VI. Nel Dialogo della Terra e della Luna quest’ultima sgretola il mito dell’antropocentrismo e tanti altri sotto-miti ad esso collegati, di cui la Terra si fa portavoce, condizionata negativamente dai suoi abitanti, come la dottrina pitagorica della musica delle sfere celesti e l’illusione che tutti gli esseri dell’universo siano simili agli uomini:
«Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita o fantesca, come io sono. Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto. Io dico di essere abitata, e tu da questo conchiudi che gli abitatori miei debbono essere uomini. Ti avverto che non sono; e tu consentendo che sieno altre creature, non dubiti che non abbiano le stesse qualità e gli stessi casi de’ tuoi popoli; e mi alleghi i cannocchiali di non so che fisico. Ma se cotesti cannocchiali non veggono meglio in altre cose, io crederò che abbiano la buona vista de’ tuoi fanciulli: che scuoprono in me gli occhi, la bocca, il naso, che io non so dove me gli abbia» [1].
Tutte le ipotesi elaborate intorno alla Luna si rivelano mere illusioni e, per esempio, non si trovano su di lei l’amor patrio, la virtù, la magnanimità, la rettitudine, il senno, tutte cose perdute dall’uomo (Leopardi realizza così, sottilmente, un desolantissimo quadro della propria epoca). Solamente gli aspetti negativi dell’esistenza, di ogni esistenza, dell’essere in ogni forma, si trovano sia sulla terra che sulla luna: il male, l’infelicità, i difetti: «il male è cosa comune a tutti i pianeti dell’universo […]. E se tu potessi levare tanto alto la voce, che fossi udita da Urano o da Saturno, o da qualunque altro pianeta del nostro mondo; e gl’interrogassi se in loro abbia luogo l’infelicità, e se i beni prevagliano o cedano ai mali; ciascuno ti risponderebbe come ho fatto io» (518).
VII. Di tutti i partecipanti al concorso indetto dal collegio delle Muse per l’invenzione più lodevole (i vincitori sono tre: Bacco per l’invenzione del vino, Minerva per l’invenzione dell’olio, Vulcano per l’invenzione di una pentola «economica» che permette di cuocere i cibi velocemente e con un basso dispendio energetico), solamente uno non accetta il verdetto, l’eroico Prometeo, che ha proposto la sua invenzione dell’uomo, stimandola «la migliore opera degl’immortali che apparisse nel mondo». A questo punto scatta la scommessa tra lo sconfitto e Momo, dio della calunnia: «se in tutti cinque i luoghi, o nei più di loro, troverebbero o no manifesti argomenti che l’uomo sia la più perfetta creatura dell’universo» (521). Così Prometeo e Momo scendono sulla terra, in Sud America, e qui, dopo una lunga ricerca, s’imbattono in un gruppo di selvaggi. Prometeo si rivolge al «principale», intento a cibarsi della carne di suo figlio:
«Si accostarono i due celesti, presa forma umana; e Prometeo, salutati tutti cortesemente, volgendosi a uno che accennava di essere il principale, interrogollo: che si fa?
SELVAGGIO Si mangia, come vedi.
PROMETEO Che buone vivande avete?
SELVAGGIO Questo poco di carne.
PROMETEO Carne domestica o salvatica?
SELVAGGIO Domestica, anzi del mio figliuolo.
PROMETEO Hai tu per figliuolo un vitello, come ebbe Pasifae?
SELVAGGIO Non un vitello, ma un uomo, come ebbero tutti gli altri.
PROMETEO Dici tu da senno? mangi tu la tua carne propria?
SELVAGGIO La mia propria no, ma ben quella di costui: che per questo solo uso io l’ho messo al mondo, e preso cura di nutrirlo.
PROMETEO Per uso di mangiartelo?
SELVAGGIO Che maraviglia? E la madre ancora, che già non debbe esser buona da fare altri figliuoli, penso di mangiarla presto.
MOMO Come si mangia la gallina dopo mangiate le uova.
SELVAGGIO E l’altre donne che io tengo, come sieno fatte inutili a partorire, le mangerò similmente. E questi miei schiavi che vedete, forse che li terrei vivi, se non fosse per avere di quando in quando de’ loro figliuoli, e mangiarli? Ma invecchiati che saranno, io me li mangerò anche loro a uno a uno, se io campo» (521-522).
Prometeo e Momo si avvedono degli sguardi sinistri dei selvaggi, amorevoli come quelli lanciati dal gatto al topo, e volano via, passando dal mondo nuovo al più vecchio, l’Asia. Qui scendono tra una moltitudine di persone riunite attorno a una fossa colma di legna. Da una parte della fossa stanno degli uomini con le torce accese, dall’altra, su un palco, «una donna giovane, coperta di vesti suntuosissime, e di ogni qualità di ornamenti barbarici, la quale danzando e vociferando, faceva segno di grandissima allegrezza» (522-523). Prometeo immagina che si tratti di un’eroina pronta a immolarsi per la patria o per la propria virtù, una nuova Lucrezia, una nuova Virginia, una nuova Ifigenia. In realtà la donna non è altro che una vedova ubriaca, bruciata viva perché questo è il destino delle vedove in quel luogo. Scoperto ciò, Prometeo e Momo partono alla volta dell’Europa.
«Ma considera, caro Momo», risponde Prometeo alla caustica ironia del dio della calunnia, «che quelli che fino a ora abbiamo veduto, sono barbari: e dai barbari non si dee far giudizio della natura degli uomini; ma bene degl’inciviliti: ai quali andiamo al presente: e ho ferma opinione che tra loro vedremo e udremo cose e parole che ti parranno degne, non solamente di lode, ma di stupore» (523). Momo resta scettico e sottolinea l’evidente inferiorità dell’uomo rispetto agli animali, incapaci di crudeltà, il carattere del tutto casuale del processo di civilizzazione, e invita Prometeo a ribaltare la sua convinzione, «dicendo che esso è veramente sommo tra i generi, come tu pensi; ma sommo nell’imperfezione, piuttosto che nella perfezione» (ibidem). Tutte le creature sono perfette in se stesse, non hanno bisogno di evolversi, di progredire; l’uomo no, l’uomo è naturalmente imperfetto, selvaggio, barbaro, ha bisogno della civilizzazione per perfezionarsi. Stando così le cose, come può considerarsi perfetto un genere naturalmente imperfetto? A ciò si aggiunga la caducità della civiltà umana, sul punto di sparire da un istante all’altro. Prometeo non risponde alle considerazioni/provocazioni di Momo, perché i due hanno intanto raggiunto Londra, dove si imbattono in uno spettacolo terribile, il più terribile tra quelli descritti nell’operetta: un padre ha appena ucciso i suoi due figli e poi si è suicidato, semplicemente per «tedio della vita».
«Momo stava per congratularsi con Prometeo sopra i buoni effetti della civiltà, e sopra la contentezza che appariva ne risultasse alla nostra vita; e voleva anche rammemorargli che nessun altro animale fuori dell’uomo, si uccide volontariamente esso medesimo, né spegne per disperazione della vita i figliuoli: ma Prometeo lo prevenne; e senza curarsi di vedere le due parti del mondo che rimanevano, gli pagò la scommessa» (524).
Con un’ironia corrosiva e spietata, nella Scommessa di Prometeo Leopardi demolisce il mito dell’uomo, mostrandolo per quello che effettivamente è: il più imperfetto, feroce e crudele degli esseri.
VIII. «Eureca, eureca», esclama trionfante il Fisico, annunciando di aver trovato l’«arte di viver lungamente». Il Metafisico ridimensiona il suo entusiasmo, «Perché se la vita non è felice, che fino a ora non è stata, meglio ci torna averla breve che lunga» (525). Ma no, replica il Fisico, «la vita è bene da se medesima e ciascuno la desidera e l’ama naturalmente». «Così credono gli uomini», spiega il Metafisico, ingannandosi, perché ciò che loro amano davvero non è la vita, ma la felicità, o meglio, la possibilità di felicità offerta dalla vita. L’amore per la vita è un’illusione, non appartiene alla natura dell’uomo, come dimostrano i suicidi. Naturale non solo nell’uomo, ma in ogni altro essere vivente, è «l’amore della propria felicità». La vita felice sarebbe certamente un bene, «ma come felice, non come vita. La vita infelice, in quanto all’essere infelice, è male; e atteso che la natura, almeno quella degli uomini, porta che vita e infelicità non si possono scompagnare, discorri tu medesimo quello che ne segua» (526). Il Metafisico espone la sua teoria sulla brevità della vita (tanto più breve è la vita, tanto più è intensa e sopportabile), ma senza riuscire a persuadere il Fisico, intelletto scientifico ovvero grossolano e arido, uomo del comunque vivere, come lo definisce Binni, incapace di vedere il vantaggio della morte rispetto alla vita, prediligendo sempre quest’ultima. D’accordo, conviene il Metafisico, la vita è più bella della morte,
«Ma quando mi torna a mente il costume di quei barbari, che per ciascun giorno infelice della loro vita, gittavano in un turcasso una pietruzza nera, e per ogni dì felice, una bianca, penso quanto poco numero delle bianche è verisimile che fosse trovato in quelle faretre alla morte di ciascheduno, e quanto gran moltitudine delle nere. E desidero vedermi davanti tutte le pietruzze dei giorni che mi rimangono; e, sceverandole, aver facoltà di gittar via tutte le nere, e detrarle dalla mia vita; riserbandomi solo le bianche: quantunque io sappia bene che non farebbero gran cumulo, e sarebbero di un bianco torbido» (527).
A differenza del Metafisico, sostiene il Fisico, molti preferiscono aggiungere sassolini, accumularne il più possibile, anche se fossero tutti neri, convinti «che niun sassolino sia così nero come l’ultimo», e questi molti, tra i quali si colloca egli stesso, potranno aggiungere innumerevoli pietruzze grazie alla sua scoperta. Il Fisico dunque resta fermo nelle sue posizioni. L’ultima battuta dell’operetta è riservata naturalmente al Metafisico, che consiglia all’interlocutore di trovare
«un’arte per la quale sieno moltiplicate di numero e di gagliardia le sensazioni e le azioni loro [degli uomini]. Nel qual modo, accrescerai propriamente la vita umana, ed empiendo quegli smisurati intervalli di tempo nei quali il nostro essere è piuttosto durare che vivere, ti potrai dar vanto di prolungarla. E ciò senza andare in cerca dell’impossibile, o usar violenza alla natura, anzi assecondandola. Non pare a te che gli antichi vivessero più di noi, dato ancora che, per li pericoli gravi e continui che solevano correre, morissero comunemente più presto? E farai grandissimo beneficio agli uomini: la cui vita fu sempre, non dirò felice, ma tanto meno infelice, quanto più fortemente agitata, e in maggior parte occupata, senza dolore né disagio. Ma piena d’ozio e di tedio, che è quanto dire vacua, dà luogo a creder vera quella sentenza di Pirrone, che dalla vita alla morte non è divario. Il che se io credessi, ti giuro che la morte mi spaventerebbe non poco. Ma in fine, la vita debb’essere viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio» (527-528).
Nella maggior parte dell’esistenza l’uomo non vive, ma semplicemente dura, come una pianta ma senza avere l’incoscienza di una pianta, e piena d’ozio e di tedio, tra la vita umana e la morte non c’è alcuna differenza. La distinzione tra vivere e durare è forse il contributo più importante fornito da Leopardi nel Dialogo di un Fisico e di un Metafisico (insieme, senza dubbio, alla svalutazione del fantomatico amore della vita, in realtà nient’altro che amore della felicità), che non lascia spazio alla speranza, come di consueto, perché recuperare la dimensione esistenziale degli antichi non è possibile. Il punto di non ritorno è stato ormai superato, la ragione ha preso il sopravvento, per sempre, distruggendo l’immaginazione e immiserendo ancora di più l’uomo.
IX. Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, quest’ultimo spiega che tra la realtà e il sogno non vi è che una differenza: «Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello non può mai» (530). Tra un piacere reale e un piacere sognato non c’è differenza, e anche per questo motivo il sonno è il bene maggiore dell’uomo, come conclude la Terra nel suo dialogo con la Luna [2]. Il piacere stesso, spiega il Genio, è un «subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l’uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto, e non un sentimento» (ibidem). Il piacere è irreale e astratto, non esiste. Crediamo di godere o di aver goduto, ne parliamo agli altri, con entusiasmo, tentando di persuadere noi stessi, ma si tratta di un’illusione, di un credo falso e fantastico, come falso e fantastico è il sogno. Ecco perché «chiunque consente di vivere, nol fa in sostanza ad altro effetto né con altra utilità che di sognare» (ibidem). Il piacere «è sempre o passato o futuro, e non mai presente», «Che è quanto dire è sempre nulla». Diciamo di aver goduto oppure che godremo, mai che stiamo godendo. Emerge tutta la drammaticità della condizione umana, perché «l’obbietto e l’intento della vita nostra, non pure essenziale ma unico, è il piacere stesso; intendendo per piacere la felicità, che debbe in effetto esser piacere; da qualunque cosa ella abbia a procedere» (531). Mancando sempre, perennemente del suo fine, la felicità, la nostra vita è continuamente imperfetta e dunque, conclude Tasso, «il vivere è di sua propria natura uno stato violento» [3].
Dal tema del piacere si passa al tema della noia (sono queste le due colonne portanti dell’operetta, legate indissolubilmente), definita dal Genio come «desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere» (ibidem). Insoddisfatto il desiderio e impossibile il piacere, la vita umana «è composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall’una delle quali passioni non ha riposo se non cadendo nell’altra. E questo non è tuo destino particolare, ma comune di tutti gli uomini» (ibidem). Il sonno, l’oppio e il dolore sono gli unici rimedi alla noia, e l’ultimo è il più efficace di tutti. In conclusione dell’operetta, accomiatandosi da Tasso, il Genio evidenzia infine tutta l’insensatezza della vita umana:
«Così, tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla; che questo è l’unico frutto che al mondo se ne può avere, e l’unico intento che voi vi dovete proporre ogni mattina in sullo svegliarvi. Spessissimo ve la conviene strascinare co’ denti: beato quel dì che potete o trarvela dietro colle mani, o portarla in sul dosso» (532).
Non godere, non gioire, ma semplicemente consumare, esaurire la vita è l’unico obiettivo che deve porsi l’uomo svegliandosi; perché il piacere non esiste, è un «subietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto», «un concetto, e non un sentimento», perché al suo stato di infelicità permanente non c’è rimedio, perché la sua insensata esistenza «è composta e intessuta» di dolore e di noia, componenti organiche, connaturate, strutturali e dunque ineliminabili, se non attraverso l’eliminazione della vita stessa.
X. L’Islandese, che ha passato gran parte della sua vita a fuggire la Natura, si ritrova faccia a faccia con essa, donna gigantesca «di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi». Perché fuggirla, domanda la Natura? Precocemente consapevole della vanità della vita e della stoltezza degli uomini, che combattono in continuazione tra di loro per acquistare piaceri che non dilettano e beni che non giovano, infliggendosi infiniti mali, l’Islandese, «disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie», non si pone altro pensiero che tenersi lontano dai patimenti. Così l’Islandese lascia la società e si rifugia nella solitudine, abbandona la «vita civile» e inizia a viaggiare per il mondo in cerca di un luogo climaticamente adatto al suo proposito di quiete, «per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire» (534). Ma egli è stato «arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove» (ibidem). All’inospitalità della terra si aggiungono le malattie e l’Islandese non ricorda di «aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena». Il suo proposito di quiete si è rivelato un’utopia ed egli leva la sua vibrante accusa alla Natura, che si erge come un’erma colossale davanti a lui:
«mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl’incomodi che ne seguono» (535).
Terribile la risposta della Natura, dalla quale emerge tutta la sua implacabile, suprema indifferenza:
«Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei» (ibidem).
La terribile, spietata risposta della Natura esaspera l’Islandese, perfettamente consapevole che ella non abbia «fatto il mondo in servigio degli uomini», anzi, piuttosto il contrario, che lo abbia «fatto e ordinato espressamente per tormentarli». A questo punto l’Islandese pone alla Natura una domanda in cui è concentrata tutta la frustrazione e tutta la disperazione dell’uomo dotato di uno spirito critico, dell’uomo consapevole e che rappresenta forse il quesito alla base dell’intera attività filosofico-letteraria di Leopardi:
«t’ho io forse pregato di pormi in questo universo?» (535-536)
L’uomo non decide di nascere, eppure è costretto a subire tutto il male dell’universo, perché tutto ciò che è, è male:
«Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive» [4].
L’uomo si trova così in una condizione di disperazione estrema, la cui portata dolorosa e annichilente è racchiusa, con una efficacia straordinaria, difficilmente eguagliabile, proprio nella domanda dell’Islandese. Il Dialogo della Natura e di un Islandese si colloca esattamente a metà delle Operette morali, ne è il centro, il fulcro e la domanda dell’uomo rappresenta, come dire, il centro del centro, il fulcro del fulcro, il nocciolo originario. È la constatazione, e insieme la contestazione, dell’impotenza dell’uomo nell’universo, della sua piccolezza, della sua insignificanza, della sua inutilità, della sua caducità, della sua fondamentale insensatezza (non può avere senso ciò che nasce esclusivamente per un colpo del caso) a ispirare la scrittura delle Operette morali e, più in generale, dell’intera produzione filosofico-letteraria di Leopardi.
La risposta della Natura è, se possibile, ancora più terribile della precedente, basata su una concezione completamente, aridamente materialistica dell’essere, in cui il dolore è condizione necessaria alla stessa esistenza, spaventosa conditio sine qua non:
«Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento» (536).
Il male è organico, connaturato, strutturato all’essere (come la noia e il dolore lo sono alla vita umana), senza l’uno non può esistere l’altro. Non c’è scampo:
«Anzi appunto l’ordine che è nel mondo, e il veder che il male è nell’ordine, che esso ordine non potrebbe star senza il male, rende l’esistenza di questo inconcepibile. Animali destinati per nutrimento d’altra specie. Invidia ed odio ingenito de’ viventi verso i loro simili […]. Altri mali anche più gravi ed essenziali da me notati altrove nel sistema della natura ec. Noi concepiamo più facilmente de’ mali accidentali, che regolari e ordinarii. Se nel mondo vi fossero disordini, i mali sarebbero straordinarii, accidentali; noi diremmo: l’opera della natura è imperfetta, come son quelle dell’uomo; non diremmo: è cattiva. L’autrice del mondo ci apparirebbe una ragione e una potenza limitata: niente maraviglia; poichè il mondo stesso (dal qual solo, che è l’effetto, noi argomentiamo l’esistenza della causa) è limitato in ogni senso. Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario, mutabile; se oggi v’è del male, domani vi potrà esser del bene, esser tutto bene. Ma che sperare quando il male è ordinario? dico, in un ordine ove il male è essenziale?» [5].
L’Islandese pone ancora una domanda, a chi piaccia o a chi giova questa «vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono», ma due leoni lo sbranano, oppure una violenta e improvvisa tempesta di sabbia lo seppellisce vivo. In ogni caso l’Islandese muore, nella più completa disperazione (la consapevolezza, vera e propria malattia mortale, è all’origine della sua vita più drammatica di tutte le altre). Termina idealmente qui la prima parte delle Operette morali.
NOTE
[1] Giacomo Leopardi, Operette morali, in Id., Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici ed Emanuele Trevi, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 517. D’ora in poi il numero di pagina tra parentesi nel corpo del testo.
[2] «Ora io non voglio essere causa di spaventare la mia gente, e di rompere loro il sonno, che è il maggior bene che abbiano» (519). Di questa operetta ci siamo occupati nella prima parte del presente contributo.
[3] Nostro il corsivo.
[4] Giacomo Leopardi, Zibaldone, 4174, edizione integrale diretta da Lucio Felici, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 898.
[5] Ivi, 4511, p. 1000.