Sapete che cosa penso di voi? Vi ritengo uno di quegli uomini che si lascerebbero strappare le budella, in piedi, guardando con un sorriso i loro carnefici, purché avessero trovato una fede o un Dio. Ebbene, trovatelo e vivrete. Voi, anzitutto, da un pezzo avete bisogno di cambiar aria. Poi anche la sofferenza è una buona cosa. Soffrite. […] So che non avete la fede, – ma non mettetevi a sottilizzare, abbandonatevi al corso della vita, rinunziate al ragionamento; non abbiate paura; esso vi porterà alla riva e vi rimetterà in piedi.
1. Ritratto di un ribelle
Rodion Romanyc Raskol’nikov è un ex studente di ventitré anni. Vive a Pietroburgo, in una piccola, claustrofobica stanza situata proprio sotto il tetto di un grande casamento a cinque piani, «una gabbiolina minuscola, lunga circa sei passi, di aspetto miserevolissimo, dalla tappezzeria gialliccia, polverosa, tutta staccata dal muro, una cameretta talmente bassa che una persona piuttosto alta di statura vi si sentiva a disagio e aveva l’impressione che da un momento all’altro avrebbe battuto il capo contro il soffitto» [1]. Raskol’nikov è un giovane cupo, ritroso, fiero, superbo, negli ultimi tempi sospettoso e nevrastenico, ma generoso e buono; non ama manifestare i propri sentimenti, che custodisce gelosamente dentro di sé, e sarebbe capace di un atto crudele piuttosto che rivelare il suo cuore; a volte è freddo e insensibile fino alla disumanità, altre volte tremendamente taciturno; dice di non avere tempo per nulla e poi se ne sta sdraiato per giornate intere; non ha tempo per le sciocchezze e non ascolta mai fino alla fine ciò che gli si dice; non si interessa mai di ciò che in un determinato momento interessa tutti e ha un altissimo concetto di sé. Insomma, la sua è una natura estremamente complessa, lacerata, divisa, contraddittoria, in cui tuttavia l’elemento negativo, oscuro, distruttivo e autodistruttivo, almeno in questa particolare fase della sua vita, prevale sul resto, come scrive Dostoevskij stesso in un appunto: «la sua figura esprime l’idea di un orgoglio smisurato, di superbia, di disprezzo per la società. La sua caratteristica principale è il dispotismo» [2]. E Raskol’nikov è dispotico innanzitutto con se stesso.
Costretto a lasciare l’università per ragioni economiche, sprofondato in uno stato di miseria nera che lo offende nel profondo, vestito di stracci e per giorni interi senza cibo, il giovane volta le spalle al mondo intero, alla vita e si rintana nella sua malsana «gabbiolina», avvoltolato in se stesso. Il disordine in cui vive gli dona persino un sinistro godimento. Allontanatosi da tutti, teme qualsiasi incontro; verso ogni estraneo che lo sfiori o abbia solamente l’idea di sfiorarlo, prova un «fastidioso senso d’avversione», e persino il volto della domestica gli eccita la bile e lo rende convulso: «Accade questo a taluni maniaci che si son troppo riconcentrati in qualche idea» (87). Rinserratosi a doppia, tripla mandata in se stesso e gettata la chiave, Raskol’nikov si trova in uno stato di isolamento inespugnabile, di solitudine che sconfina nella selvatichezza. Non riesce a provare una sola sensazione piacevole; tutto ciò che è dentro di sé e attorno a sé lo irrita, lo ferisce, lo offende nel profondo e i suoi vagabondaggi senza meta per la malsana Pietroburgo estiva, sferzata da un «caldo tremendo, afoso», in cui «anche per la strada par d’essere in una stanza senza finestre», dalla polvere e dal puzzo delle bettole affollate d’ubriachi, sono tante vie crucis.
Gettatosi a capofitto e con gioia maligna nel sottosuolo, Raskol’nikov «si abbandona alla seduzione delle costruzioni mentali», alla «tentazione di Lucifero: stabilire per sé una legge che non è uguale a quella degli altri, agire contro il gregge, sentirsi autorizzato alla diversità» [3]. È questa l’idea sulla quale si arrovella, fino a restarvi intrappolato, il giovane protagonista di Delitto e castigo, il cui tema è uno e uno soltanto: «la rivolta del ribelle che contrappone il proprio arbitrio alla legge di Dio, legge che è scritta nel cuore di ogni uomo e presente a ognuno grazie al messaggio e all’immagine di Cristo. Nel cuore ribelle del protagonista, […] esulcerato dalla propria condizione disperata e priva di prospettive […] e addolorato alla vista di tanta miseria e ingiustizie subite dagli emarginati della società, la rivolta prende la forma teorica della sua cosiddetta “idea napoleonica”, cioè l’idea che gli uomini d’eccezione, come appunto Napoleone, non sono tenuti – in vista dei grandi scopi che intendono perseguire – al rispetto delle leggi divine e umane che sono valide per gli uomini comuni» [4]. Ma approfondiamola questa cosiddetta idea napoleonica, cui lo stesso Raskol’nikov dedica un articolo intitolato Del delitto, pubblicato due mesi prima la sua messa in pratica.
2. L’idea napoleonica
Raskol’nikov divide gli uomini in straordinari e ordinari. L’uomo straordinario «ha il diritto… non già il diritto ufficiale, ma un diritto suo, d’autorizzare la propria coscienza a scavalcare… alcuni ostacoli, ma unicamente nel caso che l’attuazione della sua idea (salutare talvolta, forse per tutta l’umanità) lo esiga» (254). Insomma, se le scoperte di Keplero e di Newton avessero avuto la possibilità di essere note agli uomini soltanto mediante il sacrificio di una persona, di dieci, di cento persone che a quelle scoperte si fossero opposte o ne avessero ostacolato il progresso, Keplero e Newton non solo avrebbero avuto il diritto, ma l’«obbligo» di sopprimere quelle persone per far conoscere le loro scoperte a tutta l’umanità. Inoltre secondo Raskol’nikov tutti i legislatori e i riformatori delle istituzioni umane, da Licurgo a Solone, da Maometto a Napoleone, tutti, dal primo all’ultimo, furono dei delinquenti, per il semplice fatto che, dando una nuova legge, violarono l’antica, spesso versando il sangue degli oppositori: «[…] io dimostro che tutti gli uomini, non solo i grandi, ma anche quelli che s’elevano appena appena al di sopra del livello comune, quelli che son capaci di dire qualcosa di nuovo, devono assolutamente, a causa della loro natura, essere dei delinquenti, più o meno, s’intende. Altrimenti sarebbe loro difficile uscire dalla carreggiata di tutti e a rimanervi, naturalmente, essi non possono acconsentire, sempre a causa della loro natura, e, secondo me, hanno il dovere di non acconsentire» (254-255). L’uomo che si distingue dalla moltitudine, portavoce di una nuova parola, di un messaggio innovativo, rivoluzionario, benefico talvolta per l’intera umanità, deve necessariamente trasgredire, ha il dovere morale di uscire dalla carreggiata: è la sua natura a imporglielo.
Alla categoria «inferiore» degli uomini ordinari, «composta di materiali che servono unicamente a procreare individui simili a loro» (255), appartengono gli uomini per natura conservatori, morigerati, che vivono nell’obbedienza e ne provano piacere; alla categoria degli uomini straordinari appartengono invece gli uomini che trasgrediscono la legge, i sovvertitori, che chiedono tutti «la distruzione del presente in nome d’un avvenire migliore», e per attuare la loro idea possono dare a se stessi l’autorizzazione di passare oltre un cadavere, oltre il sangue, ma solo a seconda dell’idea e della sua misura. Gli uomini della prima categoria, spiega Raskol’nikov, sono padroni del presente, conservano il mondo e lo aumentano numericamente – sono mere cifre dunque – mentre gli uomini della seconda categoria sono padroni dell’avvenire, muovono il mondo e lo conducono verso la meta. Ed è così che le due categorie si trovano in uno stato di guerra permanente, «la guerre éternelle», che si protrarrà fino al raggiungimento della «Nuova Gerusalemme».
Ecco, in sostanza, l’idea napoleonica di Raskol’nikov, frutto avvelenato di una mente superba esacerbata dalla miseria, che ha abbandonato con disprezzo la vita, ha schiacciato la parte migliore di se stesso e si è consegnato completamente alla dialettica, all’astrazione pura, fine a se stessa. Raskol’nikov elabora una teoria individualista, anarchica e nichilistica che anticipa la teoria del tutto è permesso di Ivan Karamazov [5], l’ultimo e più perfetto terrorista del pensiero creato da Dostoevskij: «Le considerazioni che inducono Raskol’nikov al delitto, quelle che spingono Stavrogin e Ivan Karamazov alla formulazione delle teorie in base alle quali altri si sentono autorizzati a compiere il delitto, sono frutto di aridi percorsi mentali, di quella ragione euclidea che Ivan rivendica come unico criterio di valutazione del reale» [6]. L’eccesso della ragione, della ragione fine a se stessa, sostituita alla vita, genera mostri, produce spaventosi equivoci dai quali è difficilissimo uscire, e infatti Stavrogin [7] e Ivan Karamazov non ne usciranno, annientando se stessi, più o meno consapevolmente, il primo suicidandosi (come Svidrigajlov, con il quale condivide il più orribile dei peccati, ovvero la violazione di una bambina), il secondo sprofondando nella follia (lo stesso destino, casualmente, certo, ma emblematicamente, di Nietzsche).
3. Il delitto
L’idea napoleonica costituisce il fondamento ideologico, filosofico del delitto di Raskol’nikov, cui si legano motivi decisamente più umani, diciamo così, come le circostanze familiari, con il protagonista che intende regalare almeno un po’ di felicità alla madre e liberare la sorella da un matrimonio che si annuncia disastroso, vista la meschinità morale e la povertà di spirito del promesso sposo, Lugin, arido azzeccagarbugli incapace di concepire un pensiero proprio; come lo stato di solitudine feroce in cui versa Raskol’nikov, autoesclusosi per superbia dall’umano consorzio; come la superstizione, che gioca un ruolo decisivo nella vicenda (del protagonista potremmo dire ciò che l’uomo del sottosuolo dice di se stesso: «Sono abbastanza istruito da non essere superstizioso, ma sono superstizioso» [8]). Il protagonista si lascia infatti suggestionare, e persino soggiogare, da alcune circostanze casuali, da alcune coincidenze che finiscono per orientare il corso degli eventi, influendo in modo determinante su Raskol’nikov, sensibile a ogni minimo segno nella sua condizione di morbosità ed esasperazione. Nel suo sciagurato proposito di uccidere e derubare la vecchia usuraia non è affatto saldo, determinato, convinto; sin dall’inizio appare incerto e dubbioso: «O Dio, com’è disgustoso tutto questo! È possibile… è possibile che io… no, è una sciocchezza, è una cosa assurda! […] È mai possibile che mi sia venuta un’idea così orrenda? Ma di quali sozzure è capace il mio cuore! Soprattutto è lurido, è schifoso, odioso… odioso!… E io, per un mese intero…» (73), si tormenta Raskol’nikov lasciando la casa della vecchia usuraia dopo la prova. Incerto e disperato, arriva persino a invocare Dio, a implorare il suo aiuto: «Signore! […] indicami il mio cammino, e io rinunzierò a questo mio maledetto… sogno!» (108). I dubbi e le parole del protagonista, il giudizio severo nei confronti di se stesso e la richiesta d’aiuto a quel Dio in cui non crede, ma di cui pure ha un disperato bisogno, mostrano come quelle leggi morali, umane e divine, che intende trasgredire, oltrepassare per garantirsi una carriera luminosa, un avvenire all’altezza del suo ingegno, delle sue qualità, volente o nolente, consapevolmente o meno, siano profondamente radicate in lui. Per uccidere e rubare Raskol’nikov deve spingersi oltre se stesso, deve scavalcarsi, ma, nonostante l’orgoglio smisurato, la superbia, il disprezzo per la società, il dispotismo, è una coincidenza, nient’altro che una coincidenza, un beffardo colpo del caso, a spingerlo ad agire: il protagonista viene a sapere che il tale giorno alla tale ora la sorella della vecchia usuraia, la mite Lizaveta, non sarà in casa.
Raskol’nikov irrompe nell’appartamento della vittima e la colpisce tre volte sulla testa, con il dorso dell’accetta. Ma ecco l’imprevisto: il protagonista, che ha dimenticato, incredibilmente, di chiudere la porta dell’appartamento, si ritrova faccia a faccia con la povera Lizaveta, cui fracassa la parte superiore della fronte con un solo colpo, inferto, questa volta, con il taglio dell’accetta. Raskol’nikov sa uccidere, ma non sa rubare: arraffa confusamente qualche oggetto e scappa, aiutato dal caso. Il castigo è immediato; Raskol’nikov stesso, incapace di riflettere, assalito dalla febbre e vicinissimo alla follia, lo sente: «Che? È forse già il castigo che principia, il castigo che s’avvicina? Sì, sì, è proprio così!» (130). Le pagine immediatamente seguenti al delitto sono un turbinoso susseguirsi di sensazioni e brandelli di pensieri contrastanti, che si accavallano e si calpestano. Sono un viaggio frenetico nella mente sconvolta dell’assassino.
Raskol’nikov non si dimostra all’altezza del proprio pensiero e della propria impresa, né prima né durante né dopo il delitto: incalzato dai dubbi, passa all’azione spinto dalle coincidenze; sa uccidere, ma non sa rubare e riesce a fuggire solamente grazie a una serie di colpi di fortuna; già il giorno successivo pensa di confessare tutto alla polizia, incapace di sostenere il peso e la responsabilità del delitto. Raskol’nikov si costringe a essere un uomo d’azione, a non restare solamente un uomo teorico, libresco, ma compie un passo troppo ardito per le sue forze, che non lo possono sostenere. Neppure sa che cosa ha rubato, non controlla la refurtiva; il suo unico scopo è liberarsene al più presto: la paura sovrasta, schiaccia e cancella l’ideologia. A Raskol’nikov, prostrato sia a livello fisico che psicologico, sembra che i passanti, in strada, guardino soltanto lui; le prime ore successive al delitto sono un incubo. Una gioia intensa, intollerabile, esagerata s’impadronisce del protagonista dopo che si è finalmente liberato della refurtiva, nascosta sotto un sasso, e un «riso nervoso, silenzioso, prolungato» lo scuote tutto. Ma dura poco e alla gioia subentra presto una repulsione sconfinata, quasi fisica, per tutto ciò che gli capita davanti e lo circonda, «una repulsione ostinata, rabbiosa, piena d’odio». Raskol’nikov prova un intenso, esasperato (tutte le sue sensazioni, dalla prima all’ultima pagina del romanzo, sono esasperate) senso di ripugnanza per tutti i passanti, per i loro visi, per la loro andatura, per i loro movimenti. Vorrebbe sputargli addosso e morderli. Raskol’nikov si muove, agisce, ma senza averne la consapevolezza, come se fosse qualcuno dall’alto a sballottarlo da un angolo all’altro dell’afosa e infernale Pietroburgo. Nel sonno è tormentato da incubi spaventosi, sente suoni e grida terribili che lo svegliano e lo terrorizzano. È il castigo, che non gli dà tregua.
NOTE
[1] Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, traduzione di Vittoria Carafa de Gavardo, in Id., Grandi romanzi, Newton Compton editori, Roma 2010, p. 86. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[2] Citato in Fausto Malcovati, Introduzione a Fëdor Dostoevskij, Grandi romanzi, cit., p. 10.
[3] Ivi, p. 9.
[4] Gianlorenzo Pacini, Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori, Milano 2002, p. 93.
[5] Per un approfondimento sul personaggio rimando al capitolo quinto dello studio Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov»: l’uomo diviso: Ivàn, il nichilista estremo – I-IV, V-VI, VII-IX.
[6] Fausto Malcovati, Introduzione a Fëdor Dostoevskij, Grandi romanzi, cit., p. 10.
[7] Per un approfondimento sul protagonista dei Demòni rimando al contributo Nikolàj Vsèvolodovič Stavrògin, il funesto demiurgo. Prima parte, Seconda parte.
[8] Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, a cura di Igor Sibaldi, Mondadori, Milano 2014, p. 5. Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo Fëdor Dostoevskij, «Memorie dal sottosuolo»: la malattia della consapevolezza. Prima parte, Seconda parte, Terza parte.