri, sul quale ha concentrato tutte le proprie energie, non gli resta altro da fare che togliersi la vita, coerentemente con la sua natura, ovvero in modo indecente, in strada, alla luce del sole, davanti a un altro uomo. Dunja, la donna per la quale sarebbe pronto a tutto, non solo non lo ama e non lo amerà mai, ma è persino disposta ad ucciderlo, gli punta la rivoltella contro e spara, ferendolo: in questo momento è come se Svidrigajlov prendesse di colpo coscienza del vuoto che lo circonda, dell’inconsistenza, dell’insignificanza della sua vita scandita dai vizi. È forse questo il momento di massima lucidità nell’esistenza di Svidrigajlov, per il quale il suicidio è l’esito più scontato e naturale.

8. L’uomo della legge

Sonja è la mediatrice della verità divina; Porfirij, il giudice istruttore, è l’uomo della legge terrena, che incalza Raskol’nikov ricorrendo alla sottile e affilata arma della psicologia. Sin dall’inizio Porfirij è certo della colpevolezza di Raskol’nikov, di cui ha letto con estremo interesse, già al tempo della pubblicazione, l’articolo dedicato al delitto, stimolato dal pensiero che un uomo capace di concepire simili riflessioni non si sarebbe certo fermato qui, ma avrebbe tradotto in pratica le sue teorie, prima o poi. «Il colpevole è un sognatore dominato dai libri che ha letto, è un uomo la cui mente è esasperata dalle teorie» (395): queste parole di Porfirij rappresentano la sintesi ideale del delitto di Raskol’nikov e del processo psicologico che si cela dietro di esso. Porfirij non ha prove, ha solo deduzioni psicologiche, ma non prove: ha dunque necessariamente bisogno della confessione del protagonista, cui assicura persino di impegnarsi per mitigare la pena, mostrando il delitto sotto l’aspetto di un offuscamento. Nel corso del loro ultimo colloquio, Porfirij si sforza di convincere Raskol’nikov a confessare, mostrando una comprensione dell’uomo davvero straordinaria (nel giudice istruttore si insinua lo stesso Dostoevskij):

«Siete sospettoso e credete che io tenti di illudervi con volgari lusinghe? Ma avete già vissuto molto? Avete capito molte cose? Ha inventato una teoria questo giovanotto e si vergogna che sia fallita, che sia riuscita una cosa assai poco originale! È riuscita una infamia, è vero, ma voi non siete un infame pel quale si sia perduta ogni speranza. Non siete un infame di questa sorta, no, non lo siete! Per lo meno non avete serbato a lungo le vostre illusioni, siete subito arrivato ai limiti estremi. Sapete che cosa penso di voi? Vi ritengo uno di quegli uomini che si lascerebbero strappare le budella, in piedi, guardando con un sorriso i loro carnefici, purché avessero trovato una fede o un Dio. Ebbene, trovatelo e vivrete. Voi, anzitutto, da un pezzo avete bisogno di cambiar aria. Poi anche la sofferenza è una buona cosa. Soffrite. […] So che non avete la fede, – ma non mettetevi a sottilizzare, abbandonatevi al corso della vita, rinunziate al ragionamento; non abbiate paura; esso vi porterà alla riva e vi rimetterà in piedi. Su quale riva? Come posso io saperlo? Credo soltanto che voi abbiate ancora da viver molto. So che prendete ora tutte le mie parole come un sermone imparato a mente; ma forse un giorno le ricorderete, ne trarrete profitto, perciò vi parlo. Meno male che avete ucciso soltanto una vecchiarella. Se aveste escogitato un’altra teoria, forse avreste commesso un’azione cento milioni di volte più orrenda! Potete ringraziare Iddio! Chi sa? Forse Dio vi riserva per qualche opera sublime. E voi abbiate un animo grande e meno paura. Avete paura di compiere la grande impresa che avete davanti a voi? No, ora è vergognoso aver paura. Perché avete fatto un passo simile, siate forte. Qui è la giustizia. Adempite quel che la giustizia esige. So che non avete fede, ma, com’è vero Dio, la vita vi porterà alla vita. Voi stesso poi vi ci riaffezionerete. Ora avete bisogno soltanto di aria, di aria, di aria!
[…] Chi sono? Sono un uomo finito, nulla di più. Un uomo che, magari, sente e compatisce, che sa anche qualche cosa, ma che ormai è completamente finito. Per voi… il caso è diverso: a voi Dio ha posto davanti la vita (ma, chi lo sa, può darsi che anche la vostra passi così, come il fumo, senza lasciar traccia). Che v’importa di passare in un’altra categoria di uomini? Un cuore come il vostro può forse rimpiangere il benessere? Vi addolora il pensiero che forse per molto tempo nessuno vi vedrà? Non dipende dal tempo, ma da voi stesso. Diventate un sole, e tutti vi vedranno. Il sole deve essere anzitutto sole. […]
No, voi non scapperete. Scapperà un contadino, scapperà un membro appartenente a una setta di moda, – un servo del pensiero altrui, – al quale basterà mostrar la punta del dito mignolo, perché creda per tutta la vita a ciò che voi vorrete. Ma voi non ci credete più alla vostra teoria, – che cosa portereste con voi se scappaste? E poi che bene trovereste nella latitanza? La vita d’un latitante è ignobile e penosa, e a voi occorre principalmente un’esistenza regolata, una posizione definita, un’aria adatta alla vostra natura, e, in quelle condizioni, avreste l’aria che vi ci vuole? Se scappaste tornereste. Di noi non potete fare a meno. Ma se vi farò arrestare, starete in carcere un mese, due, tre forse, e poi, tutt’a un tratto, vi ricorderete delle mie parole e vi presenterete spontaneamente, cosa che voi stesso non vi sareste aspettata. Un’ora prima non saprete che verrete ad accusarvi. Son sicuro che deciderete “dopo una profonda meditazione di accettare la sofferenza”; non prendetemi ora in parola, ma soffermatevi per conto vostro su quanto vi dico. In verità la sofferenza, Rodiòn Romànyc, è una grande cosa; non badate al fatto che son diventato grasso, che non mi manca nulla. Ma certe cose non le ignoro; non ridete del mio linguaggio: nella sofferenza c’è un’idea» (398-399).

Porfirij coglie l’essenza di Raskol’nikov, il suo orgoglio smisurato, che gli impedisce di consegnarsi all’autorità dopo l’umiliante e doloroso fallimento, il suo valore, la sua nobiltà d’animo, coglie l’aspetto positivo della vicenda, rappresentato dal fatto di essere giunto già ai limiti estremi, sul ciglio dell’abisso e aver scrutato il male faccia a faccia, coglie la disperata necessità del protagonista di trovare un credo al quale consacrarsi con tutto se stesso, anima e corpo. Porfirij, sinceramente interessato all’avvenire di Raskol’nikov, all’avvenire dell’uomo, lo esorta a rinunciare al ragionamento, alle funamboliche costruzioni filosofiche, che allontanano dalla realtà, dalla terra, e ad abbandonarsi alla vita, la vita vera; lo esorta inoltre ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni dinanzi alla giustizia umana e divina. Porfirij pungola il sensibilissimo amor proprio di Raskol’nikov, ma dal punto di vista della responsabilità, dell’espiazione: «Diventate un sole, e tutti vi vedranno. Il sole deve essere anzitutto sole». Raskol’nikov non è «un servo del pensiero altrui», per questo non fuggirà; fallita la sua teoria, non porterebbe nulla con sé se scappasse: la sua formazione culturale e morale schiaccia il puro istinto di conservazione, intatto in un contadino. Inoltre la latitanza non si addice a una natura lacerata come quella del protagonista, che ha bisogno di una posizione definita, di certezze, di tranquillità. Infine Porfirij esorta Raskol’nikov alla sofferenza, quella sofferenza che spesso, nelle opere di Dostoevskij, s’impone come componente necessaria nella formazione dell’individuo, e si pensi al testamento di Zosima, che esorta il più giovane dei Karamazov, Aleksej, a trovare la gioia nel dolore [5]. La sofferenza è un’occasione di crescita e di conoscenza, che avvicina l’uomo a Cristo, e se ciò vale universalmente, per ogni individuo, vale soprattutto per Raskol’nikov: nel dolore che lo attende il protagonista può trovare davvero una ragione di vita, un credo. Porfirij getta un seme in Raskol’nikov e con le sue parole, in un certo senso, completa Sonja, configurandosi come una sintesi di quella verità divina e di quella legge terrena che reclamano dal protagonista, ogni giorno con maggiore insistenza, ciò che è loro dovuto e che ormai non è più possibile rimandare.

9. In ginocchio

Dopo una notte passata fuori casa, sotto la pioggia, impegnato in una sanguinosa lotta con se stesso, tentato più di una volta dall’idea del suicidio, Raskol’nikov, sudicio di fango, il volto sfigurato dalla stanchezza, dice addio alla madre e alla sorella, ma nel colloquio con Dunja, in un ultimo, disperato slancio di furore titanico, si ribella all’idea del delitto:

«Affrontando l’espiazione non cancellerai forse metà del tuo delitto?».
«Delitto? Quale delitto?», gridò egli a un tratto, in preda a un furore violento. «Io ho ucciso un lurido, malefico pidocchio, una vecchia strozzina, che non era utile a nessuno, che succhiava il sangue alla povera gente. Ma un simile assassinio meriterebbe indulgenza per quaranta peccati! E tu lo chiami delitto? Io non penso che sia un delitto, né penso a cancellarlo. E perché mi vengono a gridare da tutte le parti: “Delitto! delitto!”? Solo adesso vedo chiaramente tutta la mia assurda pusillanimità, adesso che mi son deciso ad affrontare questa inutile vergogna! Soltanto la mia bassezza, la mia scarsa intelligenza m’hanno spinto a prender questa decisione; può darsi anche che l’abbia presa per tornaconto, come proponeva quel… Porfìrij!…»
«Fratello, fratello, che dici? Tu hai versato del sangue!», esclamò Dùnja disperata.
«Che! Non lo versano tutti il sangue?», replicò egli, accalorandosi sempre più. «Non scorre, non è sempre scorso in questo mondo, a torrenti, il sangue? Quelli che lo versano come lo champagne, sono incoronati in Campidoglio e chiamati benefattori dell’umanità. Ma guarda le cose un po’ più da vicino, prima di dar giudizi! Anch’io volevo beneficare l’umanità e con centinaia, con migliaia di opere buone avrei fatto dimenticare quest’unica sciocchezza, o meglio, questa mossa sbagliata, poiché quest’idea non era poi tanto sciocca come sembra ora, dopo il fiasco che ho fatto… (dopo un fiasco, qualsiasi progetto sembra stupido!) Con quella sciocchezza volevo costituirmi una posizione indipendente, fare il primo passo nel mondo, procacciarmi dei mezzi, e poi avrei preso il volo… Ma io, io non ho saputo fare nemmeno il primo passo, perché sono… un vigliacco. Tutta la faccenda si risolve in questo! Ma non vedrò mai la questione coi vostri occhi: se la cosa fosse riuscita, m’avrebbero posto una corona sulla testa, ora, invece, son cascato nella trappola.»
«Ma no, non si tratta di questo! Fratello, che dici!»
«Ah! La forma non è stata quella che ci voleva, non è stata abbastanza estetica! Ebbene, non riesco a capire perché accoppar degli uomini con le bombe, con un assedio in regola sia una forma più degna di rispetto. La paura dell’estetica è il primo indizio dell’impotenza!… Mai, mai l’ho sentito chiaramente come ora, e meno che mai capisco ora quale sia il mio delitto! Mai, mai sono stato più forte e più convinto di adesso!…» (440).

Tormentato ancora dalla sua idea, Raskol’nikov dimostra di non aver superato il trauma del fallimento, che lo perseguita e lo rode nel profondo. Barricato nel suo orgoglio, che l’offesa e l’umiliazione sembrano rafforzare piuttosto che indebolire, il protagonista rifiuta il concetto di delitto appiccicatogli addosso dalla norma comune e non comprende la necessità della pena, verso cui lo spingono tutti, Sonja, Porfirij, Dunja, la madre se sapesse: «A che servono, a che servono mai tutte queste prove insensate? A che servono? Quando sarò stato distrutto dai patimenti, dall’idiozia, quando venti anni di lavori forzati m’avranno fiaccato, avrò forse una maggiore comprensione delle cose? E allora varrà la pena di vivere? Perché acconsento a vivere sotto il peso di un futuro avvilimento?» (441). Raskol’nikov, nella sua arroganza, e nella sua paura, ha un’idea distorta della pena, in cui non vede l’opportunità di una rinascita morale e spirituale, ma solo l’annichilimento definitivo, permanente della propria personalità e della propria energia giovanile. Eppure, pur non comprendendolo, Raskol’nikov si piega al castigo. Perché? Per amore, per amore della madre, della sorella, di Sonja e della fidanzata defunta (creatura di cui purtroppo sappiamo poco, ma che ricorda molto la giovane Marmeladova):

«Ma perché tanto amore se io non ne son degno? Oh, se fossi solo e nessuno mi amasse! Se io non avessi mai amato nessuno! Non ci sarebbe tutto questo! Sarei curioso di sapere se in questi futuri quindici-venti anni la mia anima s’ammansirà al punto di ridurmi a piagnucolare umilmente davanti al prossimo, dandomi di continuo il nome di assassino. Sarei proprio curioso di saperlo! Per ottenere questa soddisfazione, gli uomini mi mandano in esilio: hanno bisogno di vedermi umiliato… Eccoli lì che filano su e giù per la strada, e ciascuno di loro è, per natura, una canaglia, un furfante; peggio… è un idiota! Ma tenta un po’ d’evitare l’esilio! S’infurieranno, presi da nobile sdegno! Come li odio tutti!» (441-442)

Nell’orgoglio di Raskol’nikov si è aperta una crepa, prodotta dall’amore, che farà precipitare l’intero edificio. Dopo aver preso la croce di cipresso di Sonja, il protagonista si reca in piazza Sjennaja e qui l’ansia e l’angoscia accumulate nelle ultime settimane si sciolgono di colpo: ogni singola fibra del cuore di Raskol’nikov vibra, intenerita; dagli occhi gli sgorgano lacrime dolcissime, salutari ed egli si inginocchia, chino fino a terra, baciando il suolo fangoso «con voluttà e con gioia», mentre lo sguardo di Sonja, nascosta dietro una baracca, veglia su di lui. Raskol’nikov la vede e sente che la giovane «non l’avrebbe mai abbandonato, che gli sarebbe stata vicino anche se la sorte avesse voluto farlo andare in capo al mondo» (446). Matematicamente certo della fedeltà di Sonja, Raskol’nikov entra nell’ufficio di polizia e, dopo un ultimo ripensamento, confessa il delitto: «Io ho ucciso la vecchia vedova dell’impiegato e sua sorella Lizavèta e l’ho derubata» (449).

NOTE

[1] «Amare l’uomo come se stessi, secondo il comandamento di Cristo, non è possibile. Sulla terra la legge della personalità è d’impaccio. L’io è di ostacolo. Cristo soltanto poteva farlo, ma Cristo era l’ideale eterno sin dall’inizio dei tempi, quell’ideale a cui l’uomo tende, e deve tendere, per legge di natura. Tuttavia, dopo la comparsa di Cristo come ideale dell’uomo incarnato, è diventato chiaro come il giorno che l’evoluzione ultima e suprema della personalità individuale (e questo proprio al culmine dell’evoluzione, anzi nel momento stesso in cui il fine dell’evoluzione sarà raggiunto) in cui l’uomo riconosca, si renda conto e si convinca con tutta la forza della sua natura che l’impiego più alto che egli possa fare della sua individualità, nel momento in cui il suo io abbia raggiunto la pienezza dello sviluppo, consiste nel distruggere questo stesso io, nel donarlo interamente a tutti e a ciascuno indivisibilmente e senza riserve» (Fëdor Dostoevskij, Pensieri sulla morte e sull’immortalità, citato in Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, pp. 153-154).

[2] Per un approfondimento sul protagonista dei Demòni rimando al contributo Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Prima parte, Seconda parte.

[3] Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, traduzione di Vittoria Carafa de Gavardo, in Id., Grandi romanzi, cit., p. 406. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[4] Chiara Cantelli, Premessa a Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, cit., pp. 64-65.

[5] «Conoscerai un grande dolore e nel tuo dolore sarai felice. Eccoti il mio testamento: nel dolore cerca la felicità» (Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Alfredo Polledro, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 93). Per un approfondimento sul romanzo rimando allo studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso.

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