«Operette morali»: la filosofia della sofferenza di Giacomo Leopardi. Terza parte

XI. Esaltato già da Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, dove appare in un memorabile colloquio con il protagonista nei giardini di Porta Orientale a Milano [1], Giuseppe Parini rappresenta uno straordinario esempio sia a livello letterario che morale [2]. A livello letterario abbina «all’eccellenza nelle lettere […] la profondità dei pensieri», secondo quel binomio letteratura-filosofia assolutamente necessario nella modernità; a livello morale distinguendosi per un’integrità e una rettitudine fuori del comune: «Fu eziandio, come è noto, di singolare innocenza, pietà verso gl’infelici e verso la patria, fede verso gli amici, nobiltà d’animo, e costanza contro le avversità della natura e della fortuna, che travagliarono tutta la sua vita misera ed umile, finché la morte lo trasse dall’oscurità» [3]. Oscura è la vita, e in particolar modo la vita moderna, non la morte, come suole immaginarla l’uomo del comunque vivere, il Fisico [4]. La morte è liberazione, liberazione dall’infelicità, dalla sofferenza, dai tempi miseri in cui, nostro malgrado, siamo scaraventati dal caso, senza poterci opporre.

Da questo breve, ma efficacissimo ritratto di Parini, possiamo ricavare l’idea leopardiana di grande letteratura, almeno per quanto riguarda la letteratura moderna: ciò che rende grande un autore e la sua opera è il rapporto tra arte, filosofia e morale (su questo stesso rapporto si basa il concetto di grandezza di Boine e, per quello che vale, del sottoscritto). Ai propri discepoli Parini «insegnava prima a conoscere gli uomini e le cose loro, e quindi a dilettarli coll’eloquenza e colla poesia». È questo un punto fondamentale: alla base della grande letteratura si colloca la conoscenza dell’uomo, pertanto filosofia e morale non possono essere separate dalla letteratura, e viene in mente Dostoevskij, l’altro autore moderno più importante insieme con Leopardi e Baudelaire, quando, ad appena diciotto anni, dichiarava di voler risolvere il «mistero» uomo [5], proposito che lo scrittore russo pone alla base della propria attività letteraria.

Ai moderni l’azione è preclusa, non c’è spazio per il fare e allora non resta, agli animi grandi, differenti, critici, che dedicarsi agli studi (emblematica, in tal senso, la figura di Alfieri [6]). Ma la via dello studio, innaturale (perché l’uomo non nasce per scrivere, ma per fare), devasta il corpo (nessuno lo sa meglio di Leopardi) e moltiplica l’infelicità naturale, necessaria dell’individuo. Insomma, l’attività filosofico-letteraria non è mai pacifica e conciliante, ma una lotta sanguinosa contro se stessi, gli altri e il mondo intero, in cui la sconfitta è un destino incontrovertibile. Parini mostra la difficoltà di raggiungere la gloria e la sua inconsistenza e vanità. La condizione degli scrittori è terribile, la loro vita è simile alla morte, ma questo destino va comunque seguito «con animo forte e grande» (551).

XII. Come scrive Binni, il Coro di morti che apre il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie è tra le poesie più singolari e inquietanti di Leopardi, corrispondendo alla volontà e alla capacità di far parlare il nulla: i morti sono la voce del nulla (come Leopardi stesso, mi permetto di aggiungere, perché tutta la sua opera, in versi e in prosa, nasce dal nulla e se ne fa portavoce [7]); non sono le anime di certe concezioni religiose più o meno fantasiose, ma semplicemente il nulla. Leopardi pone un’antitesi irriducibile: tra la vita e la morte non c’è alcuna possibilità di comunicazione, ma una assoluta diversità. Il Coro si conclude con l’estensione totale della mancanza di felicità e beatitudine ai vivi e ai morti (da questo punto di vista vita e morte si assomigliano, o meglio, non si differenziano, e si pensi alla conclusione del Dialogo di un Fisico e di un Metafisico [8]): «ch’esser beato / nega ai mortali e nega a’ morti il fato» (552). Impressionante poi, attraverso le parole del morto, l’immagine dei sepolcri innumerevoli che trasformano tutta la terra in un cimitero immenso, sterminato: «E non solo noi, ma in ogni cimitero, in ogni sepolcro, giù nel fondo del mare, sotto la neve o la rena, a cielo aperto, e in qualunque luogo si trovano, tutti i morti, sulla mezza notte, hanno cantato come noi quella canzoncina che hai sentita» (553). Un terrificante grido assordante ha dunque invaso il mondo per qualche istante.

I morti rivelano al celebre naturalista di non aver provato nessun dolore in punto di morte, nel momento esatto del trapasso, e non solo non hanno provato nessun dolore, ma neppure si sono accorti di morire: «Verbigrazia, come tu non ti accorgi mai del momento che tu cominci a dormire, per quanta attenzione ci vogli porre» (ibidem). Ruysch resta scettico, convinto che la morte sia un «dolore vivissimo», pregiudizio e luogo comune tipico dell’uomo del comunque vivere. Ma, replica il morto,

«come può essere che un sentimento vivo abbia luogo nella morte? anzi, che la stessa morte sia per propria qualità un sentimento vivo? Quando la facoltà di sentire è, non solo debilitata e scarsa, ma ridotta a cosa tanto minima, che ella manca e si annulla, credete voi che la persona sia capace di un sentimento forte? anzi questo medesimo estinguersi della facoltà di sentire, credete che debba essere un sentimento grandissimo? Vedete pure che anche quelli che muoiono di mali acuti e dolorosi, in sull’appressarsi della morte, più o meno tempo avanti dello spirare, si quietano e si riposano in modo, che si può conoscere la loro vita, ridotta a piccola quantità, non è più sufficiente al dolore, sicché questo cessa prima di quella. Tanto dirai da parte nostra a chiunque si pensa di avere a morir di dolore in punto di morte» (554).

Altro luogo comune radicato in Ruysch è quello relativo al rapporto corpo-anima, che non possono separarsi, secondo lui, «senza una grandissima violenza, e un travaglio indicibile». Ma lo spirito, domanda il morto, «è forse appiccato al corpo con qualche nervo, o con qualche muscolo o membrana, che di necessità si abbia a rompere quando lo spirito si parte? o forse è un membro del corpo, in modo che n’abbia a essere schiantato o reciso violentemente?» (ibidem). No, naturalmente, e la morte è piuttosto piacere che dolore: «ricordo […] che il senso che provai, non fu molto dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono addormentando» (554-555). La paura di morire del vivo è assolutamente ingiustificata, un pregiudizio, un luogo comune, perché la morte è in realtà l’unica soluzione possibile al dolore.

XIII. Con i suoi Detti memorabili Filippo Ottonieri, filosofo epicureo, pur condannando Epicuro, e socratico, fornisce un contributo importante al grande tema dell’infelicità: «Diceva altresì che ognuno di noi, da che viene al mondo, è come uno che si corica in un letto duro e disagiato: dove subito posto, sentendosi stare incomodamente, comincia a rivolgersi sull’uno e sull’altro fianco, e mutar luogo e giacitura a ogni poco; e dura così tutta la notte, sempre sperando di poter prendere alla fine un poco di sonno, e alcune volte credendo essere in punto di addormentarsi; finché venuta l’ora, senza essersi mai riposato, si leva» (558). Il destino di infelicità, di dolore, di distruzione riguarda ogni essere, indistintamente, ma la coscienza rende lo stato dell’uomo il più penoso e miserevole di tutti: «Osservando insieme con alcuni altri certe api occupate nelle loro faccende, disse: beate voi se non intendete la vostra infelicità» (ibidem).

Filippo Ottonieri, autentico malpensante, come si definisce Leopardi nei Paralipomeni della Batracomiomachia [9], il cui pensiero originale si discosta «dai giudizi comuni della moltitudine, e da quelli anco dei savi talvolta», sottolinea come nessuno stato sia felice, come la miseria riguardi tutti gli uomini, indistintamente, siano essi principi o servi, come non esista condizione così misera da non poter peggiorare, come la natura non abbia «posto alcun termine ai nostri mali», come l’uomo nasca esclusivamente per conoscere quanto sarebbe stato più conveniente non nascere:

«Dimandato a che nascano gli uomini rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente il non esser nato» (559).

XIV. Il Cantico del gallo silvestre [10] rappresenta l’esito più radicale ed estremo delle Operette morali (il Cantico sta alle Operette come il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia sta ai Canti [11]). Dopo aver ricordato che «a tutti il risvegliarsi è danno», il mitico animale si rivolge al sole, domandandogli se abbia mai visto «un solo infra i viventi essere beato», se pensa che di tutte le «opere innumerabili dei mortali […] vedute finora» almeno una abbia raggiunto il suo scopo, ovvero la «soddisfazione, o durevole o transitoria», di chi l’ha prodotta, se abbia mai visto «la felicità dentro ai confini del mondo», dove si trovi, «in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto», quale creatura ne prenda parte e infine se lui stesso, il sole, sia «beato o infelice» (575-576). Domande che restano senza risposta, con il gallo che torna a rivolgersi ai «mortali», purtroppo per loro non «ancora liberi dalla vita», sottolineando l’importanza fisica e morale del sonno: «Tal cosa è la vita, che a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte» (576). La vita è un peso, una «soma» insostenibile, che è necessario deporre di tanto in tanto per riprendere fiato e non lasciarsi schiacciare. Il sonno, «particella di morte», si configura come l’unico, vero conforto a disposizione dell’uomo, il suo «maggior bene», come dichiara la Terra in conclusione del suo dialogo con la Natura (519).

Il gallo enuncia una serie di verità negative che evidenziano il carattere doloroso e tragico dell’esistenza senza lasciare il benché minimo spazio alla speranza: scopo «proprio ed unico» dell’essere è morire; l’essere scaturisce dal nulla; nessuna cosa è felice, dunque non è la felicità la causa dell’essere, sebbene tutte le «creature animate» si propongano questo fine, senza riuscire mai a raggiungerlo, così che «in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte» (576). La morte è lo scopo ultimo – e unico – di ogni opera della natura e questo fa sì che «In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un appassire» (ibidem). Ogni singola parte dell’universo «si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile» (ibidem). Ogni uomo ed ogni altra creatura mortale viene al mondo per morire, scaturisce dal nulla per un capriccio del caso e soffre per morire, non c’è altro. L’universo stesso è destinato alla morte, alla distruzione e il Cantico si conclude proprio con una suprema immagine di devastazione cosmica che rappresenta il momento più cupo non solo delle Operette morali, ma dell’intera produzione di Leopardi:

«Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi» (576-577).

Conclusione poetica e non filosofica, specifica Leopardi in nota, perché, filosoficamente parlando, «l’esistenza, che mai non è cominciata, non avrà mai fine» [12].

XV. La decisione di Porfirio di togliersi la vita, come spiega egli stesso, non è motivata da nessuna sciagura, ma da un «fastidio della vita; da un tedio che io provo, così veemente, che si assomiglia a dolore e a spasimo; da un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare, toccare la vanità di ogni cosa che mi occorre nella giornata» (592). Sentimento della vanità non solo intellettuale e spirituale, ma fisico, tangibile, che può essere visto, gustato, toccato (Leopardi conferisce consistenza materiale a ciò che comunemente si crede immateriale, inconsistente e si pensi alla sua percezione fisica del nulla [13]). Tutti i piaceri sono vani, continua Porfirio, e il dolore stesso è vano, come anche il timore e la speranza. Solamente la noia, che «nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non inganno; mai non è fondata in sul falso. E si può dire che, essendo tutto l’altro vano, alla noia riducasi, e in lei consista, quanto la vita degli uomini ha di sostanzievole e di reale» (593). È la noia, solo ed esclusivamente la noia, a conferire concretezza e realtà alla vita degli uomini, e questo aspetto mostra quanto l’esperienza umana sia negativa e drammatica.

Plotino, tentando di distogliere l’amico dal proposito di suicidarsi, ricorre a Platone, la massima autorità filosofica, secondo il quale non è lecito all’uomo «sottrarsi di propria autorità da quella quasi carcere nella quale egli si ritrova per volontà degli Dei; cioè privarsi della vita spontaneamente» (ibidem). Porfirio replica scagliandosi violentemente contro Platone, reo di aver insinuato per primo il sospetto dell’esistenza di una vita sovrannaturale, oltre-la-morte, portando l’uomo a vedere nella morte una nemica da rifuggire, mentre essa sola rappresenta la liberazione dalla nostra permanente e necessaria condizione di infelicità e di sofferenza:

«Tuttavia la natura ci destinò per medicina di tutti i mali la morte: la quale da coloro che non molto usassero il discorso dell’intelletto, saria poco temuta; dagli altri desiderata. E sarebbe un conforto dolcissimo nella vita nostra, piena di tanti dolori, l’aspettazione e il pensiero del nostro fine. Tu con questo dubbio terribile, suscitato da te nelle menti degli uomini, hai tolta da questo pensiero ogni dolcezza, e fattolo il più amaro di tutti gli altri. Tu sei cagione che si veggano gl’infelicissimi mortali temere più il porto che la tempesta, e rifuggire coll’animo da quel solo rimedio e riposo loro, alle angosce presenti e agli spasimi della vita. Tu sei stato agli uomini più crudele che il fato o la necessità o la natura. E non si potendo questo dubbio in alcun modo sciorre, né le menti nostre esserne liberate mai, tu hai recati per sempre i tuoi simili a questa condizione, che essi avranno la morte piena d’affanno, e più misera che la vita. Perciocché per opera tua, laddove tutti gli altri animali muoiono senza timore alcuno, la quiete e la sicurtà dell’animo sono escluse in perpetuo dall’ultima ora dell’uomo. Questo mancava, o Platone, a tanta infelicità della specie umana» (ibidem).

La morte è l’unico, vero rimedio alla miserevole, infelice e dolorosa condizione umana ed è necessario liberarla da pregiudizi assurdi affinché l’uomo non sia privato anche della sua ultima e unica consolazione. Immaginando fantomatici luoghi ultraterreni di pena e/o beatitudine, ed è evidente come la critica di Porfirio-Leopardi investa anche la religione cristiana, Platone si è dimostrato più crudele di ogni tiranno e più spietato di ogni carnefice, facendo del timore, invece che della speranza, il «signore dell’uomo». Se negli altri animali della terra non scaturisce il desiderio di uccidersi, spiega Porfirio, è solamente «perché le infelicità loro hanno più stretti confini che le infelicità dell’uomo» (di nuovo gli effetti devastanti della coscienza).

Platone, con le sue dottrine sovrannaturali, spoglia l’uomo di qualunque possibilità di difesa dalla tortura continua e sanguinosa della natura, del fato e della fortuna. L’uomo, completamente disarmato, non può difendersi né evitare i loro colpi terribili. Così, dell’infelicità umana Platone è ancor più colpevole della stessa natura, perché questa almeno ha fornito all’uomo la posssibilità di porvi fine in qualunque momento. Il pensiero del suicidio è consolante e confortevole in sé, anche se non viene messo in atto: «quando ben la persona in effetto non si risolvesse a lasciar la vita, il pensiero solo di poter ad ogni sua voglia sottrarsi dalla miseria, saria tal conforto e tale alleggerimento di qualunque calamità, che per virtù di esso, tutte riuscirebbero facili a sopportare» (594-595). Ma il timore di incorrere, dopo la morte, in una miseria peggiore della presente, aggrava l’infelicità umana rendendola davvero insostenibile, così che «nessuna cosa nacque, nessuna è per nascere in alcun tempo, così calamitosa e funesta alla specie umana, come l’ingegno» di Platone (595).

Plotino obietta che il suicidio è contro natura, anzi, «l’atto più contrario a natura, che si possa commettere. Perché tutto l’ordine delle cose saria sovvertito, se quelle si distruggessero da se stesse» (ibidem). Porfirio sottolinea allora la necessità, la naturalezza dell’infelicità umana e domanda come possa essere contrario alla natura fuggire l’infelicità nell’unico modo a disposizione dell’uomo, ovvero togliendosi la vita, perché vivendo è impossibile evitarla. Plotino ribatte che l’idea del suicidio si manifesta solamente in coloro che vivono contro natura ed è assente nelle bestie e in quegli uomini «che hanno un modo di vivere naturale». Porfirio a sua volta evidenzia il dramma dell’uomo «incivilito», che, abbandonando lo stato naturale, non ha fatto altro che accrescere la propria miseria e la proprio infelicità. Egli vive contro natura, e se gli è lecito vivere in questo modo, perché deve essergli negata la possibilità di morire contro natura? Esempio di questa condizione innaturale dell’uomo «incivilito» è la medicina, che cura mali scaturiti proprio dalla condizione innaturale. Medicina e suicidio sono la stessa cosa: «Così questo atto dell’uccidersi, il quale ci libera dalla infelicità recataci dalla corruzione, perché sia contrario alla natura, non seguita che sia biasimevole: bisognando a mali non naturali, rimedio non naturale» (596). L’«assuefazione e la ragione hanno fatto in noi un’altra natura», alla quale il suicidio è conforme. È la ragione stessa, che ha prodotto questa seconda natura e la governa, a mostrare come la morte sia «il solo rimedio valevole ai nostri mali, la cosa più desiderabile agli uomini, e la migliore» (ibidem). Lo stile di vita dell’uomo «incivilito» è quanto di più lontano dalla natura e dunque «Perché questo solo atto del torsi di vita, si dovrà misurare non dalla natura nuova o dalla ragione, ma dalla natura primitiva? Perché dovrà la natura primitiva, la quale non dà più legge alla vita nostra, dar legge alla morte? Perché non dee la ragione governar la morte, poiché regge la vita?» (596-597).

La determinazione di Porfirio è impossibile anche solo da scalfire con argomenti filosofici e Plotino ricorre così ad argomenti meramente affettivi, più convincenti di qualunque ragionamento speculativo. In questo senso il suicidio si configura come una suprema manifestazione di barbarie e di egoismo:

«Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di non curante d’altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano» (598).

Inoltre, benché continui, incessanti, permanenti, i mali della vita che non sono frutto di «infortuni e calamità straordinarie, o dolori acerbi del corpo; non sono malegevoli da tollerare; massime ad uomo saggio e forte, come tu sei» (598-599). Infine, ed è certamente questa la motivazione più convincente fornita da Plotino, veicolante uno dei messaggi più estremi e radicali delle Operette morali, e dell’intera riflessione leopardiana, «la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a se, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla» (599). La vita non merita considerazione, tanto è insignificante e insensata, non merita che si lotti per lei né che ci si addolori a tal punto da togliersi la vita. Il fondamentale dialogo si conclude con la preghiera di Plotino a Porfirio, la preghiera di un uomo a un amico che ha deciso di uccidersi, e questo passo rappresenta il momento più affettuoso e tenero delle Operette morali:

«Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che gin qui è durata l’amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l’anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che così, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quest’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora» (ibidem).

La ragione è dalla parte di Porfirio, non c’è argomentazione che tenga, e Plotino, nel tentativo di distogliere l’amico dal pensiero del suicidio, deve ricorrere a motivi affettivi, semplici, persino sentimentali, ma decisamente più efficaci e giusti di qualunque dottrina filosofica.

XVI. A partire dalla seconda edizione delle Operette morali (1834), il Dialogo di Tristano e di un amico riveste quella funzione conclusiva rivestita, nella prima edizione del 1827, dal Dialogo di Timandro e di Eleandro [14]. Con un’ironia corrosiva, che si scioglie infine nella disperazione più cupa, Leopardi risponde alle numerose critiche che hanno colpito l’opera, nata da una speranza brutalmente disattesa: «mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse» (602). Ma così non è accaduto e delle Operette morali non è stata negata solo «qualche proposizione particolare, ma il tutto», ovvero la concezione dell’infelicità della vita, che costituisce il nucleo dell’intera riflessione e dunque dell’intera attività filosofico-letteraria di Leopardi. «Che v’ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice», dichiara ironicamente Tristano all’amico. A Tristano-Leopardi la vita sembra infelice, sostengono i suoi maligni detrattori, per «effetto d’infermità», o di qualche altra sua «miseria […] particolare», interpretazione semplicistica e crudele contro la quale l’autore protesta già nella lettera a Luois de Sinner del 24 maggio 1832 [15]. Ma di questa ridicola lettura Tristano finisce per ridere (è forse questa la più grande forza di Leopardi, la capacità di trovare conforto e nuova energia nel riso, senza cedere mai all’autocommiserazione), paragonando gli uomini ai mariti:

«I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del mondo sa che il vero è tutt’altro. Chi vuole o dee viver in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo» (ibidem).

In queste poche righe Leopardi rivela – e ridicolizza – una delle principali caratteristiche dell’uomo, ovvero la sua propensione a circondarsi di menzogne, di «scempiataggini» che nascondono, occultano il suo stato miserevole, ergendo su di esse intere civiltà. In questo contesto il malpensante, colui che pensa altrimenti, smascherando proprio quelle menzogne e «scempiataggini», riconducendo così l’uomo alla sua autentica e irriducibile dimensione miserevole, si trova in uno stato di esclusione, di biasimo, di condanna, di censura, di inascolto permanente, ed è per questo motivo che Carlo Michelstaedter (il più grande discepolo di Leopardi del XX secolo), nel 1910, come scrive nella Prefazione alla Persuasione e la rettorica, si ritroverà a ribadire per l’ennesima volta verità secolari:

«Lo dissero ai Greci Parmenide, Eraclito, Empedocle, ma Aristotele li trattò da naturalisti inesperti; lo disse Socrate, ma ci fabbricarono su 4 sistemi. Lo disse l’Ecclesiaste ma lo trattarono e lo spiegarono come libro sacro che non poteva quindi dir niente che fosse in contraddizione coll’ottimismo della Bibbia; lo disse Cristo, e ci fabbricarono su la Chiesa; lo dissero Eschilo e Sofocle e Simonide, e agli Italiani lo proclamò Petrarca trionfalmente, lo ripeté con dolore Leopardi – ma gli uomini furono loro grati dei bei versi, e se ne fecero generi letterari. Se ai nostri tempi le creature di Ibsen lo fanno vivere su tutte le scene, gli uomini “si divertono” a sentir fra le altre anche quelle storie “eccezionali” e i critici parlano di “simbolismo”; e se Beethoven lo canta così da muovere il cuore d’ognuno, ognuno adopera poi la commozione per i suoi scopi – e in fondo… è questione di contrappunto» [16].

Leopardi, con le Operette morali, sperava di farsi portavoce della sofferenza degli uomini, ma così non è stato e anzi gli uomini reagiscono indispettiti, dichiarando di non soffrire affatto, offesi dalla loro miseria. Il genere umano, e Leopardi può dire di averlo provato sulla propria pelle, «non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare» (ibidem). Tutte queste verità «sono poco a proposito di chi vuol vivere», ledono, offendono la sciocca superbia degli uomini, pretendono «coraggio e fortezza d’animo» in chi ne è consapevole, ma gli uomini sono «codardi, deboli, d’animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi a render l’arme […] alla loro fortuna, prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d’ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo» (ibidem). In tanta meschinità e disonestà intellettuale, in tanta povertà di spirito, a Tristano-Leopardi non resta altro da fare che ridere del «genere umano innamorato della vita». Intrappolato per sua scelta in questa rete d’inganni (dell’intelletto e non dell’immaginazione, come ci tiene a precisare l’autore), l’uomo ricopre l’umiliante ruolo di zimbello «della natura e del destino». La filosofia di Tristano-Leopardi, al contrario, sarà pure dolorosa – deve esserlo necessariamente, come la stessa vita -, ma «vera», procurando almeno «agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano» (603).

Rispondendo alle critiche, Leopardi sviluppa una feroce e implacabile critica del proprio tempo e della «profonda filosofia de’ giornali» caratteristica del secolo, misero come nessun altro nella storia dell’uomo: «In tutti gli altri [secoli], come in questo, il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo, in questo la nullità» (605). Così, mentre tutti gli «infimi si credono illustri, l’oscurità e la nullità dell’esito diviene il fato comune e degl’infimi e de’ sommi» (ibidem). Parole che corrispondono perfettamente alla nostra epoca, senza dubbio ancor più misera di quella di Leopardi.

Tornando al tema fondamentale dell’infelicità, Tristano, pur riconoscendo ironicamente la felicità generale (si ricordi, in questo senso, la Palinodia al marchese Gino Capponi), non riesce a riconoscere la propria: «mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario» (ibidem). Tristano si definisce «morto […] spiritualmente», la sua «favola della vita» (favola nel senso di rappresentazione scenica) è ormai conclusa e il pensiero di dover vivere ancora quaranta o cinquant’anni, «quanti mi sono minacciati dalla natura» (in questa condizione di infelicità permanente, irriducibile, disperata e disperante la vita non è che una minaccia), lo fa rabbrividire di paura. Tristano sente che la sua vita è agli sgoccioli e questa sensazione, quasi consapevolezza, rappresenta il suo unico conforto. Egli non invidia «i posteri, né quelli che hanno ancora a vivere lungamente»; un tempo ha invidiato «gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei» (606). Ogni sua fantasia riguarda la morte e nient’altro, non c’è più spazio per un pensiero diverso da questo e il rimpianto dei sogni giovanili «e il pensiero d’esser vissuto invano» non lo tormentano più come un tempo. Tristano morirà «tranquillo» e «contento», come se non avesse sperato né desiderato altro che questo nella sua vita:

«Questo è il solo benefizio che può riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall’altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi» (ibidem).

Terminano così le Operette morali, con questa cupa e solenne nota di disperazione. Il desiderio della morte suggella il libro di Leopardi, che dà libero sfogo al proprio dramma esistenziale, senza mediazioni. La filosofia della sofferenza si scioglie nella consolante consapevolezza della fine imminente, della vicinanza della morte, unica via di salvezza dal dolore. Al contrario dei Canti, che si concludono con una grandiosa allegoria della resistenza, rappresentata dalla Ginestra, le Operette morali si concludono con un lamento disperato, cupo e grave, sordo e nudo come il suono delle campane a morto. Perché è nell’ultima battuta di Tristano che muore Giacomo Leopardi.

NOTE

[1] Per un approfondimento sul romanzo rimando al contributo L’impotenza, la malattia mortale di Jacopo Ortis. Prima parte, Seconda parte.

[2] Per un approfondimento sul poeta lombardo rimando al contributo Breve itinerario pariniano.

[3] Giacomo Leopardi, Operette morali, in Id., Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici ed Emanuele Trevi, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 537. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.

[4] Del Dialogo di un Fisico e di un Metafisico ci siamo occupati nella seconda parte del presente contributo.

[5] «L’uomo è un mistero. Un mistero che bisogna risolvere, e se trascorrerai tutta la vita cercando di risolverlo, non dire che hai perso tempo; io studio questo mistero perché voglio essere un uomo» (Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, p. 26).

[6] Per un approfondimento sull’autore rimando al contributo Vittorio Alfieri, un ponte verso il Romanticismo.

[7] Per un approfondimento sull’incidenza del nulla all’interno della riflessione leopardiana rimando al contributo Giacomo Leopardi, il nulla.

[8] «[…] piena d’ozio e di tedio, che è quanto dire vacua, dà luogo a creder vera quella sentenza di Pirrone, che dalla vita alla morte non è divario. Il che se io credessi, ti giuro che la morte mi spaventerebbe non poco» (528).

[9] Per un approfondimento sul poemetto rimando al contributo Giacomo Leopardi, «Paralipomeni della Batracomiomachia»: il «libro terribile».

[10] Per un ulteriore approfondimento sull’operetta rimando al contributo Giacomo Leopardi, «Cantico del gallo silvestre»: dell’infelicità permanente e della distruzione.

[11] Per un approfondimento sul componimento e l’intera opera rimando ai contributi Giacomo Leopardi, «Canto notturno» ovvero l’inconveniente di essere nati, Giacomo Leopardi, «Canti»: la tragedia della nascita, la distruzione del mito, la resistenza.

[12] La conclusione cosmicamente distruttiva del Cantico del gallo silvestre riecheggia nella conclusione, altrettanto cosmicamente distruttiva, della Coscienza di Zeno: «Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quasi innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie» (Italo Svevo, La coscienza di Zeno, in Id., Romanzi, Mondadori, Milano 1985, p. 1117). Per un approfondimento sul romanzo di Svevo rimando al contributo La coscienza di Zeno: originalità e malattia della vita.

[13] «Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla» (Giacomo Leopardi, Zibaldone, edizione integrale diretta da Lucio Felici, Newton Compton editori, Roma 2016, 85, p. 90).

[14] Del dialogo ci siamo occupati, a guisa di introduzione, nella prima parte del presente contributo.

[15] Giacomo Leopardi, Epistolario, in Id., Tutte le poesie e tutte le prose, cit., pp. 1416-1417.

[16] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, pp. 35-36. Per un approfondimento sul filosofo, scrittore e poeta goriziano rimando allo studio Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter.

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